♰ VII - ᴛʜᴇ ᴘᴏsɪᴛɪᴠᴇ ᴛᴜʀɴ ᴏғ ᴇᴠᴇɴᴛs

[Canzone del capitolo: Torino - Peter White.]

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La volta celeste era così limpida e splendente, malgrado le sfarzose luci del casinò Flamingo, che Elizabeth non faceva altro che chiedersi come potesse mai essere reale. In effetti, si disse, probabilmente non lo era: a Claude sarebbe bastato agitare una mano e il firmamento sarebbe mutato a suo piacimento.

Seduti sulla terrazza dell'hotel, l'uno di fronte all'altra, Übel ed Elizabeth erano in completo silenzio da decine di minuti. I loro sguardi si attiravano e respingevano di continuo, incrociandosi e distogliendosi, accostandosi e allontanandosi. Indecifrabili, sembrano arrivare addirittura a bramarsi, talvolta, e poi finivano inevitabilmente per cambiare direzione e posarsi, distratti e costretti, su un qualsiasi particolare cui l'attenzione non veniva neanche rivolta veramente.

Il mutismo che avvolgeva i due giovani come una pesante coperta era così ricco di caos da apparire inverosimile; eppure esso non era teso, inquieto: era calmo, sereno, riassestante. Tranquillizzava a tal punto che il fracasso proveniente dal salone festoso era solo rumore di fondo.

I capelli corvini acconciati da un solo lato, le ginocchia tirate al petto e circondate dalle braccia gracili, il mento poggiato su di esse; questi erano solo minimi accorgimenti che si potevano scorgere nell'osservare l'adepta del Peccato Capitale della Lussuria. Ella teneva il capo leggermente inclinato verso destra, gli occhi socchiusi, le dita delle mani che talora si intrecciavano, talora giocavano, talora carezzavano con noncuranza l'anello d'argento che le adornava l'indice sinistro.

Pareva deconcentrata, ma forse era solo troppo meditabonda: così assorta da non sembrarlo, così riflessiva da mostrarsi priva di pensieri.

Rimuginava secondo dopo secondo sulla serata che stava trascorrendo: gli altri erano dentro a divertirsi come persone normali, e lei? Lei percepiva il gelo di quella notte sulla propria pelle, il freddo del muro contro le proprie spalle, il vuoto del cuore dentro al proprio corpo.

Poteva quasi riuscire ad ascoltare le risate spensierate di Finn e Niko mentre issavano i bicchieri e li facevano scontrare nel tintinnio di un brindisi; a riecheggiare attorno a lei, invece, non c'era niente e qualsiasi appiglio di felicità sembrava solo un riverbero non desiderato.

Quella di potersi divertire per qualche ora le era apparsa un'illusione così bella, così concreta che Elizabeth era arrivata persino a crederci e, peggio, sperarci. La permanenza al Flamingo si stava rivelando una soffocante routine alla quale la violinista voleva trovare una via di fuga; talmente tanto da farle anelare con estrema frenesia di scappare via, evadere come ambirebbe un detenuto.

E una festa somigliava terribilmente all'agognato abbandono di quel luogo, perché la scozzese sarebbe stata lì col corpo ma non con la mente. Sarebbe stata disattenta, superficiale, immatura come non mai. Ma non se ne sarebbe dovuta preoccupare, poiché le conseguenze avrebbero fatto il resto e a ciascun giorno sarebbe bastata la sua pena.

Inoltre l'occasione si era mostrata perfetta per rimandare ancora i conti con la notizia della malattia; Elizabeth vi avrebbe pareggiato le somme più tardi, più avanti. Ella pensava che sino a quando la conoscenza trasmessale da Claude sarebbe rimasta solamente tale, non c'era di che affannarsi: la verità può sempre essere sincera e limpida, ma non è mai reale, almeno non finché la si pronuncia ad alta voce a qualcun altro con fermezza, e quindi la si accetta.

Fino a quando la corvina avrebbe tenuto per sé le parole del suo mentore, queste sarebbero state vere, ma non reali, non corporee. Sarebbe stata necessaria una semplice bugia a coprirle e rendere esse stesse menzogna.

In sostanza, Elizabeth non ne avrebbe parlato con alcuno, avrebbe stroncato qualsiasi conversazione a riguardo e non vi avrebbe rivolto la minima riflessione. La malattia sarebbe stata invisibile com'era stata sino ad allora.

«Ehi, uomo di latta.» Esordì d'un tratto la fanciulla, volgendosi verso il biondo che le era di fronte. Egli, con la fronte appena corrugata, girò a sua volta il viso verso di lei.

Claude le aveva chiesto di stare tutta la serata insieme, e Übel non aveva battuto ciglio. Non ne aveva motivo, gli ordini erano ordini ed egli non aveva chissà quale problema a obbedire; d'altronde, stare in silenzio da solo, in mezzo alla gente o con un'isterica davanti agli occhi non faceva molta differenza: il tedesco avrebbe ignorato qualsiasi provocazione a prescindere.

«Mh.» Mugugnò infatti egli, in un semplice mugolio d'assenso. Giusto per far capire di aver ascoltato la chiamata della più piccola, affinché quest'ultima non cominciasse a parlare a radiolina per attirare la sua attenzione.

