♰ I - ᴛʜᴇ ɴɪɢʜᴛ ɪs ʏᴏᴜɴɢ; ᴘʀɪᴍᴀ ᴘᴀʀᴛᴇ
Le luci del casinò Flamingo erano le più brillanti di tutta Las Vegas; gli astanti a tale sfarzo erano davvero numerosi, ma soprattutto di qualsiasi età: c'erano adolescenti travestiti della responsabilità adulta, uomini e donne che cercavano di affogare i loro dispiaceri nell'intenso sapore dell'alcool e anziani che speravano di riguadagnare ciò che avevano perso durante un'intera vita solo affidandosi alla fortuna che il gioco d'azzardo suggeriva di possedere.
Quella sera di settembre sembrava uguale a ogni altra: le stelle che avrebbero dovuto puntellare la volta celeste erano offuscate dai fari del casinò; il vento già troppo freddo per essere semplicemente autunnale pareva entrare fin sotto la pelle delle persone, e la confusione dei presenti nell'edificio - dovuta principalmente alla sbronza - coinvolgeva anche chi era ancora sobrio.
Una cosa, però, era diversa, quella notte: in una delle stanze private dell'hotel una giovane dai corti capelli dello stesso colore del buio più assoluto si era risvegliata con un fortissimo mal di testa, quasi avesse bevuto qualche bottiglia di whiskey di troppo. Chissà, magari era accaduto davvero, ma non ci è dato saperlo. Fatto sta che la ragazza, una scozzese di nome Elizabeth Maleun, si era destata da un sonno che sembrava essere durato giorni interi e ora non ricordava più niente del suo passato. Diciassette anni erano scomparsi nel nulla.
Tutto ciò che Elizabeth sapeva di sé era il nome, l'età, la nazionalità e il fatto di sentire da sempre una voce suadente che le suggeriva - o meglio, imponeva - cosa fare e cosa non fare. La corvina avrebbe potuto benissimo scambiare questa voce per la famosa coscienza... eppure essa era tutt'altro. Era un supplizio che la tormentava fin dalla nascita, un calvario che pareva non avere fine.
Elizabeth non sapeva il motivo di quella "sosta" in Nevada, né come ci fosse giunta; ciò che le era importato sin dal primo momento in cui aveva aperto gli occhi in quella camera del Flamingo era stato capire cosa le fosse accaduto prima di quella fredda notte del ventitré settembre.
Così, la giovane scozzese si era alzata dal letto sul quale si messa precedentemente a sedere e si era avvicinata a un piccolo specchio che adornava la parete color caramello; aveva osservato attentamente il viso riflesso nella lastra di vetro, e l'immagine aveva solo accentuato la sua condizione di stupore: nonostante il pallore cadaverico della sua carnagione e i capelli corvini che mettevano in risalto i cerchi neri attorno agli occhi a loro volta scurissimi, l'indubbia bellezza della diciassettenne era rimasta intoccata. Anzi, appariva addirittura intensificata: il trucco metteva in risalto gli occhi della ragazza, tanto strani da sembrare inverosimili. Le sue iridi, infatti, erano così scure da dare l'impressione di essere un tutt'uno con la pupilla.
Il naso dritto, la mascella ben definita e gli zigomi alti e pronunciati al punto giusto davano il loro supporto verso quell'aspetto regale che aveva contraddistinto Elizabeth sin dall'infanzia. Non a caso i suoi genitori avevano scelto per lei il nome della più grande sovrana del suo paese natio.
E poi, le labbra carnose della diciassettenne erano dipinte di un rosso scarlatto che intensificava la sua espressione sempre severa, la quale trovava via di fuga solo in un ghigno talvolta malizioso che si veniva a formare piuttosto spesso.
Si era guardata allo specchio per un tempo che non si era curata di quantificare, lei, quella regina dalle fattezze divine. Poi, semplicemente, si era lisciata un piccola piega del lungo vestito color pece, prima di dare un ultimo sguardo alla piccola camera: piccola, sì, puzzava di chiuso, dava l'idea di essere in trappola. Senza neanche una finestra, quasi fosse uno scantinato. L'unica illuminazione era un lampadario che dava alla stanza una forte luce giallastra, giusto per accentuare il color caramello delle pareti, che non facevano altro che dare una brutta impressione di sporco. Chissà perché. In quel vano non c'era quasi spazio per il letto matrimoniale dalle lenzuola bordeaux e il comodino di legno scuro alla sua sinistra. L'unico arredo era quello specchio stranamente immacolato nel quale Elizabeth si era specchiata, poi null'altro.
