♰ IV - ɪ'ʟʟ ʙᴇ ᴀғʀᴀɪᴅ ғᴏʀ ʙᴏᴛʜ
[Canzone del capitolo: Lovely - Billie Eilish ft. Khalid]
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♰ Skye, Scotland.
About three years before.
La notte si stendeva sulla casetta scozzese, appartenente a Elizabeth e Alexander, come un coprente manto; solo le stelle, chiaramente visibili grazie all'inesistente inquinamento luminoso, punteggiavano tale quadro come schizzi di vernice bianca su di una tela completamente nera.
«Sei strana ultimamente. Cosa succede?»
Axel si era alzato dal letto che condivideva con sua sorella solo per raccattare una tavolozza dai colori sbiaditi, un pennello dalle setole rovinate e un tubetto quasi del tutto privo di tempera.
Così come la minore dei Maleun aveva fatto progredire la sua passione secondo i lussi altrui, analogamente anche il più grande si era appassionato all'arte.
Sin da bambino, quando i suoi genitori erano ancora in vita, il giovane aveva protratto una certa simpatia nei confronti delle illustrazioni dei libri, quelle colorate, a matita, ad acrilico, a pastelli a olio. Mai aveva abbandonato tale interesse, sebbene non lo avesse affatto coltivato in maniera quasi fanatica come invece aveva fatto Elizabeth con il proprio.
Nondimeno il ragazzo si dilettava spesso a disegnare esigue vignette sulla pelle cadavericamente pallida della quattordicenne, rendendola la tela migliore che egli avesse mai posseduto.
Axel era perdutamente innamorato di sua sorella, ma non di quell'amore eccitante e coinvolgente che infiammava i cuori degli infatuati; bensì amava la fanciulla come solo un fratello saprebbe fare: attraverso le continue protezioni, il continuo sapere che la fanciulla corrispondeva alla perfetta metà del suo cuore.
Elizabeth era per Axel la sua migliore amica, così come egli lo era per lei. Un legame indissolubile, che neppure la più potente delle forze ineffabili sarebbe riuscita a lesionare anche solo minimamente.
Si trattava di un qualcosa di inscindibile, di eterno e inesorabile.
Lei era sua sorella e lui sapeva precisamente quando ella avesse bisogno di un abbraccio, di una risata, di svago. Non avevano tanto, era vero, ma era ugualmente sufficiente, poiché all'uno bastava la presenza dell'altra per stare bene, e viceversa.
«Non succede nulla di preoccupante.» Rispose semplicemente la corvina dai corti capelli, dei quali si rigirava una giocca tra due dita affusolate della mano sinistra.
Ella teneva lo sguardo perso a vagare senza meta nella propria camera mentre, coperta solo dal lenzuolo nella parte sovrastante del corpo, lasciava che la schiena gelida e nuda si facesse lambire dal freddo pungente del mese di dicembre.
Se ne stava seduta sul proprio letto ad attendere che il maggiore scovasse il necessario per carezzarle la carnagione sin troppo chiara con delle delicate pennellate di colore scuro.
Da tempo difatti la quattordicenne anelava di godere di un particolare schizzo sulla propria cute: una bozza ritraente le due effe del prezioso Stradivari.
«Ultimamente... Ultimamente sono un po' stanca.» Sospirò poco dopo Elizabeth, voltando leggermente il capo così da poter mirare con la coda dell'occhio suo fratello che si apprestava a tornare da lei con il necessario per il disegno tra le mani.
«"Stanca" in che senso?» Ribatté quest'ultimo, mentre si sedeva delicatamente sul letto, dietro la più piccola. Ne sfiorò la pelle chiarissima con la punta delle dita, ancora le sopracciglia corvine lievemente inarcuate a causa della confusione provata nell'udire la precedente affermazione della scozzese.
«Di cosa?»
«Stanca di questa nostra vita, questa nostra routine infruttifera e pessimista. Stanca come... uhm...» Elizabeth si girò completamente, il lenzuolo immacolato le copriva il seno e la pancia. Cercò a lungo una giusta similitudine da offrire all'altro, una metafora esaustiva. Eppure si voltò ancora, poiché l'unico paragone che era riuscita a trovare derivava in parte dalla propria situazione. Una situazione che si protraeva da anni oramai, ma della quale il maggiore in quella stanza non era a conoscenza.
