♰ III - ᴡᴇʟᴄᴏᴍᴇ ᴛᴏ ᴛʜᴇ ɴᴏᴛ ᴍᴇᴍᴏʀɪᴇs ʜᴏᴛᴇʟ
[Canzone del capitolo: O cessate di piagarmi, Alessandro Scarlatti.]
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La camera centoventisei dell'hotel e casinò Flamingo di Las Vegas era di un rosso simile al sangue, tanto che sembrava che le pareti fossero dipinte con tale liquido. L'odore stesso era quello del sangue fresco, così forte che quasi se ne poteva percepire il sapore ferroso sulla lingua, nella gola.
Era poco illuminata, come quella in cui, poche ore prima, Elizabeth si era risvegliata, sebbene i due vani fossero largamente differenti.
L'attuale, più grande, più confortevole, era curato maggiormente: poteva misurare circa il doppio del precedente, sia in altezza, sia in larghezza, sia in profondità; possedeva una finestra, benché le tende, scure, ostacolassero in buona parte il passaggio della luce del sole, che proprio in quei lunghi istanti era impiegato a sorgere.
Un ampio letto da una piazza e mezza, ricoperto da lenzuola cremisi decorate con intrecci di rose nere, era attaccato con la testiera alla parete opposta a quella dell'entrata. Tale, se la si mirava dal letto, aveva la porta in mogano sulla parte sinistra e un armadio a tre ante, anch'esso in legno scuro, sulla parte destra. All'interno di quest'ultimo oggetto erano stati sistemati diversi indumenti, alcuni prelevati dal solito vestiario della corvina, ma la maggior parte acquistata dal nulla, nuova, costosa, diversa dagli standard che caratterizzavano la quotidianità di Elizabeth Maleun.
Come poteva ella, infatti, aver mai indossato un abito non rotto, non consumato e ri-consumato per molteplici giorni di fila? Non era di certo cresciuta nel lusso; bensì era abituata, per quanto poco la sua figura potesse lasciar intendere, all'adattamento, al contentino, all'umile - per non considerarlo misero - ordinario.
Poca altra suppellettile adornava la stanza: un paio di comodini, lucidi, con al di sopra un piccolo lume ciascuno, si trovavano ai lati del letto; uno specchio rotondo, incorniciato da ghirigori d'oro, si poteva scorgere su una delle due pareti laterali e, infine, un classico lampadario in cristallo, di modeste dimensioni, pendeva dall'alto soffitto, donando la luce artificiale di cui si sarebbe potuto necessitare durante la scura sera.
Elizabeth non ricordava in quale maniera aveva vissuto sino a quel giorno: non ricordava le continue rapine per sopravvivere, le continue fughe; non ricordava le notti passate a sperare, cuore a cuore con l'empireo, di poter in futuro lambire condizioni migliori, un'esistenza maggiormente benestante.
Soprattutto, però, non ricordava ciò che, attimo dopo attimo, aveva costituito la sua unica fonte di pace, anche dopo l'assenza di Axel: la musica.
Qualsiasi tipo di spartito era sempre sparso sul pavimento di quella catapecchia che i due giovani chiamavano "casa", mentre si poteva regolarmente udire il suono di un violino, spesso e volentieri scordato, sostituire la pienezza o colmare il vuoto delle giornate della scozzese.
La musica, per Elizabeth, aveva costituito per anni il riparo sicuro durante le tempeste, il tepore durante il rigido inverno, il fuoco che avrebbe sciolto qualsiasi blocco di ghiaccio.
Era la stella polare che indirizzava la via, la Bibbia che rendeva credente un ateo, il libro che faceva sì che un analfabeta divenisse capace di leggere o scrivere.
Così, sebbene spesso la diciassettenne si fosse sentita come un sano rinchiuso in un manicomio, come un innocente costretto a marcire dietro le sbarre di un carcere di pietra, le era bastato ascoltare il suono di un violino volare flebile sul fiato del vento per poter riacquisire l'assennato equilibrio di cui necessitava.
Per questo, quando ella aveva aperto l'ampio guardaroba - erano circa le sei del mattino - scorgere l'amato Stradivari depositato sul fondo dell'armadio le aveva provocato un enorme brivido lungo tutta la schiena.
Aveva esitato - d'altronde non aveva memoria neppure di quali fossero le denominazioni delle corde; eppure ciò non era stato abbastanza affinché la giovane non impugnasse ben presto lo strumento, con tanta titubanza quanta frenesia.
E, prima di cominciare il tentativo di ricordo di una qualsiasi composizione, Elizabeth aveva abbandonato la camera donatale, chiuso la porta a chiave, tenendo ben saldi il violino e l'archetto nella mano libera, e infine aveva preso a vagare per i corridoi deserti dell'hotel, alla ricerca di un qualsivolesse luogo per suonare, o almeno provare a farlo.
L'ambiente circostante doveva ispirarla, doveva rapirla, doveva essere parte del brano; se questo era un moderato, lo spazio attorno a lei doveva danzarle intorno in un ritmo calzante; se invece si trattava di un largo, ciò che la circuiva doveva muoversi lento, a tratti inesorabile.
Se il brano in questione era invece l'aria "O cessate di piagarmi", di Alessandro Scarlatti, l'andante con moto in cui esso era stato scritto doveva rendere il circondario un dettaglio a sé stante, poiché ogni singola nota doveva isolarsi, accompagnata solo dallo spirito di colei che la rendeva vita.