«Al mattino manca ancora tanto tempo.» Proseguì dunque Elizabeth, puntando le iridi nere come la pece sulla figura del diciannovenne. Egli si era voltato nuovamente, teneva lo sguardo perso, vacuo, un ginocchio piegato un braccio poggiato su di esso.

La scozzese si prese qualche secondo di troppo per osservarlo, anche se Übel non ci fece neppure caso: non era il tipo da interessarsi a ciò che lo circondava. In ogni caso, nel mirarlo, Elizabeth dovette ammettere a se stessa che l'altro poteva vantare di un profilo di una bellezza tale da mozzare il fiato: era proporzionato così bene, con il naso dritto, i lineamenti spigolosi e taglienti, la mascella serrata che vibrava assieme al suo pomo d'Adamo ogni qual volta il giovane deglutisse... Übel appariva quasi perfetto, talmente tanto da dimostrarsi innaturale e finto, a tratti. Come se un fascino simile non potesse essere genuino, o anche solo esistente.

Le sue labbra sottili, su cui la violinista aveva fugacemente posato la vista, si contrassero in una appena visibile smorfia di sufficienza, mentre il biondo rispondeva con l'ennesimo "mh" e si passava una mano tra i capelli dorati. E, per quanto Übel li acconciasse distrattamente, erano irrimediabilmente aurei.

Elizabeth si ritrovò, senza accorgersene, a roteare gli occhi in un gesto di esasperazione; le era venuto naturale, quasi fosse un'azione meccanica, tante le volte che la compiva. E poi, Übel cominciava seriamente a farle perdere la speranza del benché minimo dialogo.

«Hai intenzione di restare zitto tutta la notte?» Sbuffò quindi ella, mentre andava a sorreggersi una guancia con la mano sinistra.

«Sarebbe un problema?» Ribatté l'adepto dell'Ira, con così tanta calma e velato disinteresse che la corvina non poté fare a meno di domandarsi come potesse mai essere possibile che un tipo come lui fosse stato scelto per divenire la personificazione di un Peccato Capitale e, più precisamente, di quello che coinvolgeva la rabbia più ardente.

Il tedesco lo nascondeva bene, ma sotto gli spessi strati di pazienza si trovava un pozzo inesauribile di collera velenosa, rovente e fatale, poiché essa era stata soppressa così a lungo da diventare una specie di esplosivo compatto. Al momento giusto, Übel sarebbe esploso in un impeto d'odio bollente, e avrebbe distrutto tutto ciò che gli si trovava attorno. Yvonne ne era certa, per questo l'aveva privilegiato tra miliardi di persone in circa due secoli di servizio.

«Mi stai seriamente chiedendo se sarebbe un problema restare in silenzio per tutta la notte?» Gli fece eco Elizabeth, dopo essersi ripresa dalla pacatezza del maggiore. Ella spalancò lievemente le palpebre e socchiuse appena la bocca, come a far notare all'altro quanto fosse ovvia la risposta.
«Per te no, magari!» Borbottò infatti la diciassettenne, in un brontolio quasi infantile.
«Ma per me sì. Non me ne starò con le mani in mano mentre tu-»

«Bene.» La interruppe prontamente Übel, senza neppure lasciarle finire la lamentela. Puntò le iridi cerulee, chiare quanto il ghiaccio più polare nei pozzi scuri della ragazza che aveva di fronte e, semplicemente, pronunciò: «Parliamo.»

Elizabeth non poté fare a meno di conservare la stessa espressione stordita di poco prima. Al contrario di qualche minuto precedente, però, la sorpresa era stata piacevole.

«Quindi...»

«Come va?» La bloccò Übel per la seconda volta, il tono piatto e privo di qualsiasi sfumatura che ancora padroneggiava la sua voce scura. Non aveva utilizzato la minima emozione nell'esporre quella domanda, che sembrava così piantata lì a caso che Elizabeth quasi la scambiò per un'affermazione. Ma essa era, semplicemente, un sottile commento sarcastico che voleva scimmiottare il fatto che chiunque iniziasse una conversazione con un "come va?" o un "come stai?".

Il tedesco teneva lo sguardo glaciale puntato perfettamente di fronte a sé, incatenato con quella della sua interlocutrice, a tal punto da intimorirla. Non nel senso che era inquietante o spaventoso, ma intimidiva, perché era così fermo e penetrante da apparire in grado di perforare anche la più dura delle pietre. Metteva in soggezione, e l'adepta della Lussuria quasi immaginò, stupidamente e per un solo istante, che il più grande potesse leggerle ciascun pensiero attraverso i due pozzi azzurri.

Per questo ella sbatté le palpebre un paio di volte, prima di distogliere le proprie iridi e puntarle altrove.

«"Come va" che cosa?» Sibilò dunque, austera; si era sentita talmente debole, nel non aver saputo fronteggiare a pieno l'occhiata dell'altro, che risultare più rigida del solito era stata la strada più semplice da intraprendere. Doveva essere intoccabile, lei: percepirsi fragile non era positivo; e non lo era neppure percepire la propria corazza insormontabile venir scalfita, anche solo lievemente.

Se una pietra veniva tolta a quel muro invalicabile, lei ne avrebbe aggiunto subito un'altra.

«Non lo so.»
Übel ispirò profondamente dalla bocca, socchiudendo appena le labbra sottili e rosee, dopodiché si voltò anch'egli nella direzione in cui anche Elizabeth guardava senza mirare veramente. E anch'egli volse l'attenzione al cielo stellato; lo scrutò, ma senza mai contemplarlo davvero.