E dire che quella tana era parte del casinò Flamingo di Las Vegas, figuriamoci.
Sperando vivamente che il resto del locale non fosse così privo d'attenzione e soprattutto pulizia, la corvina aprì la porta della camera, notando che questa era già socchiusa; scese dunque le scale al buio che la stavano per condurre chissà dove, stando ben attenta a non inciampare per colpa del vestito nero e dei vertiginosi tacchi che solo allora aveva riscontrato di calzare. Effettivamente, essi la slanciavano e le donavano qualche centimetro in più dei suoi soliti centosessanta circa.
La discesa anche piuttosto pericolosa fu accentuata dal buio pesto al quale era esposta, ma alla ragazza scozzese pareva non importare più di tanto, come se ella fosse stata abituata a questo tipo di cose.
Le scale erano parecchie, sembravano non finire più; e mentre Elizabeth le percorreva, pensava secondo di più a cosa ci facesse lei, diciassettenne, in un locale. Non che l'avesse visto di essere in un locale, però man mano che lo raggiungeva, la giovane riusciva a udire in modo sempre più nitido un certo genere di musica che poteva ricollegarsi solo a un locale.
La scozzese aveva disceso l'ultimo scalino quando, innanzi a lei, si mostrò un mondo che le sembrava perfettamente uguale a come i film lo riportavano. O almeno, aveva questa sensazione. Certo, non riusciva a vedere bene tutto: c'erano tante di quelle persone che le sembrava quasi di soffocare solo al mirarle. Ma allora perché sentiva di stare bene?
I tavoli erano rotondi, disposti a cerchio nel bel mezzo della sala, mentre le slot machine la perimetravano. I pavimenti erano di parquet, non c'erano angoli; magari la cosa era intenzionale, magari i novanta gradi e le linee dritte inducevano la gente a fermarsi e a rendersi conto di ciò che facevano, di quanto denaro stavano gettando via, di quante ore stavano perdendo; non c'erano orologi, le finestre erano oscurate, se chiedevi l'ora non ti veniva rivelata. Si perdeva la cognizione del tempo come ci si perde nei labirinti.
Uomini e donne giocavano d'azzardo sotto gli occhi neri di quella diciassettenne ferma sulle scale a guardarsi attorno. Sfidavano il fato, sfidavano Dio, sfidavano la scienza, sfidavano la magia. Enti così superiori da essere collegati tra loro ma allo stesso tempo incongiungibili.
Ma c'era qualche strano effetto, in quell'atmosfera, che la insospettiva: era come se Elizabeth sapesse che tutti i presenti possedevano un pezzo di vita che li accomunava. Tutti quanti. E no, non era l'amore per quello svago maledetto che li spingeva a passare anche intere notti rinchiusi nei casinò. No... era un qualcosa di molto più infimo, un qualcosa di segreto, chissà, magari genetico.
Eppure la scozzese ne era così sicura che aveva concentrato tutta la sua attenzione sullo scovare questo mistero collettivo a tal punto da dimenticare cosa doveva trovare in realtà: il motivo per cui diciassette anni della sua esistenza erano scomparsi nel nulla e perché lei si era ritrovata nel Flamingo di Las Vegas, quando invece la sua casa era a Skye.
Non si era accorta neppure di aver cominciato a camminare, senza una meta precisa, alla ricerca di un qualsiasi dettaglio che potesse fornirle informazioni. Ma niente, era tutto tabula rasa. Tra il vociare confuso e indistinto dei giocatori, solo una persona era stata in grado di riportarla alla realtà. Elizabeth non la conosceva, non l'aveva mai vista, eppure un'ingenua frase, una richiesta indiretta, le aveva fatto abbandonare il suo stato di semi-trance per farla ritornare con i piedi per terra.
- Dovrei passare. -
Era stato così naturale che quasi sembrava comico, quasi faceva ridere.
La scozzese stava ostruendo un piccolo corridoio, l'unico che portava all'ingresso di una nuova sala. E il ragazzo dietro di lei le aveva chiaramente fatto capire che, semplicemente, doveva spostarsi.