«Stanca come una persona ammalata.» Esordì così ella, dopo un paio di minuti passati in silenzio. Durante questi aveva ascoltato solo il respiro suo e del fratello intrecciarsi e respingersi nel mutismo e nel buio della camera e il flebile suono del pennello che le accarezzava le zone ai lati della spina dorsale. Il tocco era riguardoso, quasi Axel avesse percepito timore nell'incertezza di poterle arrecare sofferenza con un contatto tanto impercettibile.
La giovane aveva distolto lo sguardo, nero come la pece, tornando a farlo viaggiare lungo le pareti del vano, talvolta lasciandolo stanziarsi sul pavimento rovinato.
Uno sguardo triste, malinconico, colpevole: uno sguardo che sapeva di essere bugiardo e che, per tale ragione, era costretto a fuggire via, lontano.
«Una persona ammalata?»
«Sì...» Elizabeth annuì, appena.
«Hai... Hai mai conosciuto una persona ammalata? O particolarmente in angoscia, o... Non saprei. Una persona che non è in pace, né con sé, né con gli altri...»
Il tono continuava a sospendersi, probabilmente perché la mente scorreva tra i ricordi, le fobie, le sensazioni, e che quindi non riusciva a soffermarsi sulle parole che la bocca pronunziava tantomeno a restare presente in quella casa non solo con il corpo, ma anche con lo spirito.
«La mamma, a volte... a volte si sentiva in quel modo. Quindi... Quindi sì, forse l'ho conosciuta.»
Abigayle Maleun era sempre stata una donna forte, indipendente; continuamente gioiosa e rassicurante. Qualsiasi problema perdeva pericolo se ella si trovava in giro.
Come accadeva per chiunque, però, c'erano momenti in cui le cose, anche per una come lei, non proseguivano per il verso giusto. Allora ella sprofondava in uno strazio interiore che pareva non avere fine, come un pozzo interminabile, e Axel si domandava quale segreto la donna potesse mai portare dentro di sé per affliggersi in tale maniera. E non l'aveva mai scoperto, Alexander, la ragione di una sofferenza simile: sua madre era morta di parto. Una vita aveva segnato un decesso, un inizio aveva stabilito una fine.
«Vedi, è...» Di scatto, Elizabeth si volse nella direzione del più grande, rischiando di fargli sbagliare la bozza.
Il suo sguardo era mutato: ora diveniva più sicuro, più coraggioso; le iridi quasi apparivano come due ridotte fessure aperte sulla notte più oscura.
Il maggiore dei due Maleun alzò progressivamente gli occhi azzurri, distogliendoli a poco a poco dall'immagine che stava riproducendo. Si era accorto che qualcosa era cambiato nell'incrinazione vocale dell'altra e, paziente, l'aveva assecondata.
Si comportava sempre in tale maniera: lasciava sua sorella fare, senza mai intralciarla se non fosse stato estremamente necessario; se ella avesse avuto bisogno di lui, gli sarebbe corsa in contro di sua spontanea volontà. Elizabeth era come un uccello: se lo si metteva in gabbia si ardiva di ucciderlo; al contrario, occorreva lascirarlo libero e concedergli i tempi essenziali: dopodiché, egli stesso sarebbe tornato al nido.
«È come un attacco di panico.» Quella sentenza sputata così sinceramente, così di scatto fu abbastanza da sospendere il pennello del ventenne a mezz'aria. Egli corrugò nuovamente la fronte e inclinò lievemente il capo di lato. Data l'asserzione appena nominata dalla più piccola, indubbiamente egli aveva provato titubanza, inquietudine; si era naturalmente preoccupato, in un primo momento, però poi aveva deciso di continuare ad ascoltare senza farsi frenare da alcuna idea strana: Elizabeth era fatta così, solita nel disprezzare il collegamento tra la bocca e il cervello mentre parlava.
«Un attacco di panico, dici?»
«Esatto.» La minore respirò rapidamente, come se fosse stata una flautista e avesse dovuto riprendere il fiato necessario per passare da una battuta a un'altra.
«Immagina di essere su uno sgabello.» Riprese dunque, subito dopo.
«Tu sei lì, in bilico; tra la vita e la morte, il presente e il futuro, il cadere e il volare.» Accennò un sorriso, inarcando delicatamente gli angoli delle labbra rosee. La giovane aveva un'aria così serena che non sembrava minimamente stesse discorrendo del pericolo del trapasso.
«Ti basterebbe la minima vibrazione, il minimo spostamento, la minima brezza per farti perdere l'equilibrio. E ti ritroveresti in aria, aggrappato sì a un corda, ma a una corda che ti hanno stretto attorno alla gola.»