Rimase lì a fissare i puntini di luce candida, ma con la mente si trovava in tutt'altro luogo: si trovava tra le storie che sua madre gli raccontava quand'egli era un bambino. Delle favole della buonanotte, o almeno una sorta. Favole che servivano per fargli abbassare le palpebre più in fretta, affinché il dolore subìto sino ad allora, quello che lo aveva stremato così tanto da farlo crollare, non fosse eccessivo anche per farlo riposare tra le ferite ancora aperte e ardenti.

Trascorsero forse un paio di minuti prima che il giovane di Amburgo aggiungesse di non sapere come "potesse andare qualcosa". La gente, d'altronde, non gli chiedeva "come va" e, se gli veniva posto un quesito simile, egli non replicava. Non aveva importanza rivelare informazioni tanto private, soprattutto perché non erano mai state positive.

Nell'udire quell'ammissione, sul viso di Elizabeth parve nascere un minuscolo sorriso; ella non se ne accorse nemmeno, e Übel di certo non si era girato per notarlo: egli teneva ancora gli occhi persi tra le costellazioni.

«Tu non ti fidi proprio di nessuno, non è così?»

A prima vista, Übel poteva apparire come uno che, semplicemente, era al di sopra di ciò che lo circondava; al di sopra delle azioni che si susseguivano dinanzi a lui, al di sopra delle parole che gli giungevano alle orecchie, al di sopra delle scene che si ripetevano come una cassetta avvolta e riavvolta senza sosta. Sembrava quel tipo di persona a cui non interessano i pettegolezzi, quel tipo di persona che è troppo saggia per farsi coinvolgere in piccolezze del genere. Eppure, il diciannovenne era più che un intelligente indifferente. Egli era, molto probabilmente, colui che meno riponeva fede in un qualunque individuo, a prescindere da chiunque esso fosse.

Elizabeth lo aveva compreso quando lo aveva sentito rispondere, giorni prima, alla domanda di Finn: "hai un amico, finisce in mezzo agli squali e viene mangiato. Dai la colpa agli squali oppure a quello che l'ha fatto cadere?"

Lei avrebbe dato la colpa a chi aveva spinto. Neppure la scozzese era il tipo da confidare in chi le stava attorno, ma se c'era una cosa sicura, era che per lei i cattivi erano sempre gli altri. Mai aveva dubitato della propria giustizia, né del proprio essere nella ragione. E, anche adesso che non aveva memoria del suo passato, ella credeva fermamente di non essere mai stata in errore.

"Tu non ti fidi di nessuno."
Quella frase, per quanto potesse esser stata pronunciata in tono interrogativo, rimbombava nella psiche del tedesco come un'asserzione. Un qualcosa di certo, di plausibile e logico.

Era totalmente vero, Übel non poteva negarlo: neanche Yvonne, che era la più vicina a lui, o Niko e Finn, con i quali egli condivideva il ruolo di adepto da anni, vantavano del più piccolo spiraglio della sua fiducia. Assolutamente nessuno era mai riuscito, in tutta l'esistenza del ragazzo, a guadagnarsi la sua stima.

E ciò era anche ragionevole, per lui: aveva sofferto così tanto, fisicamente e spiritualmente, da arrivare a non provare più nulla. Non si fidava di nessuno, era vero: ma perché mai avrebbe dovuto?

«Tu ti fidi di qualcuno?» Fu comunque il suo responso, freddo e pacato. Übel abbandonò la visuale della volta celeste e, lentamente, calò gli occhi sulla figura della corvina che aveva avanti a sé.

Elizabeth si strinse nel vestito e, dopo aver ricambiato lo sguardo del più grande, lo alzò verso la luna, fissandone la luce emanata.

«Fidarmi di qualcuno...»
Mormorò dopo un po' di meditazione, scrollando le spalle con indecisione. Si fidava di qualche persona, lei? Beh, quand'era piccola si fidava ciecamente di Axel: lui era la sua spalla forte, la sua anima gemella; avrebbe potuto proporle di buttarsi giù da un burrone e, molto probabilmente, la ragazzina l'avrebbe fatto. Adesso, però, ella non sapeva bene neppure quale fosse la reale sensazione di fede. Claude sicuramente non poteva decantare di possedere la stima della sua adepta, così come gli altri Peccati Capitali. Niko e Finn erano suoi amici, sì, ma era troppo presto affinché l'ultima arrivata del gruppo facesse affidamento su di loro senza esitare. Übel, infine, chiudeva la cerchia di conoscenze della scozzese ma, per quanto Elizabeth sentisse di poter sperare in lui, non vi riponeva ufficialmente fiducia.

La diciassettenne si arrese e, sospirando, tornò a guardare il tedesco di fronte a lei, il quale ancora la osservava e attendeva una risposta.
«Forse.» Fu questa, pronunciata con incertezza. Elizabeth non se la sentiva di negare, perché sarebbe stata una verità incompleta, ma non se la sentiva neppure di affermare di confidare totalmente in taluno. Quella sarebbe stata una bugia.