Ma possono due perfetti sconosciuti ritrovarsi più affiatati di due persone che si conoscono da tutta una vita? Come se fossero complementari, come se l'esistenza di uno senza l'altro fosse impossibilitata da forze maggiori. Forze che nessuno poteva né confermare, né negare, tantomeno di cui si potevano affermare l'esistenza o l'infondatezza. Forze che nessuno sarebbe stato capace di controllare appieno, ma che tutti sentivano di poter dominare, almeno per la minuscola parte che si riversava in ciascuno.
"Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni", diceva Shakespeare.
Fatti della stessa sostanza dei sogni... Elizabeth non ci credeva. Ma d'altronde questa filosofia come poteva risuonarle, se non ridicola? A lei che non aveva mai sognato, poteva apparire solo insensata.
E allora perché, nel momento in cui il suo sguardo aveva incrociato quello del ragazzo che oramai aveva di fronte, il tempo pareva essersi fermato? Perché i loro occhi si erano cercati, trovati e incatenati come se ciò che li circondava contasse poco più di niente?
Era durato un attimo, un istante così fugace da risultare irrimediabilmente innocuo. Eppure era stato più pericoloso di qualsiasi ferita mortale. Perché il destino dei due ragazzi era stato già segnato e quel taglio fatale non avrebbe mai smesso di sanguinare.
Era finito tutto senza che Elizabeth potesse neppure sincerarsene: si era spostata lievemente e il giovane dai capelli biondi le era passato accanto, sfiorandola quasi e fissandola intensamente, come se fosse stato capace di perforarle lo spirito solo con un'occhiata. Ma poi l'aveva sorpassata e non si era più voltato indietro.
Le capitava spesso di incontrare la gente, ma mai nessuno le era rimasto così impresso.
Il viso del ragazzo sembrava essere stato scolpito direttamente nel marmo; la sua pelle era liscia e candida quanto la porcellana. Non un filo di barba macchiava i lineamenti così perfetti da apparire inverosimili, spigolosi da far pensare di poter fendere solo al guardarli di sfuggita, seppur il biondo avesse poco meno di vent'anni.
I capelli, dorati quanto il sole d'estate e alla vista soffici quanto le nuvole, erano tirati all'indietro in una maniera piuttosto naturale, sebbene quello del giovane non fosse affatto un aspetto rilassato.
Anzi, era rigido come quello di un soldato, come quello di un imperatore, pronto a dominare su chiunque, pronto a radere al suolo ogni distesa.
Potevano due occhi, somiglianti a zaffiri incastonati nella selenite, essere così in contrasto con un volto tanto angelico? Poteva quello sguardo così gelido, rigoroso, severo, fermo, austero partire dai quei due pozzi dello stesso colore del ghiaccio? Poteva uno spirito tanto in subbuglio appartenere a un giovane uomo tanto ricollegabile al Paradiso per sembianze?
Nessuno avrebbe mai potuto immaginare quanto frastagliato fosse il passato di quel ragazzo proveniente dalla Germania. Nessuno avrebbe mai potuto neanche lontanamente intuire quanto dolorante fosse il suo spirito e quanto sigillate le sue labbra, che parevano esser state disegnate perfettamente sopra il bacio di una creatura celeste.
Nessuno, neppure Elizabeth poteva preavvisare quello che sarebbe successo, quanta salvezza e quanto danno avrebbe portato quel tedesco. Qualcuno si sarebbe aggrappato a lui con tutte le proprie forze e, come trascinato da un'ancora, sarebbe sprofondato verso i fondali più oscuri degli oceani. Ma poi sarebbe risalito, il bagliore del sole l'avrebbe lambito nuovamente. E sarebbe scampato a una sorte crudele fatta di eterna sofferenza, come se miracolato.
Übel Dunkel sarebbe stato un miracolo.
Ma questo la scozzese non lo sapeva, non poteva saperlo. Dunque aveva continuato a camminare, anche se solo quando il biondo era uscito completamente dalla sua visuale ed ella aveva ripreso il controllo di sé.
Si era quindi guardata intorno, indietro, percorrendo con lo sguardo attento e minuzioso tutto ciò che si trovava attorno a lei, al di sopra di lei, al di sotto di lei, avanti a lei, alle sue spalle.