Un corridoio pareva essere più sgombro degli altri; non che questi fossero assai popolati - d'altronde era solo l'alba - ma tale appariva quasi distaccato dai rimanenti, come se fosse stato un luogo indipendente. A Elizabeth sembrò quindi il posto perfetto.
La giovane violinista abbrancò dunque il proprio strumento, lo posizionò e socchiuse gli occhi neri come la pece. Riusciva a udire solo il proprio respiro, fioco, appena distinto, a tratti quasi inesistente. La sua mente era offuscata dalla leggerezza delle corde che, in quel momento, stava lambendo con la punta delle dita. E un'improvvisa quiete parve avvolgerla tutto d'un tratto: ciò che era capitato sino a quell'ora non la toccava più, era distante, percorreva una linea differente da quella che adesso stava transitando la diciassettenne. Elizabeth e ciò che le stava tutt'intorno si collogavano su due distaccate soglie, due segmenti separati, confinati distanti come se su due poli opposti.
Con flemma imperturbabile, la scozzese accarezzò l'ultima delle quattro corde, quella che sarebbe dovuta essere accordata in sol; dopodiché si decise a impugnare con fermezza e risolutezza l'archetto.
Quando provò a portare tale oggetto sulla suddetta corda, però, si ritrovò ben presto a storcere le labbra dalla sbiadita tinta scarlatta in una smorfia di palese disgusto: non ricordava quale fosse la precisa accordatura del violino, ma sicuramente non era quella che stava suonando.
Affatto soddisfatta, cominciò a girare e rigirare le chiavette, in una disperata manovra di risoluzione del problema. Non si diede pervinta - non era per niente il tipo, vista la testardaggine di cui si andava vantando; tuttavia, dopo molteplici minuti trascorsi a sperimentare e vani sforzi di azzardare un'improvvisazione con un'accordatura errata, la corvina mollò la presa.
«La smetti di... fare qualsiasi cosa tu stia facendo?! Stai disturbando la mia quiete serale.»
Una voce annoiata, seguita da uno sbuffo a tratti irritato, giunse però in breve tempo alle orecchie della scozzese che, dopo aver aggrottato le sopracciglia per la confusione, si era prontamente impiegata di raggiungerne la fonte.
In questo modo, disteso al contrario - con la testa sulla seduta e le gambe sullo schienale - aveva visto per la prima volta il rinomato Finn Torped. A causa dei tanti - brevi ma intensi - racconti di Niko, Elizabeth non si era affatto meravigliata di averlo trovato, sin da subito, con uno spinello tra le labbra e una bottiglia di whiskey sul pavimento, nella quale, stappata, quasi rischiavano di entrare i chiari capelli castani.
L'adepta della lussuria non si era stupita poi così tanto, no, ma naturalmente era rimasta un po' stravolta. Aveva inarcato un sopracciglio corvino e, mentre si avvicinava a passi scanditi, aveva cercato di, come di consueto, divorare con lo sguardo ciò che aveva dinanzi, così da porter appropriarsi di più informazioni possibili, senza che queste le venissero rivelate a parole. Voleva antecedere qualunque cosa, essere più veloce persino della luce, così da potersi porre innanzi a essa e bloccarla, stanziarla, vincerla.
«Tu impara a giocare a carte, piuttosto. O comprati un orologio: sono le sei del mattino.»
Il sorriso innocente, da finto angioletto, sembrava calzarle a pennello; specie se era misto al sadico divertimento che ella provava nel riscontrare quanto lo svedese che aveva dinanzi fosse sconcertato, oltre che palesemente infastidito. Insomma, di quella partita a scala quaranta con Niko, o meglio di come era stato stupidamente battuto, avrebbero dovuto saperne solo lui e il diretto interessato. E invece eccolo lì, l'ex-militare, che andava spifferando a chiunque del proprio trinfo.
«Niko è solo stato molto fortunato, se ti riferisci a quello.»
Ribatté infatti, in un borbottio infantile. In ogni parola pronunciata c'era un grosso carico di pigrizia, come se il giovane si annoiasse continuamente, anche a respirare.
Non a caso era l'adepto del Peccato Capitale dell'Accidia, però.
Elizabeth inspirò profondamente, facendo un paio di passi avanti. Lo guardò dall'alto e, come era accaduto con Nikolaj, lo studiò, lo squadrò; si soffermò su ogni particolare fosse capace di rapire la sua attenzione: sul corpo magro e quasi sciupato del ventunenne, sulla camicia blu sbottonata che lasciava intravedere solo quel minimo fisico che Finn possedeva; si dedicò alle labbra rosee che tenevano ben salde lo spinello tra i denti bianchissimi, il suo fumo candido, che emanava una puzza familiare, anche se non riconducibile al quotidiano; osservò a lungo gli occhi verde smeraldo, che non risaltavano in tutta la loro bellezza - poiché arrossati e contornati dalle scure e solcate occhiaie - mirarla dal basso intensamente, come se non ci fosse stato nient'altro di importante. Si stavano guardando allo stesso modo, loro due: uno a scavare dentro l'altra, in una lotta con un solo vincitore, di cui ambo i ragazzi volevano prendere la corona. Uno scontro che, però, aveva un qualcosa di più intimo, di più suggestivo, di più passionale.
«Fortuna, dici?» Gli fece eco d'un tratto la corvina, totalmente d'improvviso. Mosse ancora dei passi avanti, fino a essere abbastanza vicina da potersi chinare, in ginocchio di fronte a lui.
Così, con un ghigno sulle labbra, mirate e rimirate senza sosta dal maggiore, Elizabeth rise. Appena, quasi Finn pensò di esserselo immaginato. Eppure ella rise, con fare di sufficienza, di presa in giro nei confronti del più grande.