Prendendo una mano del fratello - quella disimpegnata - tra le proprie, la corvina vi lasciò intrecciare le dita, prima di accostarsela alla pelle candida del mento.
«Com'è possibile che il nostro destino sia tanto... malleabile? Così esposto alle esigenze altrui, a decisioni che non spetta a noi compiere?»
Per avere solo quattordici anni, Elizabeth era certamente molto matura; traeva innanzi conversazioni estremamente sapienti per essere dettate dall'intelletto di una semplice adolescente. Ciò rendeva Axel chiaramente assai fiero, ma un po' lo spaventava anche: certe volte restava completamente senza parole, a tal punto che i dialoghi della sorella erano costretti a trasmutare in monologhi.
«Il destino è un argomento complicato.» Si strinse nelle spalle, lo scozzese più vecchio, e mentre pronunziava tale commento chiese, con gentilezza, all'ultimo pezzo che gli rimaneva della sua famiglia di girarsi di nuovo: così avrebbe potuto concludere il proprio disegno.
«Talvolta le potenze superiori sono inenarrabili, comprendi?» Soffiò via dagli occhioni azzurri una ciocca di capelli scuri; dunque riprese il lavoro precedentemente interrotto. Quindi, con il massimo garbo, il giovane tracciò con la fine punta del pennello delle linee tronche, ultime, prive di tratteggi né schizzi. Rette sicure che, flettendosi, andavano a congiungersi tra loro e componevano la splendida e accurata forma delle effe tipiche degli strumenti ad arco.
Vi era solo un perimetro di tali figure, un contorno: l'interno ancora non era colmato.
«Riesci a immaginare di essere su quello sgabello, Axel?»
«Soffrirei di vertigini, probabilmente.»
Elizabeth rise lievemente, seguendo il fratello dopo la sua affermazione scherzosa. Dopodiché si portò una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio sinistro, distogliendo e abbassando lo sguardo in modo adorabile. Tornava a posarlo sulle coperte limpide e bianchissime.
«Pensati seriamente lì. Chiudi gli occhi.»
Alexander socchiuse le palpebre, leggermente insicuro. Non era mai stato un tipo totalmente fiducioso, uno tanto ingenuo da farsi pugnalare viso a viso, sebbene fosse assai buono.
«Riesci a vederti?»
Il ventenne fece per annuire a prescindere, per accontentarla, ma poi decise di fermarsi un istante a realizzare. Abbassò completamente le palpebre e trasse un sospiro profondo.
In un primo attimo, egli non notò nulla di nulla. Sarebbe stato normale se la fanciulla che si trovava davanti a lui non gli avesse espressamente domandato di vedere qualcosa. Vederlo sul serio, toccarlo con mano, sentirne l'odore e udirne i flebili sussurri.
Quando stava per socchiudere la bocca e ammettere che no, purtroppo non riusciva a scorgere alcunché, sua sorella gli strinse più forte la mano mancina. Senza provocargli il benché minimo fastidio ma, anzi, esercitando una lieve pressione con il pollice: gli accarezzò il dorso e vi lasciò un bacio a fior di labbra. Cosicché Axel ri-sigillò le proprie e le tenne incollate sino a quando nella sua mente non si formò un'immagine, l'immagine di una sedia di legno e di un uomo che vi si teneva in piedi. Lo stupore fu tale che lo scozzese dovette schiudere nuovamente le labbra, dal momento che pareva essere del tutto impossibilitato nel riaprire gli occhi.
In tale maniera Alexander fu capace di ravvisare colui - che altri non era se non la propria persona - starsene lì diritto con le scarpe ben piantate sulla bordura della seduta: la punta la oltrepassava, lasciando lui in bilico, proprio come la Maleun più piccola aveva attestato.
Anch'ella aveva calato le palpebre ma, a differenza del fratello, sembrava assai più pacata e fidente, come se quella non fosse stata la prima volta che provava un'esperienza simile.
«Guarda. Basterebbe una leggera pressione sulla tua schiena e tutto si concluderebbe. Non è un peccato?»
Preso individualmente, un commento del genere avrebbe fatto pensare all'interlocutore che chi l'aveva pronunciato era completamente fuori di testa. Tale, d'altronde, era l'impressione che Elizabeth porgeva appena la si conosceva: una fanciulla folle come non mai.
