Capitolo 3 (parte due)

Cosimo

«Lo so che non è facile avere due persone nuove che ti gironzolano attorno, ma volevo dirti che... con il passare del tempo andremo d'accordo o comunque impareremo a convivere» erano le sue parole.

Pfff, dieci minuti in questa casa e crede già di esserne la padrona.

Ma chi diamine si crede di essere?

Il corridoio non era neanche tanto lungo, era più corto di quanto me lo ricordassi. La mia stanza era troppo vicina alla sua, a un passo da ciò che mi faceva star male.

E ora lei era lì, nella mia casa, nella stanza a fianco, a ricordarmi che mio padre si era fatto una nuova famiglia e che forse ero io il più estraneo.

Sbattei la porta della mia stanza enorme e non la chiusi nemmeno a chiave, non credevo proprio che quella ragazzina mi avrebbe corso dietro dopo quello che le avevo appena riferito.

Lo pensavo davvero, non erano solo parole dettate dalla rabbia: io lei non la volevo, non solo nella mia casa, ma nella mia vita. Non volevo che qualcun altro distruggesse quel poco che mi era rimasto della mia famiglia.

Abbassai velocemente la cerniera della felpa e me la tolsi buttandola sul letto. Mi misi davanti allo specchio che era a fianco al guardaroba e mi guardai le bende che avevo sulle braccia. C'erano segni di sangue e alcune chiazze erano più scure di altre. Pian piano le tolsi, facendo attenzione a non rovinare la pelle nuova che si era formata. Feci un respiro e studiai il mio braccio sinistro, quello messo peggio.

Bruciava.

Sentivo il bruciore penetrare nella pelle, andare sotto le vene.

Sentivo le arterie pulsare.

Facevano male.

Percepivo il mio respiro pesante e arrabbiato dentro di loro.

Ma poi mi concentrai: dovevo allenarmi, scaricare la tensione una volta per tutte. Presi una maglietta termica dal mio armadio e delle nuove bende. Feci attenzione a non metterle troppo larghe, altrimenti si sarebbe macchiata la maglia.

In men che non si dica mi trovai nel seminterrato con i guantoni da boxe a prendere a pugni un sacco. Faceva bene scaricare la rabbia, mi ripeteva sempre lo psicologo che mi aveva seguito per un paio di mesi appena i miei genitori si erano separati. Mi diceva che esternare il dolore era l'unico modo per andare avanti, ma non era vero. Mi aveva raccontato un sacco di balle, motivo per cui avevo smesso di andarci appena compiuti i diciotto anni.

Non potevo dire di stare meglio, ma non ero di certo nemmeno migliorato. Negli ultimi anni me l'ero messa via che non sarebbe cambiato nulla, dovevo solo riuscire a convivere con il dolore. E a dirla tutta, in quel momento l'unico modo per convincerci era sentirlo fino alle ossa.

Dopo aver sfinito completamente braccia e polsi, mi dedicai alle gambe. Mi tolsi i guantoni e mi sistemai in mezzo a una corda. Iniziai a fare dei piccoli saltelli, per poi velocizzarli in modo da non farmi venire crampi ai polpacci.

A un certo punto sobbalzai, sentendo qualcuno entrare dalla porta. In mezzo secondo intuii che fosse mio padre.

«Cosa ti serve?» domandai con voce un po' acida, essendo ancora arrabbiato.

«Niente, volevo avvisarti che c'è pronto da mangiare...» comunicò a bassa voce e io continuai a dargli le spalle. «Ti sei fatto male per caso?»

Sbuffai per la domanda. «Dove?»

«Sul braccio... hai del sangue sulla maglia...»

Spalancai gli occhi e pensai subito a una scusa valida da inventarmi. Innanzitutto dovevo mantenere la calma. Se avessi perso il controllo, si sarebbe reso conto delle mie bugie. «Ho tirato troppo forte e mi è finito il sacco da boxe sul naso. È solo un po' sangue e va via appena la maglietta andrà in lavatrice.»

«Non sono preoccupato per la macchia sulla maglietta... ma per te. Ti stai facendo spesso male ultimamente, non credi che sia meglio andarci un po' più piano con lo sport?»

Lo sport era l'unica cosa che mi teneva in vita, quindi la mia risposta era un no definitivo e categorico. Non gli risposi, continuai con il salto della corda e a pensare all'allenamento del giorno successivo.

«Vedo che siamo tornati come prima...» Già. «Com'è andata con Matilde finché io e Gioia eravamo via? Ti sei comportato bene? Avete chiacchierato di qualcosa in particolare?»

Feci spallucce, fermandomi per bere un goccio d'acqua. Mi asciugai anche i capelli, perché erano grondi di sudore. «Sì?» risposi ironicamente, facendo un sorrisetto divertito finché me ne andavo lasciandolo lì da solo.

Andai a farmi una doccia per due motivi. Il primo era perché puzzavo quanto un maiale e il secondo era per non incontrare nessuno dei tre. D'ora in avanti mi sarei impegnato a mangiare fuori orario o sarei andato spesso da Luca.

Appena uscii dalla porta per portare i vestiti che avevo usato per allenarmi nella cesta dei vestiti sporchi, qualcosa mi venne addosso, o forse era meglio dire qualcuno. Impossibile non capire chi fosse, vista la chioma di capelli neri che mi trovavo dinanzi.

«Scusami, non ti ho visto uscire dal bagno» sussurrò con un filo di voce.

«Pensa a dove metti i piedi, ragazzina!» esclamai per metterla a disagio.

«C'è pronto, vieni a mangiare?»

Ma perché si ostinava così tanto a seguirmi? Le avevo detto chiaro e tondo di non rivolgermi nemmeno la parola e lei cosa faceva? Era lì più o meno da quattro ore e mi aveva cercato e parlato almeno tre volte!

Sfoderai il mio sorriso migliore e risposi. «Grazie, Matilde», scandendo bene il suo nome.

Mi osservò. Ero ancora senza maglietta, ma non si vedeva nessun taglio, perché erano ben coperti dai vestiti sporchi appoggiati sulle braccia. Non ero così stupido da girare in certe condizioni e farmi scoprire, soprattutto da una ragazzina antipatica come lei.

«Cosa c'è da fissarmi in questo modo?»

Allungò una mano su una piccola cicatrice sul mio addome e la accarezzò leggermente prima che mi spostassi bruscamente. «Cosa ti è successo?»

Risi, una risata amara. «Niente che ti riguardi.» Presi e me ne andai ancora una volta.

*

Tutti a tavola stavano aspettando solo me per mangiare. Nessuno di loro aveva mosso una forchetta o un bicchiere. Erano tutti immobili, seduti composti, ad aspettarmi.

«Oh eccoti arrivato!» esclamò Gioia, felice di vedermi. «Si stava freddando il piatto...» continuò, ma sua figlia la interruppe, forse per paura che facessi finta di fraintendere di nuovo le sue parole.

«Ma sei arrivato appena in tempo.» Sorrise lievemente.

«Buon appetito» disse mio padre, impaziente di mettere qualcosa sotto i denti.

«Buon appetito» ricambiarono e io rimasi in silenzio.

Sollevai la forchetta e mescolai il guanciale insieme alla carbonara. Matilde mi stava osservando di sottecchi, compassionevole, e io sostenni il suo sguardo.

A chisi arrende per primo.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top