«Fortuna...»
Rise di nuovo, più forte.
«Io dico di no.»
All'ingresso del casinò, Elizabeth ricordava di aver più volte visto una scritta, in neon, augurarle il benvenuto. "Welcome to the Not Memories Hotel", c'era scritto.
L'hotel delle non memorie.
Non sapeva bene se fosse stato o meno uno scherzo, ma suonava tanto tale. Quella frase rispecchiava davvero molto la sua situazione attuale tanto che, quando l'immagine dei neon le balzò alla mente, mentre era lì con Finn, la giovane non poté fare a meno di togliersi questa curiosità dalle spalle; difatti pensò che non c'era altra occasione migliore se non quella che prevedeva la possibilità di chiedere a uno come lei: un adepto.
«Qui, voialtri... Siete tutti amnesici? Insomma, questo è il "Not Memories Hotel".»
Scimmiottando le ultime tre parole, la corvina rimase a fissare il nuovo conoscente che, intanto, non aveva minimamente cambiato posizione.
«Not Memories Hotel, dici?»
L'accento nordico era molto, molto udibile.
Finn proveniva da Borås, una storica città del centro-sud della Svezia. Non aveva i capelli biondi, platinati, né gli occhi azzurro ghiaccio; in effetti, a prima vista, non sembrava affatto uno svedese. Cionostante, la cadenza nord-europea della voce era praticamente palpabile.
«Non so di cosa tu stia parlando. Io so che l'hotel si chiama "Drugs and Candy". Nessuna memoria, Lizzie.»
«"Lizzie"?»
Mentre le sopracciglia ad ali di gabbiano guizzavano in alto e le corrugavano la fronte bianca, Elizabeth ripeté, appena irritata, il soprannome che le era stato affibbiato. Non si conoscevano nemmeno da dieci minuti e già erano diventati intimi?
Niko aveva ragione, Finn era un tipo da cui stare alla larga.
«Sì, Lizzie.» Confermò questi, liquidando la questione con un gesto noncurante, distratto e scocciato della mano destra.
«Hai un nome troppo palloso. Lizzie è più bello di Elizabeth. Cosa sei, la regina bicentenaria?»
Doveva andarsene da quel posto, il prima possibile.
«Non so cosa tu abbia fumato, precisamente.» Esordì d'un tratto la più piccola, rialzandosi rapidamente e passandosi una mano tra i capelli corvini, frustrata, mentre si girava di spalle, facendo per andarsene.
«Ma di certo non sei una persona normale, quindi io me ne vado.»
«"Persona normale?"»
Tutta la calma che aveva caratterizzato Finn sino a quel momento lo abbandonò tutto in un colpo, tanto che questi si sedette addirittira in maniera composta, con la testa e le gambe dove Dio comandava dovessero essere.
«Ha parlato!» Sbuffò il ventunenne, col tono di un bambino di otto anni.
Cos'erano diventati? Due studenti delle elementari che si mettevano a battibeccare su chi colorasse meglio?
«Ma cosa sei, bipolare?»
«Sì, sono bipolare. Hai problemi al riguardo?»
Elizabeth non riusciva decisamente a capire se il moro fosse o meno serio. D'altronde sembrava davvero un bipolare, o in qualunque caso uno che ha problemi al cervello. Aveva la camicia a stracci, sbottonata, i capelli intrisi di whiskey e una canna tra le dita, visto che l'aveva tolta innervosito dalle labbra poiché aveva paura gli cadesse; faceva l'annoiato ogni secondo e si arrabbiava all'improvviso, senza ragione palese, passando dalla calma all'inquietudine più totale.
Se non era davvero bipolare, era bravo a fingerlo.
«Dum! Ti piangi addosso perché hai fatto cosa? Bevuto troppo?»
Finn era così fuori dal mondo che alla minore non lasciava neppure il tempo di controbattere.
«Gne gne. Va' al diavolo.»
«Finn.»
Tenendosi tra le dita la parte superiore del naso, Elizabeth chiuse gli occhi, mentre sospirava sonoramente. Altro che casinò, quello era un manicomio!
Tornò a voltarsi per poter guardare chi le stava davanti.
«Sta' zitto. Mi stai facendo venire il mal di testa più di prima.»
Finalmente, la diciassettenne riuscì a godersi alcuni minuti di silenzio, tralasciando commenti del più grande come: "È la sbronza" o "Fatti una canna, vedi che passa".
Quel ragazzo era assurdo, anche per una come lei.
«Vuoi fumare?»
L'adepto dell'Accidia ruppe la tranquillità per l'ennesima volta. Non era antipatico, anzi, con Finn ci si divertiva di sicuro. Però era particolare, davvero tanto particolare, e per stargli accanto bisognava avere pazienza nei momenti di sconforto più totale così come in quelli di esaltazione.
Era un tipo tutto a sé, lui: fumava e beveva di continuo, senza sosta, e la cosa non gli pesava; passava dall'essere prossimo al suicidio fino all'indurre chi gli stava intorno al buttarsi giù da un balcone. Ci voleva fegato per stargli affianco, ma se si riusciva a superare l'istinto di comprare un cappio da mettersi attorno alla gola, dopo un po' si andava avanti anche di abitudine. In compenso, però, ci si dilettava certamente.
«Ho passato nove ore a fumare, tra sigarette e il resto. È tanto tempo, sai? Nove ore sono il tempo consigliato per dormire, insomma. Mi segui?»