«Forse ti fidi di qualcuno.» Le fece eco Übel, inarcando appena le sopracciglia bionde per sottolineare quanto quella frase gli apparisse ridicola. No, no e no. Per lui bisognava affidarsi solo a se stessi, perché era convinto che gli altri lo avrebbero pugnalato alle spalle alla prima occasione.
«"Forse" non è una risposta.» Aggiunse dopodiché, poggiando dunque la nuca alla ringhiera di metallo gelido quanto le sue iridi che, pungenti, incrociavano ancora quelle della minore.

«Va bene.» Annuì la corvina. Si portò una mano dietro la testa, contrapponendola tra quest'ultima e il muro. Ancora, si accertò che i suoi occhi determinati fossero ben piantati in quelli dell'altro.

Non gli aveva dato ragione qualche secondo prima, non del tutto almeno. Approvare ciò che chi le stava intorno proferiva era sempre relativo per lei; dovevano avere tutti un po' torto, rispetto ai suoi confronti. Era una questione di orgoglio e principio che andava avanti da anni.

Per questo Elizabeth non si fece attendere e, poiché aveva una sorta di mania nel mettere in dubbio la correttezza altrui, aggiunse: «Ma tu come replichi se non conosci la risposta?»

I capelli, dorati quanto il grano, di Übel toccavano ancora la ringhiera del terrazzo. Il giovane lanciò un'occhiata alla manica della camicia nera, la quale si era sbottonata per sbaglio; la aggiustò, calmo, e dedicò attenzione anche al colletto. Dopodiché riprese a scrutare le stelle; sua madre gli raccontava che queste, in realtà, erano Angeli che conducevano i feriti - in corpo e in spirito - verso la morte, offrendo così loro una quiete che sarebbe durata per l'eternità.

Mentre rimuginava su tale storia, il tedesco affermò, come se fosse stata la cosa più ovvia da asserire, che se non conosceva la risposta lui non ribatteva. Al contrario di Elizabeth, infatti, egli non teneva così tanto a mettere il proprio ego dinanzi a tutto. Era più freddo, più minuzioso nei calcoli; per niente poteva descriversi impulsivo e perdeva le staffe solo se c'era in ballo qualcosa che per lui contava davvero. Era un tipo coraggioso, ma non come gli eroi dei libri, come i generali che guidano il proprio esercito in battaglia o come coloro che sono disposti a gareggiare contro ogni avversità pur di trionfare.
Übel era coraggioso come chi è andato incontro, durante la sua vita, a un dolore così abissale da piangerci sino a non aver più lacrime a disposizione, sino a non avere più la più pallida idea di come sfogare tale frustrazione. Uno strazio così vasto da condurre chi ne subisce le conseguenze a un limbo infinito, all'interno del quale ci si trova in uno stato di trance, di pseudo-tranquillità, di certezza. Certezza riguardo a un futuro che, sebbene sia ancora in grado di riservare sofferenze, non sarà mai capace di riservarne di simili a quelle vissute e che quindi non accadrà più nulla.
Un vuoto rigonfio di pienezza, e appunto talmente massiccio da apparire come cavo.

Coraggioso dunque come chi non ha niente da perdere e, di conseguenza, nulla da temere.

Übel non possedeva nulla per cui valesse la pena lottare e per tale motivo sarebbe potuto essere quasi intoccabile. Ma ciò lo rendeva misterioso, più di quanto non apparisse già, di fronte a Elizabeth.

Doveva esserci qualcosa che gli dava la forza di tirare avanti perché, come la corvina aveva riscontrato in quei pochi giorni, stringere un accordo con un Demone corrispondeva a un vero e proprio suicidio. Quindi il tedesco doveva possedere una fonte dalla quale attingere per procrastinare la follia, era imperativo. Secondo la violinista, era impossibile sopravvivere a dodici anni di patto sprovvisti di aspettative verso il futuro.

Un uomo in un deserto riesce a restare in vita grazie ai miraggi, che gli forniscono l'energia necessaria a non demordere e a cercare altra acqua. Ma Übel non aveva intravisto nessuna oasi a placare il calore delle fiamme dell'Inferno, a tal punto che, molto probabilmente, si era abituato così tanto alla sete da non percepirla neppure più.

Eppure Elizabeth, nel pensarci, non riusciva a darsi per vinta. Ella continuava imperterrita a ragionare sulla persona che le si trovava dinanzi; rifletteva sul suo passato, considerando tutte le possibile cause che avevano portato il ragazzo a divenire ciò che era. Uno spirito così polare, così frantumato, così inflessibile non nasce dal nulla.

Übel era, oramai, una bambola senz'anima, stracciata, cucita e ri-cucita. E, benché l'adepta della Lussuria non avesse la più pallida idea del perché di tale essere, aveva intenzione di scoprirlo.

Erano trascorsi diversi minuti, in un mutismo analogo a quello di circa un'ora e mezza prima, quando i due giovani servitori non avevano ancora intrapreso quella conversazione. L'uno ad alternarsi tra i pensieri dell'altra e viceversa, adesso entrambi tergiversavano il silenzio, rimandandolo a quando sarebbero stati abbastanza sereni da vantare di una mente cava, libera.

Sarebbe diventata una routine, per Elizabeth, quella di prendere parola e cominciare un dialogo col biondo. In diverse occasioni, forse più che di un dialogo si sarebbe trattato di un monologo da parte della scozzese, intervallato dai monosillabi e dai mugugni del più grande. Proprio come stava accadendo durante quella notte di inizio ottobre, quando la corvina univa le stelle con lo sguardo, come a formare un disegno immaginario, e cercava risposte a quesiti di cui non le sarebbe interessato granché se ella non fosse stata così annoiata e Übel così strano.