Eppure questa era forse una sfumatura di una genialità indiscussa che contraddistingueva la quattordicenne. E magari il Cappellaio Matto di Alice nel paese delle meraviglie non aveva torto: i migliori, probabilmente, erano stati rinchiusi in manicomio poiché tanto brillanti da terrorizzare.
«Nel momento in cui sei sullo sgabello, prima di cadere, o essere spinto, o decidere di compiere un passo in avanti, verso il vuoto...» Elizabeth sorrise ancora una volta, malgrado quasi impercettibilmente.
«In quei fugaci attimi sei ancora vivo. Ed è come un attacco di panico, sì. Non capisci molto: stai solo lì a pensare che sarebbe sufficiente un millimetro di troppo a stroncarti la vita.
Eppure, benché la mente sia nel caos più totale poiché vagante tra i pensieri, i ricordi, gli errori... ti trovi in quell'attimo di psuedo-tranquillità in cui... in cui va bene così.»
Finalmente l'adepta della Lussuria tornò a rivelare le iridi nere come la pece e, dopo di lei, lo fece anche suo fratello.
Quest'ultimo era rimasto agghiacciato dalla propria visuale: aveva percepito la morte lambirgli l'estremità del corpo con un riguardo tale da mostrarsi reale, e leale. Una delicatezza tale da apparire inverisimile per la crudelissima forza cui apparteneva. E il ventenne ne aveva compreso il potere, l'assoluto dominio: la vita era davvero così fragile?
«Se sei morto non va bene così.»
Con tono duro, Alexander aveva opposto. Tuttavia, per l'ennesima volta, la più piccola non avrebbe saputo rispondergli in maniera più impeccabile:
«Invece va bene così perché hai realizzato, o lo stai facendo, che alla fine del precipizio, così in fondo che non lo noti, si trova un trampolino. E se sei fortunato da colpirlo in pieno e sprofondarci... be', rimbalzerai.
È a questo che servono i trampolini: a rimbalzare.»
Axel, accigliato, ancora non capiva appieno dove volesse andare a parare sua sorella minore.
«La vita è questa, no? Un continuo cadere e rimbalzare, cadere e risollevarsi...
Ti insegna a rotolare giù da una montagna, finire a valle, cascare in un lago gelato, essere ricoperto dal ghiaccio polare e sfumare e affievolirti sino allo svanire.
Così che, quando sotto la lastra di acqua solidificata e gelida, sei quasi sparito del tutto, hai a disposizione il bivio di continuare ad annegare oppure... oppure non farlo. Continuare a dissolverti oppure no.»
"Davvero toccante, Elizabeth. Ma tu cosa vuoi fare? Anneghi o no?"
Elizabeth strizzò in un lampo le palpebre e, trovandosi ora l'uno di fronte all'altra, Axel lo notò e non ci mise molto ad allarmarsi nuovamente, come era accaduto all'inizio.
«Eli.» Sussurrò, quel nomignolo dalla pronuncia - "ilai" - così strana.
«Ti senti bene?»
Per un fugace istante la corvina avvertì tutta l'aria presente nei suoi polmoni abbandonarla. Si sentì mancare, per un secondo, e quando spalancò gli occhi oscuri questi erano totalmente anneriti, sclera compresa ed evidenziata. Durò un attimo troppo breve affinché la serva di Claude Luxure potesse muovere alcun muscolo, ma bastò purché ella piombasse in un assoluto mutismo per qualche momento.
Aveva concepito, come di consueto avveniva, l'ossigeno venirle sottratto, sgattagliolare via dalla gabbia che il suo corpo costituiva per disperdersi nuovamente nell'atmosfera.
La testa pareva esserle scoppiata, i pensieri esplosi tutti insieme come dinamite e tale era stato l'orrore da farle temere che i bulbi oculari potessero uscire fuori dalle orbite di punto in bianco.
Axel lo aveva visto, ma non aveva proferito alcunché. Anche perché, quando ci aveva provato, era stato subito interrotto dalla rassicurazione della più piccola. Ella aveva difatti alzato una mano per confermargli di stare bene anche se, chiaramente, non era così. Non nella sua anima, almeno. In modo analogo, di sicuro non nella sua mente.
«S-Sì.» Aveva farfugliato poi Elizabeth, tentando di riprendere controllo di sé mentre quelle sensazioni tanto orribili la abbandonavano lentamente, come un sogno quando si è appena svegli.
«È come un attacco di panico.»