No, Elizabeth non lo stava seguendo affatto. Tuttavia gli prese lo spinello dalle dita e, dopo aver aspirato una volta, glielo riconcesse, limitandosi a rispondere solo con un mugugno di sufficienza.
«Ho pensato tanto, sai?»
«A cosa?»
«Alla vita, Lizzie.» Finn sorrise.
«Tu ci pensi mai alla tua vita?»
«Non ho la più pallida idea di quale sia la mia vita, Finn. Non me lo ricordo.»
Nuovamente, la scozzese sospirò, mentre guardava il maggiore abbandonare la poltrona e sedersi sul pavimento - dove ella si era accomodata pochissimo tempo prima - rischiando quasi di rovesciare la bottiglia di whiskey.
«Sì ma, guarda! Sei irritata perché non ci stai capendo un cazzo. Anche a me è successo, è successo a tutti!»
«E quindi?»
«E quindi rimuginaci su! Stai dando la colpa di tutto ciò che sta accadendo a chi, precisamente?»
Con la fronte aggrottata per la confusione, l'adepta della Lussuria scosse appena il capo:
«Io... Io non sto dando la colpa a nessuno, Finn.»
«Non è vero.»
Difatti, Elizabeth non ci stava capendo molto di ciò che stava avvenendo attorno a lei e nella sua mente da quando aveva cominciato a parlare con Finn; lo svedese faceva perdere la cognizione non solo del tempo, ma anche la lucidità mentale.
Per questo non aveva risposto sinceramente: in effetti non ci aveva neppure pensato su.
La verità era che, da quando si era risvegliata al Flamingo, erano accadute così tante cose, positive o meno, che la corvina aveva tirato giù tutti santi dal cielo. Aveva imprecato contro Dio, contro Satana, contro Claude, Niko, Finn e compagnia bella. Aveva incolpato addirittura idiozie - a sua detta - come il destino o simili.
«Non ci stai capendo niente, vero?»
Alla domanda da parte del maggiore, la più piccola si ritrovò ancora una volta a sbuffare e scuotere il capo.
«Lo immaginavo.
Ma ascoltami: hai un amico, finisce in mezzo agli squali e viene mangiato. Dai la colpa agli squali oppure a quello che l'ha fatto cadere?»
Elizabeth, incerta, si prese del tempo per ragionarci. Il quesito era lo specchio di ciò che le stava succedendo: era finita in mezzo agli squali - ovvero tale situazione - a causa di chi? Claude? Se stessa?
Trascorsero diversi minuti durante i quali la scozzese pensò a ciò che l'adepto che aveva di fronte le aveva detto. Tralasciando come le era stato suggerito - cioè mentre i due fumavano e passavano dallo sbraitarsi contro al conversare come se fossero stati amici di vecchia data.
Tuttavia, quello che Finn aveva meditato era corretto: la gente occupava anni e anni a dilettarsi con il gioco dello scaricabarile, dove si faceva a gara per addossarsi meno colpe e ivi il vincitore era colui che aveva la fedina penale più limpida, anche se spesso solo alla superficie.
Sulla vita di quello che era caduto in mare ed era stato mangiato dagli squali, dunque... Chi aveva vinto?
Il suono secco di un passo riecheggiò nel silenzio più totale che avvolgeva il corridoio che portava alla sala. Ne seguirono diversi e ognuno parve zittire ancor di più il mutismo già presente, come se il ragazzo che stava lentamente camminando si stesse trasportando dietro morte o stesse facendo appassire ogni fiore che sfiorava.
Come un buco nero che risucchia ogni spiraglio di luce, Übel Dunkel raggiunse impassibile il luogo dove si trovavano anche Elizabeth e Finn, i quali erano intanto rimasti a ponderare ciascuno sui propri pensieri, in completa assenza di rumori.
Con lo sguardo basso sulla bottiglia di whiskey, Elizabeth si era concentrata particolarmente sul fono laconico di tale marcia. Era un tempo binario, formato da un primo accento forte e un secondo debole. Un ritmo che non subiva la minima inflazione, il minimo cambiamento, bensì rimaneva statico, sistematico, e non mutava mai.
Quando questi si fu stanziato sulla soglia, la violinista inspirò profondamente e, come un direttore d'orchestra, cominciò a muovere la cicca bianca che aveva tra l'indice e il medio dal basso verso l'alto, dunque dal centro verso sinistra e nuovamente verso il centro. Scandiva un tempo in due quarti.
E ricordò, cominciò a ricordare una flebile melodia sinfonica. Era un suono altamente debole, in sottofondo, eppure le appariva chiaro poiché, da bambina, l'aveva ascoltato differenti volte.
Il suo rapporto con la musica era stato struggente sin dalla sua infanzia. Rimembrava bene, in quegli istanti, di aver iniziato a suonare attorno ai cinque anni. Ce n'erano stati tanti di piccoli prodigi durante la storia: piccoli geni che alla sola età di quattro anni sapevano solfeggiare interi spartiti senza alcuna difficoltà.
E forse Elizabeth era una di essi; una bambina che aveva dedicato notte e giorno alla cura di un violino, della cultura classica, di partiture che sembravano moltiplicarsi giorno dopo giorno.
Aveva donato la sua maturazione alla premura dello Stradivari di famiglia; uno strumento che, per quanto poveri potessero essere i due ragazzi che lo condividevano - Elizabeth e Axel - era ciò che li accomunava e arricchiva più di ogni altro lusso. Nessuno dei due, la prima più del secondo, avrebbe mai sostuituito alcun tipo di bene con quello di cui era in possesso.