«Stringere un patto come il nostro...» Esordì d'un tratto la fanciulla, mentre si apprestava a concatenate le proprie iridi con quelle del maggiore. Egli la guardava pacato, come di consueto, con la solita linea retta a caratterizzargli le labbra sottili e l'espressione vuota a padroneggiare sul suo viso, simile a una scultura troppo bella per esser stata prodotta da mani d'uomo.

L'ascoltava zitto, e anche il suo intelletto sembrava darsi tregua alle parole della più piccola.

«Stringere un patto come il nostro equivale a lanciarsi giù da uno strapiombo. È precipitare incontro a morte incontestabile perché sembra essere l'unica alternativa.» Con calma, la diciassettenne dal lungo abito blu cobalto abbassò gli occhi sul marchio che le adornava l'avambraccio sinistro. Vi passò i polpastrelli della mano destra ad accarezzarlo con estrema delicatezza, fin quando non culminò col lambire, flebilmente, anche l'anello che portava all'indice sinistro. Un semplice monile d'argento, un monile dato in sorte a lei e a lei soltanto, perché sarebbe stata l'unica e legittima proprietaria del cognome che portava.

"Maleun". In arabo: "maledetta".

«Niko mi ha spiegato,» riprese poco dopo, rialzando lo sguardo verso l'adepto dell'Ira, «che ogni accordo è legato a un trauma. Lo si stringe solo perché si spera in ciò che ci viene promesso. Si spera in un futuro migliore, o almeno in un qualcosa che sia capace di farci tirare innanzi.»

Übel ricordava bene l'attimo in cui aveva accettato di servire Yvonne, di prendere il suo posto al momento opportuno. Quando ci ripensava, riusciva quasi a sentire l'odore del sangue invadergli le narici piccole e deboli, il sapore ferroso del liquido cremisi scorrergli lungo la gola e le ultime ferite bruciare ancora, roventi come mille spade infuocate che lo trapassavano tutte contemporaneamente con i loro metalli incandescenti. Era un dolore atroce ripercorrere le torture della sua infanzia attraverso le memorie, ma la sofferenza era incomparabile rispetto a quando questa era stata vissuta. Rispetto a quando la pelle lattea del tedesco era stata scalfita e sporcata di rosso. Rispetto a quando il suo cuore si era ghiacciato, e pietrificato, forse fino al non battere più.

«Vuoi sapere qual è stato il mio trauma?»

«Voglio sapere in cosa speri per sopravvivere, Übel.»
Tale la richiesta della scozzese di fronte all'ipotesi scocciata del biondo. Egli aveva creduto così tanto che la ragazza gli avrebbe domandato del suo passato che si era già posizionato sulla difensiva e aveva attaccato per non essere aggredito.

Ma Elizabeth era così diversa da come il tedesco si aspettava...
Elizabeth era differente da qualsiasi altra persona; era un carattere nuovo, imprevedibile. Individuabile abbastanza da sapere di non poter essere mai individuata davvero. Era una ventata d'aria fresca, il suo sapore era quello di un susseguirsi di opportunità sprecate e sere passate ad attendere qualcuno che non arriva. Era una novità non solo perché l'ultima giunta, ma soprattutto perché non mescolabile agli altri.

Se durante una situazione sofferta chiunque avrebbe confidato in un "mi dispiace", lei non ne avrebbe pronunciato nemmeno mezza sillaba. Perché sapeva che preoccuparsi era inutile e che a ciascun attimo sarebbe bastato il suo tormento.

Era stata sopra le mine per imparare a camminare. E ora riusciva a correre solo se sotto ai suoi piedi c'erano ordigni.

«Voglio sapere in cosa riponi la tua speranza quando rimugini sul patto.»
Ferma, Elizabeth inarcò appena le sopracciglia corvine, come a sottolineare la propria richiesta. Voleva conoscere cosa aveva spinto Übel - e gli altri adepti - a stringere il patto, sì; ma per quello avrebbe aspettato. Ciò che le importava in quegli istanti era apprendere della tempra che metteva in salvo il diciannovenne, quella che gli permetteva di restare vivo malgrado le circostanze poco favorevoli.
Il servitore dell'Ira ispirò profondamente l'ossigeno della brezza gelida di quella notte; ancora una volta, rivolse le pupille dilatate al cielo, osservando le stelle che, come schizzi di vernice bianca su di una tela oscura, vi donavano barlume. Guardò gli Angeli, quelli che conducevano all'Aldilà: chissà se, dopo essere passata oltre, la gente diveniva parte di quella schiera celeste e accompagnava verso lo stesso destino chi teneva ancora le suole delle scarpe ben piantate nel terreno.

La speranza, pensò, era un qualcosa di troppo astratto; a tal punto da apparirgli come irreale. Gli sembrava una promessa che nessuno sarebbe mai stato in grado di mantenere, come quando qualcuno sta per morire e gli viene ripetuto che andrà tutto bene. Una bugia, ecco, proferita solo per preservarsi dal soffrire ulteriormente. Ma alla speranza, a quella vera, Übel non si era mai approcciato neppure da lontano. Non ci aveva mai avuto a che fare, come era avvenuto per l'amore, mai percepito neanche a fior di pelle, o per qualsiasi altra forma di affetto. Come la gioia effettiva, che il tedesco non aveva conosciuto nemmeno riflessa negli occhi degli altri, o la fiducia, che mai era stata collocata in taluno. Come l'ammirazione, l'apprezzamento di qualcosa che non fossero morte e sofferenza che mai lo avevano riempito.