Ora Elizabeth era certa della provenienza della voce graffiante di poco prima, quella che le aveva chiesto di annegare, di essere sotterrata dal ghiaccio polare. E l'adepta ne aveva intenzione, alla fin fine. Voleva davvero sprofondare.
Claude non glielo stava imponendo. Non stavolta.
«E tu cosa vuoi fare? Renderlo capace di stanziare il battito del tuo cuore o farlo solo velocizzare?»
Certo al cento percento che la quattordicenne avrebbe preferito in qualsiasi caso la seconda opportunità, Axel aveva sorriso speranzoso. Aveva mostrato i denti bianchissimi, immacolati, perfetti come il loro possessore. Le iridi di un colore altalenante tra l'azzurro e il verde acqua parevano aver scintillato assieme a lui, tanto che dalla gola gli era sfuggito un accenno di risata assai roca.
Eppure il ventenne era stato costretto a rimarginare la propria quiete, giunta appena dopo la tempesta come accadeva sempre, e a confinarla nel modesto recipiente quale il suo cuore da cui, ogni volta ce n'era bisogno, attingeva per rasserenare chiunque ne necessitasse.
E ci era rimasto male, in una maniera non quantificabile, quando sua sorella, con le labbra adesso irremovibili quanto una linea retta e lo sguardo basso, aveva confessato di voler annegare totalmente.
E così Claude aveva vinto. Ancora una volta.
Le sue parole, le sue scelte, ogni flessione di verbo e l'intera esistenza di Elizabeth erano plasmate alla volontà del Peccato Capitale della Lussuria.
«Tu... Tu hai i tuoi sogni, Eli! Non volevi andare via di qui, iscriverti a un conservatorio? Non puoi desiderare con così tanto fervore di scomparire lentamente!» Axel, come un bambino ferito, si alzò in piedi e, con ancora il pennello tra le dita della mano destra, dopo aver lasciato la sinistra della sorella, si accigliò ulteriormente.
«Non te lo permetto!»
«I sogni sono inconsistenti, Axel.»
Era da ammettere: dei due, Elizabeth era il Maleun più realista. Quello che aveva le suole delle scarpe ben piantate per terra, quello che mai si lasciava trasportare nella speranza di un possibile futuro, di un'incertezza fondata sull'improbabilità.
Per tale motivo, l'incrinazione della sua voce era tornata dura. Ancora, e ancora.
«Mi sento come se stessi impazzendo; sempre più vicina alla pazzia, sempre più erronea... vado peggiorando, di giorno in giorno. Sto diventando matta, capisci? La sanità mentale è divenuta utopia per me.» Raccattando la sua felpa preferita, una viola scuro che le scendeva sino a metà della coscia, la quattordicenne la indossò e imitò il fratello, destandosi a sua volta dal materasso.
La tempera sulla sua schiena oramai cominciava ad asciugarsi, ma il disegno era rimasto incompleto.
«Guardati intorno: il mondo... questo non puoi nemmeno chiamarlo "mondo"! Non qui, non a Skye, non da soli. Che futuro abbiamo, Axel?»
«Allora scappiamo! Andiamo via!»
Alexander non ne voleva sapere. Era un eterno infante, uno che sentiva l'estrema esigenza di evadere dalla concretezza, troppo macabra e ingiusta affinché egli potesse essere felice.
Il corvino sapeva che, se avesse realmente aperto gli occhi e si fosse realmente guardato intorno, come la minore gli aveva suggerito, sarebbe stato sopraffatto dalla verità cruenta in un lasso di tempo eccessivamente rapido. Non avrebbe resistito tanto.
«Scappare?» Elizabeth gli aveva fatto eco.
«E in che modo? Mh?
Siamo due fratelli orfani, che corrono di casa in casa per derubarla e sopravvivere, che passano l'esistenza a scappare per non farsi ammazzare dalle vittime.»
La vita effettiva era davvero malvagia, la scozzese lo ammetteva. Ma se avesse condiviso il comportamento di suo fratello non sarebbe mai cresciuta, proprio com'era successo a lui.
Axel, nel giro di una settimana e alla sola età di otto miseri anni, si era ritrovato senza genitori, senza maniere per mantenersi e con una sorellina appena nata cui badare. Era rimasto un perenne Peter Pan perché la sincerità e la schiettezza della situazione che gli gravava sulle spalle erano troppo pesanti per essere sorrette da lui solo. Segregarle ai limiti dell'universo lo aiutava a non uscire fuori di testa, anche se non sempre sembrava funzionare.