Dunque la scozzese era abituata a canticchiare brani, tantl ne aveva ascoltati durante la sua vita fino a quell'alba.
Non rammentava tanto, le memorie erano ancora molto, molto scarne, ma se c'era una cosa di cui cominciava a riavere reminiscenza era la moltitudine di compositori, che andavano da Mozart a Stravinskij, e le loro opere.
«C'era una sinfonia di Beethoven...» Esordì d'un tratto ella, mentre un appena visibile sorriso sincero si accennava sulle sue labbra.
Era difficile cogliere l'occasione di vederla sorridere in quel modo, dal momento che solitamente la sua bocca era impegnata in ghigni, risate manipolatrici o più semplicemente disoccupata, dritta e impassibile come una linea retta. Tuttavia la musica, con il maestoso potere che esercitava sull'anima della corvina, era in grado di renderla anche solo vagamente felice.
«Era la settima. Sì, la settima sinfonia di Beethoven.»
Finn quasi non la stava neppure seguendo mentre Übel, che intanto si era appoggiato all'uscio con le braccia incrociate al petto e l'espressione irremovibile come di consueto, la stava ascoltando quasi - quasi - lievemente incuriosito. Si supponeva non provasse alcunché, il giovane tedesco; si pensava non fosse capace di percepire la minima emozione, e forse in un certo senso era vero.
Eppure Übel era rimasto, per la prima volta durante la sua intera esistenza - durata solo diciannove anni sino ad allora - nebulosamente colpito quando, poche ore antecedentemente, aveva incatenato il proprio sguardo ceruleo a quello scurrissimo dell'adepta che in quegli attimi aveva a solamente qualche metro di distanza.
Aveva avvertito fievolmente una sorta di formicolio all'altezza del petto, un qualcosa che andava a contrapporsi con la ragione, con la razionalità a cui era avvezzo. Sebbene non ci si fosse soffermato più di tanto, ore prima, di certo non l'aveva dimenticato.
E, adesso che aveva innanzi la possibile causa di tale scintilla - anche se fioca, lontana solo decimi dell'inesistente - il biondo non voleva lasciarsi scappare l'opportunità di indagare. Necessitava di risposte, d'altronde: ciò che è invisibile agli occhi non può essere annientato ed egli voleva l'immensità del cielo rasa al suolo, senza intoppi, senza limitazioni.
«Ludwig Van Beethoven: sinfonia sette, opera novantadue, numero due. In allegretto, se non erro.»
Dopo aver aspirato ancora una volta dallo spinello, Elizabeth sorrise leggermente di più e, successivamente aver gettato la cicca nella bottiglia mezza vuota di whiskey, alzò gradualmente le iridi color pece.
«Hai un'andatura che, se rallentata, assomiglia tanto a quella...»
Non ci volle molto affinché, nell'istante in cui gli occhi di Elizabeth Maleun incontravano per la seconda volta quelli di Übel Dunkel, la diciassettenne perdesse le parole, il controllo su esse. Ella si ritrovò con il respiro strozzato a metà, i pensieri interrotti, analogamente a come era capitato qualche ora prima, nel corridoio principale.
Lui le aveva chiesto di spostarsi, in tale occasione.
Ora lei lo stava paragonando a un capolavoro di Beethoven.
Magari era il destino quello che aveva portato i due adepti fino a lì, fino a quell'attimo, fino a quel ventitré settembre che avrebbe cambiato loro la vita.
Magari era l'illusione della libera scelta quella che aveva suggerito loro di compiere le decisioni che erano state prese sino a quel dì, ché tanto entrambi sarebbero finiti in tale circostanza, irrimediabilmente.
Da quel giorno in poi, l'ordinario sarebbe stato trasmutato in straordinario, nel bene e nel male. Forse soprattutto in quest'ultimo.
Ma, se c'era un qualcosa di innegabile, di fronte alla confusione che li avvolgeva, questo era che, se due anime sono legate, indissolubilmente, il filo rosso che le unisce non sarà in grado di spezzarsi.
«Non me ne fotte un cazzo di quel cieco, Lizzie! Io voglio sapere di chi è la colpa di quel bastardo che gli squali hanno sbranato!»
Frettoloso e superficiale come si era rivelato essere, Finn ruppe nuovamente il silenzio che si era venuto a creare. Anche se, per Elizabeth e Übel, esso era stato più assordante di qualsiasi altro, incessante rumore.
«È di entrambi. O meglio, di tutti e tre: di chi è stato spinto, perché si è fidato. Di chi l'ha fatto cadere, poiché ha donato il pretesto affinché quello morisse. E degli squali, in quanto l'hanno assassinato definitivamente.»
Übel Dunkel era, quasi sicuramente, l'essere più diffidente della Terra. Pensava infatti che chiunque, prima o poi, lo avrebbe pugnalato alle spalle. Dunque non nutriva fiducia nei confronti di nessuno e ciò si poteva chiaramente notare nelle parole che, con estrema freddezza, aveva appena pronunciato.
La facilità con cui discorreva di morte era inverosimile; ma d'altronde era un argomento particolarmente familiare, dal momento che il tedesco vi era a contatto quotidianamente.
Übel era un assassino, un torturatore, eppure questo non lo si doveva intendere come un "mestiere", come un qualcosa che veniva fatto per puro piacere. Il motivo per il quale egli strappava con semplicità le vite altrui, analogamente a come un bambino strappa un fiore dal prato verde, era la pace.
Tale concetto era relativo per il giovane proveniente da Amburgo; mai si sarebbe azzardato ad aggiungere la quiete nel proprio dizionario, non lui che in nessuna occasione aveva percepito la sua gentile brezza lambirgli l'animo scuro quanto la notte più buia.