O come la calma, la quiete, il sollievo, che mai erano giunti in soccorso, in conforto. Mai Übel Dunkel si era sentito bene, durante nessun giorno che avevano composto i suoi diciannove anni.

Quindi no, Übel non confidava in niente. Egli viveva solo di pseudo-sicurezze, secondo le quali Yvonne avrebbe mantenuto l'accordo e gli avrebbe concesso ciò che più somigliava alla serenità. O meglio, all'assenza di strazio.

«Non ripongo la mia speranza in alcun avvenimento, Elizabeth. Così come non la ripongo in alcun oggetto e, tantomeno, in alcuna persona.» Il tedesco abbassò nuovamente il capo per poter guardare Elizabeth, mentre teneva ancora la nuca poggiata contro il metallo della ringhiera.
«Sono solo certo di avere con me la quasi totale sicurezza della parziale lealtà del Peccato Capitale cui sono legato.» Aggiunse poi, con una semplicità disarmante, come se non ci fosse stata fede più facile e ovvia.

«Quasi totale sicurezza della parziale lealtà di Yvonne...» Ripeté fra sé e sé l'adepta della Lussuria, scuotendo la testa per sottolineare, assieme al tono marcato, quanto ridicole le apparissero alcune parti di quell'affermazione.
Asserire di vantare la "quasi totalità" di una sicurezza equivaleva a possederne solo uno spicchio; parlare di lealtà, poi, e correlarla a un Demone... be', tutto risuonava relativo a riguardo.

Elizabeth dovette impegnarsi per non scoppiare a ridere in faccia al biondo; era solita esagerare in molte delle sue reazioni, e quel contesto le sembrava più che appropriato per fare una delle sue scenate da regina indiscussa del sarcasmo. Ciononostante, la diciassettenne pensò che forse era meglio restare zitta ancora un po'. D'altronde, non voleva beccarsi una di quelle occhiate da parte di Übel che, avrebbe potuto scommetterci ogni bene, molto probabilmente sarebbero state in grado di trafiggerla quanto una lama.

«Ragionaci con sincerità, uomo di latta...» si limitò quindi a fargli notare, accompagnando la frase con quel nomignolo che a Übel cominciava a dare tanto fastidio.
«Tu non hai niente.»

Entrambi i giovani incrociarono gli sguardi, incatenandoli l'uno con quello dell'altra e viceversa. Il tempo sembrò fermarsi, com'era accaduto la prima sera, ma stavolta l'attimo era molto più fugace, molto più sfuggente, e l'atmosfera si presentava sicuramente molto più gelida di com'era apparsa giorni addietro.

In effetti, Elizabeth non aveva torto: Übel non possedeva altro se non perplessità che sarebbero potute crollare in un momento qualsiasi. Inoltre, il diciannovenne aveva cercato con troppo fervore di convincersi che ciò che Yvonne gli prometteva sarebbe durato per sempre. Il Peccato non aveva mai infranto il patto: non c'era stata occasione in cui il suo servitore non fosse stato ricompensato secondo quanto il giuramento garantiva; tuttavia, Übel non poteva godersi il lusso di non mettere in discussione il suo futuro: Yvonne era comunque uno dei bracci destri di Satana. E poi, stando ai pareri di Elizabeth, la personificazione dell'Ira era alquanto volubile: la scozzese non si sarebbe mai fidata di lei, assodato.

Mentre osservava la più piccola frugare in una borsetta, alla ricerca di qualcosa, il tedesco decise di chiederle in cosa sperasse lei. Se la violinista pretendeva di sapere che per andare avanti bisognava sperare in un'emozione, in un evento, in un individuo, voleva dire che per lei era così. A questo punto tanto valeva domandarglielo, soprattutto dopo averle concesso di apprendere la sua versione.

«Se io non ho niente, tu cos'hai?» Replicò dunque, inarcando appena un sopracciglio dorato.

Sulle labbra di Elizabeth, tinte a dovere di un colore simile al prugna, si formò una lieve curva, tanto estranea e sconosciuta al maggiore. Egli infatti, di fronte al flebile sorriso dell'altra, mantenne lo sguardo duro e, quando la corvina abbassò leggermente il proprio, quasi la squadrò confuso. Non capiva la fonte di un'espressione simile, troppo lontana dal suo essere freddo e distaccato.

Ma Elizabeth stava percorrendo, per quanto le fosse possibile, i frammenti della memoria riguardante Axel e il suo continuo confidare nella positività. Al momento, le uniche reminiscenze di cui la fanciulla disponeva erano di due conversazioni - una sotto le stelle, l'altra nella camera di casa loro. Erano poche, decisamente, ma sufficienti abbastanza purché l'adepta della Lussuria potesse colmarsi di gioia ogni volta. Più che i ricordi in sé, erano le sensazioni a riscaldarle il petto; quella percezione di casa, che non veniva collegata all'edificio, bensì alla persona. E, forse più che alla persona stessa, Elizabeth collegava il concetto di "casa" al tepore, alla protezione, alle braccia forti di suo fratello.