«Sembra che una maledizione sia cascata addosso a entrambi...» Si era ritrovata a commentare Elizabeth, sottovoce, con un accenno di sorriso sulle labbra quando aveva finalmente colto, dopo mesi e mesi, il sarcasmo presente nel suo fato.
"Maleun", il suo cognome, era la traslazione araba del termine "maledetto". L'ironia di un destino tanto premeditato, sin dell'alba dei tempi, non smetteva mai di stupirla.
"È stato un bel tocco di stile, quello del cognome arabo."
Nella fiducia che essa l'ascoltasse, l'adepta della personificazione della Lussuria aveva rivolto a quest'ultima una fugace frecciatina, che però non aveva alcunché di provocatorio; in quel momento, il pungente e malevolo umorismo che avrebbe accompagnato la corvina nei quattro anni circa seguenti a tale sera di dicembre era praticamente inesistente.
Alexander, dopo aver a lungo osservato la propria sorella giocherellare con un anello di lucente metallo che ella portava al dito indice della mano sinistra - un monile che aveva inciso il loro cognome - era tornato a sedersi ai bordi del letto, portando con sé anche la più piccola e facendola delicatamente accomodare accanto a sé.
I due Maleun si guardarono negli occhi, l'una a scavare nello spirito dell'altro come se l'unica cosa essenziale fosse stata la reciproca gioia.
«Che futuro vuoi tu, Eli?»
Per quanto volesse non accettare la realtà, Axel sapeva che era necessario. E ogni tanto cercava di farci i conti, anche se finiva per lasciate a metà qualsiasi operazione gli spettasse.
Ma di certo non era un tipo privo di coraggio, affatto: per sua sorella minore, il ventenne avrebbe potuto sopportare le peggiori torture ed era conscio del fatto che avrebbe sempre anteceduto la sua vita alla propria. Solo per renderla felice.
Elizabeth gliene era grata, naturalmente... Ma la loro esistenza era, oggettivamente, troppo faticosa. E suo fratello doveva accettarlo prima che fosse stato troppo tardi.
«Mi piacerebbe averne uno migliore» esordì dunque ella,
«ma Axel... mentre ne parli il futuro è meno distante. Diventa presente e il presente diventa allarmante, capisci?»
La violinista sospirò frustrata, passandosi una mano sul viso stanco.
«È come un... un...»
E a quel punto ella dovette fermarsi, perché lasciar intendere la conclusione della frase era meglio che pronunciarla veramente. Fu suo fratello a terminarla per lei.
«...Un attacco di panico.»
Entrambi annuirono, flebilmente. Rimasero in silenzio per diversi minuti, sicché la più piccola lo fece a pezzi, con un singhiozzo e la voce incrinata dalle lacrime, dal terrore della realtà che tanto intimoriva anche il maggiore.
«I-Io ho paura, A-Axel...»
Fu così che quest'ultimo la prese tra le proprie braccia e, poggiandole il mento tra i capelli, le accarezzò la nuca.
Le ultime parole che quella stanza udì, prima di sprofondare nuovamente nel doloroso silenzio interrotto solo dalle lacrime della più giovane, fu una promessa. Un giuramento. L'unico patto che un Maleun avesse mai stipulato a giovamento di tutti tranne che di se stesso.
«Vorrà dire che avrò paura per entrambi, Eli.»
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Angolo Autrice
Eccomi, finalmente, con un altro capitolo! Come vi è sembrato?
Questa parte è un po' di passaggio, serve solo a distaccare gli eventi iniziali della storia per darvi un attimo di tregua da quello che succederà nei prossimi capitoli perché, attenzione, le informazioni date non saranno semplici da assorbire, soprattutto quelle della prossima parte.
Ma, ritornando a noi: i fratelli Maleun, individualmente e insieme, come vi sembrano? Vi piace il loro rapporto? E, soprattutto: trovate differenze tra i comportamenti dell'Elizabeth quattordicenne e quella diciassettenne?
Vi avverto che in questo capitolo viene accennata l'informazione del prossimo, quella importante: se avete qualche intuizione, segnalatemela! Sono curiosa!
Bene, per oggi credo di aver finito. Spero di pubblicare in fretta il prossimo capitolo ma, sino ad allora, fatemi sapere le vostre impressioni su questo!
Noi ci vediamo con la prossima parte, dal titolo de "La Signora delle Camelie".
Chapeau,
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