Tuttavia, nella vita dei quattro adepti - Elizabeth, Übel, Niko e Finn - c'era un accordo da rispettare, da ambo le parti: sia la loro, sia quella dei Peccati Capitali. Per quanto deplorevoli potessero essere questi ultimi, erano leali quando si trattava di patti.
E l'offerta di Yvonne, Peccato Capitale dell'Ira e mentore di Übel Dunkel, era quella di concedergli riposo in cambio di sofferenza inflitta a chi lo circondava.
Quiete in cambio di tempesta, calma in cambio di tortura, "vita" in cambio di morte.
Il passato del diciannovenne era troppo straziante affinché questi continuasse a procedere per quella strada eccessivamente tortuosa che costituiva la sua esistenza senza qualcuno che lo ausiliasse nel concedergli una pausa da un dolore così forte.
Ancora con lo sguardo dominato da quello del maggiore, Elizabeth si distaccò brevemente da tale contatto visivo, ma solo per guardare Finn con la coda dell'occhio e dargli dell'idiota dopo aver corretto che Beethoven era sordo, non muto - come aveva asserito lo svedese.
La fanciulla sembrava non riuscire a distogliere le proprie iridi dalla figura del biondo che aveva a un paio di metri di distanza. Era come se, quando si erano visti la sera scorsa, una sorta di maleficio fosse caduto su entrambi. Una maledizione che li obbligava a cercarsi, sebbene nessuno dei due conoscesse qual era il motivo preciso di tale necessità. Sentivano solo di averne, appunto, un estremo bisogno.
«Lizzie.» Chiamò improvvisamente Finn, mentre si rialzava, si spolverava i vestiti stropicciati e successivamente si passava una mano tra i capelli dalle punte intrise di whiskey.
Dopodiché si chinò lievemente, abbastanza da sporgere la mano destra verso la figura di Elizabeth. Ella, dapprima esitando, si decise poi ad accettare l'aiuto del ventunenne e ad afferrare la sua mano, tirandosi quindi su.
«Questo...» Lo svedese indicò con il capo il biondo presente agli inizi della sala; egli si trovava ancora con le braccia incrociate al petto, le spalle larghe che parevano risaltare maggiormente dalla liscia e impeccabile camicia nera come il petrolio, che al meglio rappresentava il suo spirito.
«Questo è Übel.»
«Lo so.» Confessò allora con ovvia sincerità la corvina, annuendo lievemente in segno di conferma alle proprie parole.
Übel era stata la prima persona che Elizabeth aveva conosciuto a Las Vegas; quando Claude le aveva detto che "quel ragazzo biondo incontrato poco prima" era un suo simile la giovane aveva immediatamente ricollegato al tedesco. Aveva l'immagine del fugace attimo in cui si erano incontrati fissa nella mente; ce l'aveva stampata sotto la pelle, sulle palpebre, davanti agli occhi e la ritrovava ogni secondo che chiudeva i suoi.
«Non pensavo fossi così famoso, sai, Übel?» Accompagnato da tale domanda retorica, che naturalmente non ricevette alcuna risposta se non un'occhiataccia appena ammiccata da parte del diretto interessato, Finn si avvicinò a lui con un sogghigno derisorio sul volto e posò una mano sulla sua spalla sinistra. Il diciannovenne se lo scrollò subito di dosso.
«Hai trovato una tua simile, vedo.»
«Famoso mai quanto te, Finn.»
La prima frase fu pronunciata, totalmente impassibile, da Übel; la seconda, invece, la recitò Elizabeth, sarcastica e amichevole.
Eppure entrambe furono proclamate nello stesso istante.
Il maggiore, rispetto alla più piccola, parve non stupirsi più di tanto. In realtà non gli interessava. Le coincidenze accadevano in ogni angolo della Terra e molte nello stesso momento, d'altronde.
La giovane violinista, al contrario, sgranò appena gli occhi neri come la pece, per un paio di attimi. Dopodiché sbatté le palpebre e si riprese, andandosi poi a sedere sul divano lì presente, ancora con il prezioso Stradivari stretto gelosamente in un abbraccio, quasi fosse stato un essere umano.
Übel non la spaventava, per niente. Ma la incuriosiva, la accattivava. Era decisamente poco inquadrabile, forse affatto, e probabilmente era proprio questo che l'attraeva: il non avere controllo su qualcosa, con l'adepto dell'Ira, cominciava a percorrere una strada diversa dall'odio.
Magari Elizabeth e il dominio dovevano necessariamente essere su due differenti lunghezze d'onda, almeno in presenza di Übel Dunkel. E c'era la possibilità che la cosa non la distruggesse.
«Woah, woah!» Finn, con la bocca impiegata in un sorrisone dilettato, alzò le mani come per frenare ciò che stava accadendo.
«Andateci piano voi due! Con calma!»
«Adagio...» Commentò quasi immediatamente la minore dei tre presenti in quella sala, in un riferimento musicale che nessuno parve cogliere.
«Simile di quale specie, precisamente?» Difatti, lo svedese si voltò a guardare il biondo che, quasi certamente, non aveva neppure udito le parole dell'adepta di Claude.
«E poi.» Si girò dunque verso Elizabeth, allargando la propria smorfia compiaciuta.
«Famoso? Ti hanno parlato di me?»
Stavolta fu l'ultima a cui fu rivolta la domanda a parlare per prima; parve quasi fare a gara con Übel, dal momento che gli lanciò un'occhiata di controllo prima di prendere discorso.