Übel non aveva mai provato nulla del genere, quindi non poteva comprenderla; ma pensò che, per quanto fatale potesse sembrargli, doveva essere... piacevole, o simili.

«Cos'ho io per andare avanti...»
La diciassettenne rise, in maniera appena udibile. Guardò ancora l'anello d'argento e ne accarezzò delicatamente il cognome inciso: "Maleun". Le piaceva così tanto percepire il senso di famiglia, di unione, di complicità. Il suo sorriso vacillò per un attimo, quando la ragazza dai corti capelli neri si sentì vuota nel realizzare che Axel era, a detta di Claude, assente. Che non c'era, non più.

Ma la violinista rialzò lo sguardo e, forzato un sorriso somigliante al precedente, rispose alla domanda di Übel.

«Credo che, per sopravvivere, io possegga solo i ricordi di mio fratello.»
Elizabeth lasciò cadere le mani lungo i fianchi e si alzò. Si acconciò le piccole pieghe che il suo abito blu aveva prodotto nel restare per ore stropicciato, a contatto con il pavimento, la parete e l'aria pungente di quella notte polare. Compì un paio di passi in avanti, facendo risuonare il rumore dei tacchi alti, e infine tornò a sedersi, stavolta accanto al tedesco. Egli la seguì con le iridi cerulee in ogni suo singolo movimento, persino nella più breve movenza che le ciocche della sua chioma avevano intrapreso, sfiorate dal vento autunnale. Quando la giovane gli si posizionò affianco, Übel girò il capo e lo chinò leggermente, per diminuire la differenza d'altezza che intercorreva tra i due adepti.

Venti centimetri di divergenza si notavano, senza tacchi. Si notavano eccome.

«Più che di mio fratello, penso di aver memoria della sua filosofia.» Osservandola, Elizabeth mostrò cosa stava cercando poco prima: si rigirò una sigaretta, spenta, tra l'indice e il medio della mano sinistra, e si dilettò a giocherellarci mentre spiegava.

«Axel...» Prese un respiro profondo, dunque si strinse nelle spalle. «Axel si affidava ciecamente al meglio. Desiderava ardentemente una prospettiva migliore sia per me che per lui, distante dalla routine sbagliata, distante dalla povertà di casa nostra, distante dagli errori che eravamo costretti a commettere entrambi.»

Ricordava bene, questo era certo, il modo in cui Alexander le aveva insegnato a rubare, a truffare per restare in vita. Non era giusto, e di ciò ne erano sicuri ambo i Maleun. Ma non c'era alternativa, non a Skye, e la cosa gravava sulle coscienze di tutti e due.

«Mio fratello era un folle.» Nuovamente, Elizabeth si lasciò sfuggire un lieve risolino. Übel la ascoltava nel mutismo più completo e la mirava mentre lei teneva gli occhi puntati di fronte a sé, persa nelle immagini del passato, e incurvava le labbra verso il cielo.
«Credeva fermamente che ci sarebbe stata la svolta positiva di ogni evento.» Proseguì la fanciulla, accertandosi di marcare per bene quel "fermamente".
«Ecco, vedi...» Si fermò, solo per potersi volgere verso Übel e potergli sorridere leggermente di più.
«Lui affermava che sì, chiunque avesse detto che "ciò che non ti uccide ti fortifica" aveva ragione. Pienamente.»

Tornata a fissare la sigaretta, che ancora doveva cominciare a bruciare ed emanare l'odore di tabacco, Elizabeth sollevò la cicca all'altezza del proprio viso. La esaminò in ogni lato, da cima a fondo, mettendosi quasi a contare le pagliuzze di foglie seccate, arrotolate nella carta bianca.
«Aveva ragione anche mio fratello: il male non giunge mai per nuocere. Ciò che non ti uccide ti fortifica e, se ci pensi, l'unico istante in cui muori è quando il tuo cuore si rifiuta di battere.»

Per quanto Elizabeth gli avesse chiesto di farlo, Übel non riusciva a pensare a nulla. La sua mente era tabula rasa mentre ascoltava la più piccola discorrere. Axel, poi, era davvero saggio. Sua sorella lo considerava forse più stolto, talvolta, ma lo scozzese vantava sicuramente di un carisma senza paragoni.

«Pensava che le stelle ci sono, e brillano... anche se non le vedi.» Volse lo sguardo alla volta celeste e ne percorse le linee tracciate dal firmamento.

«Se lo avessi conosciuto...» Riprese dopo poco la più piccola, ma presto si rese conto che, probabilmente, il tedesco non era il tipo che avrebbe notato la grande fede di Axel. Quindi, non prima di aver commentato mentalmente con un "forse proprio tu no, Übel", si affrettò a correggersi e continuare:
«Chiunque lo avesse conosciuto avrebbe dedotto, sin da subito, che mio fratello era pazzo. E anche che... maybe... egli sperava in tutto ciò che gli si presentava innanzi.»