«Niko mi ha parlato di te.» Affermò quindi ella.
L'interessato, a questo punto, tornò a sedersi poco elegantemente sulla poltrona, soddisfatto. Raccattò la bottiglia di whiskey dal pavimento e buttò giù un paio di sorsi.
«E come mi ha descritto?»
"Come un drogato, ubriacone, stupra morti." Rispose mentalmente la scozzese.
«Alquanto bene.» Asserì invece, ad alta voce, e quasi Finn poté sentirla riderr a malapena sottotono.
«Tu, piuttosto.» Borbottò subito dopo il giovane di Svezia, rivolgendosi a Übel; si era sentito quasi offeso dopo aver capito che non sarebbe mai venuto a conoscenza di in che modo l'ex-militare russo l'aveva descritto.
«Mh?» Si limitò a mugolare il ragazzo dalle fattezze divine, mentre restava con lo sguardo fisso sulla città, dormiente, che si estendeva fuori la finestra. Era palpabile la sfumatura di seccatura nella sua voce, come se egli avesse voluto sì zittire a prescindere chiunque, ma in modo decisamente particolare il ventunenne che aveva a poca distanza, lì stravaccato sulla poltrona bordeaux.
«Di quale specie parlavi?»
Übel parve prendersi del tempo per ragionarci su anche se, era facilmente intuibile, non ce n'era affatto bisogno.
«Una che dovrebbe estinguersi, indubbiamente.»
Non si era lasciato sfuggire tale commento legittimo con fare provocatorio, tutt'altro: il tono di Übel era continuamente, irrimediabilmente piatto. Non lasciava trasparire neppure il minimo spiraglio di emozione, ma forse ciò era dovuto al fatto che il tedesco non ne provava alcun tipo.
Ciononostante, Elizabeth sembrò rivolgere un borbottio ironico a colui che aveva appena aperto bocca, dandogli del "simpatico". Chiaramente, la sua era un'istigazione bella e buona, ma Übel, come al solito, parve non darle peso più di tanto. Finn, al contrario, non la udì com'era già accaduto diverse volte.
I due conversanti, Übel ed Elizabeth, invece, si scambiarono un'occhiata che avrebbe potuto far saltare in aria l'intero Nevada. Uno sguardo che era un miscuglio non catalogabile, non categorizzabile; possedeva al suo interno sarcasmo, sottile e tagliente scherno, ma anche un lieve abbozzo di pseudo-quiete, nascosto sotto lo spesso strato di mutismo e razionalità da parte dell'uno e di facile irritabilità da parte dell'altra.
Un mix che vantava però anche qualcos'altro, un qualcosa che, più del resto, nessuno sarebbe mai stato in grado di dedurre.
Brontolando qualche frase, probabilmente insulto, nella propria lingua madre, il pupillo di Paula Pereza - Peccato Capitale dell'Accidia- estrasse dalla tasca sinistra del pantalone blu scuro un pezzo di carta bianca. Piuttosto di arrotolarlo come faceva di consueto, il fanciullo si impegnò invece a dare vita a una forma più bizzarra per i suoi standard: un aeroplanino.
Si sentì quasi trasportare addietro nel passato, nei felici anni di Borås, delle sue acque, dei fiori colorati, della neve. Un leggero sorriso incurvò gli angoli delle sue labbra che, nel ricordo del fenomeno che accaparrava l'intero pianeta, lo condussero sino alla vecchia e amata Svezia. L'aurora boreale, in tale paese, regnava sovrana da Ottobre a fine Marzo e, la sua famiglia, quella dei Torped, aveva la tradizione di precedere chiunque altro, di uccidere quasi per arrivare a vederla.
Non era mai stato bravo con gli origami, lui. Forse era per questo che le cartine si limitava ad avvoltolarle. Eppure in quegli istanti gli interessava poco della qualità della composizione: un aeroplano, di piccole dimensioni, giaceva ora sul palmo latteo della sua mano.
Ora, invece, attraversava la stanza in cabrata.
L'appagamento del castano, però, durò solo pochi secondi. La carta non ebbe il tempo neppure di finire il proprio volo che, al contatto con il tocco - e soprattutto il volere - di Yvonne Roserei, personificazione dell'Ira e mentore di Übel Dunkel, esso si sgretolò in migliaia di granelli di polvere grigia, che caddero al suolo sotto le iridi deluse e arrossate del più grande.
I quattro Peccati Capitali - Claude, Yvonne, Dimitri e Paula, rispettivamente Lussuria, Ira, Avarizia e Accidia - fecero così capolino nella sala, schierati in linea orizzontale, al cui centro si trovava il ventottenne francese.
Non appena i quattro avevano varcato la soglia, nel luogo era calato un silenzio tombale, quasi gli adepti avessero visto dei cadaveri innanzi ai loro occhi. Tuttavia ciò era durato solo alcuni secondi: poco dopo, infatti, Finn si era alzato dalla poltrona per cominciare a obiettare contro l'azione di Yvonne e a cercare conforto in Paula, Übel invece aveva chinato il capo in segno di saluto rivolto solo ed esclusivamente al proprio mentore. Sembrava non interessargli di nessuno dei presenti, ciononostante egli portava rispetto nei confronti di Yvonne, sebbene non eseguisse i suoi ordini come un burattino. Ella era per il tedesco una porta da attraversare per valicare l'ingresso delle tenebre più complete e corrispondeva al ruolo che il giovane avrebbe dovuto ricoprire in futuro. Null'altro.
La più piccola dei sette astanti in quella stanza, Elizabeth, si era limitata a guardare il tutto con un sopracciglio corvino inarcato, come a commentare a tutto quell'improvviso mutismo con un "ma siete seri?". Difatti, non le sembrava per niente il caso di dedicare tale riverenza a quattro Demoni sfruttatori.
Dimitri, il precettore di Niko, si era intanto appoggiato a una parete e, tirando fuori da una delle tante tasche dei pantaloni una serie di banconote, aveva preso a contarle ossessivamente, non evitando di acconciarsi di tanto in tanto gli occhiali che gli ricadevano sulla punta del naso. Gli occhi così chiari da apparire poco distanti dal bianco si muovevano in modo frenetico e compulsivo sulla carta verdognola, quasi volessero avvertirne maggiormente il potere. Del suo adepto non c'era ancora traccia.
Claude, invece, aveva raggiunto Elizabeth e le si era seduto accanto, sul divano bordeaux. Sebbene avesse trascorso la notte passando da una persona all'altra, il suo aspetto era impeccabile: non un capello si trovava fuori posto, non una piega storceva la camicia che egli indossava. Aveva una sottospecie di sorriso apprensivo, soprattutto mentre domandava alla minore come ella avesse dormito sino a quella mattina. Sembrava gli importasse sul serio delle sue condizioni, quando in verità il francese desiderava solamente il meglio per il proprio tornaconto.
«Non ho dormito.» Si ritrovò a rispondere semplicemente la corvina, con un tono appena insospettito. Dopo l'incontro con Nikolaj aveva raggiunto la propria stanza, di cui aveva trovato le chiavi improvvisamente tra le mani, e aveva cercato di riposare. Nondimeno, un susseguirsi di diversi incubi, la maggior parte incentrati su Axel, glielo aveva impedito. La scozzese aveva ricordato che questi trovavano ospitalità nella quasi totalità delle proprie notti e aveva cominciato a presumere che Claude c'entrasse qualcosa.
E la conferma a tale presentimento era stata la replica di colui che le stava seduto affianco il quale, mentre il sorriso falsamente preoccupato si trasformava nel solito sogghigno compiaciuto, aveva affermato nella propria lingua: «C'est ta routine, Elizabeth.»
La diretta interessata fece per aprire bocca in modo da ribattere a tono, tuttavia venne interrotta dal frastuono che Niko, correndo come un assatanato, stava provocando.
«Scusate... Scusate il ritardo!» Esclamò l'ex-militare, piegato sulle ginocchia e con un fiatone tale da poterlo lasciare tramortito lì nel bel mezzo della sala.
«Ragazzi, Dimitri...» Aggiunse poi, una volta che si fu ripreso abbastanza; alzò una mano per porgere saluto a tutti i presenti, uno a uno, dedicando naturlamente particolari attenzioni al proprio mentore. Era un'abitudine che si svolgeva spesso, quella delle riunioni. Ogni azione di Niko pareva essere addirittura meccanica: fare baldoria la sera, svegliarsi tardi al mattino, arrivare in ritardo di conseguenza e dare il buongiorno ai propri mentori e colleghi nella viva speranza di non essere buttato fuori a calci.
Cionostante, quella mattina c'era una novità: Elizabeth. Quando Niko la notò, infatti, le sue sopracciglia castane guizzarono in alto e l'espressione che egli aveva in viso in quel momento mostrava tutto il suo stupore.
«Asso di Picche!» Si ritrovò difatti a enfatizzare il russo, assai contento, mentre un sorrisone a trentadue denti si faceva spazio sul suo volto.
Corse subito a sedersi accanto a lei, la quale aveva ricambiato il saluto con un cenno della mano, poco curante di Claude che, dopo avergli scoccato un'occhiataccia, si vide costretto ad allontanarsi per dare inizio all'adunata.
Così, mentre le prime luci dell'alba donavano barlume al giorno e il sole si apprestava a sorgere, i quattro Demoni principali dell'Inferno, bracci destri del capo, Satana, si trovarono radunati nello stesso luogo di chi li avrebbe sostituiti: i loro adepti.
Claude con Elizabeth, Yvonne con Übel, Dimitri con Niko, Paula con Finn.
La riunione, che altro non era se non l'inizio dell'Apocalisse, stava per cominciare.
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ANGOLO AUTRICE
Ci sono riuscita!
Innanzitutto, mi scuso ancora per la lunghezza del capitolo e per la sua probabile confusione. Premetto che c'è stato un cambiamento dell'ultimo minuto: inizialmente avevo intenzione di narrare anche la riunione, ma poi ho notato che il capitolo sarebbe stato poi troppo lungo e pesante, quindi ho cambiato idea. Ma don't worry: tra un paio di capitoli saprete di cosa hanno parlato!
Dico tra un paio perché il prossimo capitolo sarà interamente dedicato a un flashback sul passato di Elizabeth; verranno chiarite alcune cose e spero vivamente che il numero di parole sarà minore.
Ancora, vi chiedo: i capitoli sono troppo pesanti? Come li trovate? Vi prego di rispondermi perché io non ne ho la più pallida idea!
Ma ora, soffermiamoci su questa parte appena pubblicata: vi è piaciuta? Come vi sono sembrati, a primo impatto, i due nuovi personaggi affrontati: Finn e Übel? Fatemi sapere!
Anyway, noi ci vediamo con il prossimo capitolo e alcuni ricordi della nostra protagonista, Elizabeth, che, per la cronaca, ho iscritto a un concorso sulla caratterizzazione! Tifate per me e auguratemi buona fortuna!
Chapeau,
-Arianna🎻
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