Rise ancora un po', un po' più forte, e si portò le ginocchia al petto. Qui vi appoggiò un braccio per sorreggersi e, sotto alla guancia sinistra, posizionò la rispettiva mano. Piegò quindi il capo in quella direzione e, somigliante a una bambina, distolse di nuovo lo sguardo così da perdersi tra i ricordi.
«Magari la prima affermazione era corretta: Axel era un pazzo, sì. Altrimenti non ci sarebbe altra spiegazione.»
Di fianco l'espressione glaciale del più adulto, Elizabeth sorrise come non faceva da tanto.
«Ma non credeva in ogni cosa, no...» La diciassettenne scosse appena la testa, come a rafforzare tale negazione.
«Nell'istante in cui abbandoni la speranza che le situazioni migliorino, hai l'assoluta sicurezza che non miglioreranno.»
Finalmente, gli sguardi dei due adepti si concatenarono per l'ennesima volta.
«Credeva in questo, mio fratello.»

«È a questo che ti affidi tu?» Riuscì solo a proferire Übel, conclusosi il discorso della minore. Egli aveva la voce roca per essere rimasto muto per così tanto tempo, perciò dovette tossire prima di riprendere.
«Ti affidi alla svolta positiva degli eventi, per sopravvivere?»

«Una fiducia tanto cieca e avventata era arte solo di Alexander Maleun.» Rispose prontamente la corvina, tornando a scuotere il capo.
«Ma è l'unica cosa che mi resta» aggiunse ben presto, «ed è l'unica cosa in cui posso permettermi di confidare.»

Si stiracchiò, senza apparire scomposta. D'altronde, anche nel difetto e nell'imperfezione, Elizabeth sarebbe stata semplicemente incanto. Dopodiché portò la sigaretta alle labbra e, tenendola ancora spenta e tra l'indice e il medio sinistri, elencò a Übel ciò che aveva perduto durante la sua esistenza. Gli parlò della memoria cava, della continua incertezza, del disagio. Gli illustrò la miseria di Skye, la maniera in cui - fin da piccola - era stata costretta a rubare per sopravvivere. Gli narrò del suo quotidiano, così privo, così povero, così carente. Se non ci fosse stato Axel a colmare il vuoto lasciato dai genitori, quello lasciato dalle condizioni umili in cui vivevano, quello della solitudine che li avvolgeva ogni qual volta i due si separavano... Se non ci fosse stato Axel, l'alternarsi del dì e della notte, per Elizabeth, sarebbe stato un totale disastro sin dal principio.

«Posso solo tentare di sperare nella svolta positiva degli eventi.» Concluse infine, mentre si stringeva nel vestito blu, per il pizzicorìo del gelo.
«D'altronde, ho richiesto al destino più di quanto potessi avere.»

Solo in quel momento, le iridi azzurrissime di Übel e quelle nerissime di Elizabeth tornarono a toccarsi. Un contrasto così forte distingueva i due giovani, eppure essi sembravano legati da un qualcosa di superiore a ogni potenza. La forza che muove il Sole e le altre stelle, come cantava Dante Alighieri, probabilmente sarebbe stata inferiore a quella che contrassegnava le anime dei due adepti.

«Cos'hai ottenuto dalla tua richiesta, dunque?» Fu solo in grado di domandare Übel, ancora incapace di pronunciare qualsiasi altra parola.

E, come se avesse cercato di rimpicciolirsi all'interno dell'abito, Elizabeth incurvò nuovamente gli angoli della bocca verso l'alto. Non sfiorò l'empireo, ma ci era vicina.

«Chi prova ad avere di tutto, Übel, alla fine rimane con niente.»

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ANGOLO AUTRICE
Dovrei smetterla di aggiornare alle due di notte con capitolo scritti in sessioni di cinque ore per volta. Dovrei decisamente smetterla, sì.
Questo capitolo è molto più lungo di come mi aspettassi - ma va, aggiungerei - ma spero che vi sia piaciuto ugualmente. Spero di aver gestito abbastanza bene l'equilibrio tra dialoghi e introspezioni, in modo che il tutto non fosse eccessivamente pesante. Fatemi sapere se ci sono riuscita!
Well, passiamo a noi. Questa è la prima parte di una scena che si dividerà in due capitoli. Doveva finire diversamente, il tutto, ma ho deciso di accorpare la conclusione di questo capitolo all'inizio del prossimo, in modo da alleggerire un po' il primo. Ma, ad ogni modo, come vi è sembrata questa parte?
Mi sono divertita tantissimo nel mostrare come Übel ed Elizabeth stessero per saltarsi addosso, in certi punti, mentre mi ha davvero fatto piacere scrivere di altri momenti in cui sembravano entrambi in "pace". Se ci fosse stato Niko, al diavolo la bomba atomica!
By the way, quali sono le vostre considerazioni sui personaggi presentati? Ancora una volta, ho approfondito i caratteri e la fede di Übel e di Axel - anche se indirettamente per quest'ultimo - e, inoltre, vi ho fatto conoscere una sfumatura nascosta del carattere di Elizabeth, quella più calma, riflessiva e profonda. Quale dei tre personaggi preferite e, tra l'Elizabeth impulsiva, sarcastica, cocciuta e quella presentata in tale capitolo, quale vi piace di più? Sono curiosa di saperlo!
Noi ci vediamo col prossimo capitolo, in cui vi chiedo di stare bene attenti a qualcosa che avverrà, capirete voi il perché!
Inoltre, prestate tanta attenzione ai riferimenti sui personaggi delle fiabe (come il commento che Elizabeth fa su Übel, chiamandolo spesso "uomo di latta"). Non sono casuali.
Alla prossima!
Chapeau,

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