Si focalizzava su ogni minimo particolare che i suoi occhi, neri come la pece, riuscissero a percepire: essi si concentrarono sul bagliore soffuso della sala da gioco, grande quanto la pianta di un'intera scuola; si concentrarono sulla luce accecante degli schermi delle slot-machine, su quanto esse fossero capaci di attirare e incollare a sé la vittima malcapitata. Mirò a quanto potesse essere debole e vulnerabile la stupida, stolta mente umana, in grado di farsi sedurre da divertimenti ripugnanti quanto poco dignitosi.
La giovane guardò allora il grosso lampadario all'ingresso del corridoio, quello che aveva portato alla sala in cui si trovava ora, enorme e sfarzoso, brillante quanto centinaia di costellazioni ammassate tutte nello stesso luogo al massimo della loro potenza. E, quando spostò il proprio interesse sul pavimento di parquet, adesso ricoperto da un morbido tappeto a fantasie di rombi intrecciati rossi e viola, si sentì quasi precipitare. Per poco non si ritrovò in terra, a causa dell'illusione ottica che quella configurazione le aveva riservato. Si portò dunque una mano alla fronte, distogliendo immediatamente lo sguardo e riportandolo di fronte a sé. Ancora una volta sentì l'equilibrio abbandonarla e la stanza girare, come in uno stato di ebbrezza, e si rese finalmente conto che forse era il caso di uscire da lì, o almeno di allontanarsi da tutte quelle macchine infernali, da tutto quell'ossessivo e assordante silenzio, spezzato solo da una musica di sottofondo altrettanto compulsiva ed esicastica.
Fu così che si diresse verso la zona del bar. Un immenso bancone pareva occupare metà del volume della sala, percorrendola dall'inizio alla fine; a servirlo, decine e decine di baristi, così abili con le bottiglie, con i bicchieri da far sembrare che la loro vita non fosse dedicata ad altro. E forse era proprio così. Ci si trovava pur sempre a Las Vegas, lì tutto era possibile.
La diciassettenne si accostò al bancone e, ancora una volta, studiò con lo sguardo tutto ciò che le era possibile osservare: cinquanta, forse anche di più, varianti di alcool erano presenti. Esso veniva versato nei bicchieri che si riempivano e svuotavano a una velocità inverosimile.
E mentre era occupata a squadrare e recepire ogni singolo dettaglio che attirava la sua mente, una figura, l'ennesima, si appoggiò al bancone per richiedere da bere.
C'era da dire che Elizabeth era legata all'alcool: ogni occasione era buona per scolarsi una birra, anche solo una; eppure quella sera non le era neppure passato per la mente di prendere un sorso di alcun tipo di drink.
- Sei da sola? - Domandò l'uomo appena arrivato. La scozzese non capì subito che stesse parlando con lei, e sebbene fosse rimasta con lo sguardo puntato davanti a sé gli rivolse un'occhiata fugace.
- Tesoro, mi senti? O sei sorda oltre che bellissima? -
A quella domanda, le scure sopracciglia della fanciulla guizzarono in alto, mentre ella si girava di poco verso il sopraggiunto. Era lì da quanto? Due ore, forse tre, e già aveva incontrato qualcuno che le dava il voltastomaco.
- Tu che dici? - Fu però la risposta di Elizabeth che, per la prima volta in quel casinò, diede prova di quanto fosse irascibile e selettiva. Si alterava con davvero poco, e questo lo si poteva ben notare dal tono sarcastico quanto tagliente che aveva utilizzato.
- Io dico che è un peccato che tu sia qui senza nessuno. Rimediamo? -
Al sorriso innocente del maggiore, la più giovane ne esibì uno simile, ma molto più costruito e falso. Si prese allora del tempo per poterlo osservare: poteva avere tra i ventisette e i trent'anni, non di meno e non di più. Aveva il viso dalla forma leggermente allungata, con i lineamenti molto, molto morbidi. Gli occhi erano di un verde smeraldo, incorniciati dalle lunghe ciglia scure e dalle folte sopracciglia. Aveva il naso lievemente schiacciato e le labbra carnose, rosee, sopra le quali un paio di baffi castani incorniciavano il mezzo ghigno presente sulla sua bocca. La barba non era fitta, ma ruvida e ispida malgrado fosse sicuramente ben curata, così come il resto dell'intera persona. E questo lo si poteva percepire dal profumo pungente che l'uomo emanava, forse un po' esagerato.
I capelli scuri quasi quanto quelli della corvina chiudevano quel quadro certamente delizioso, ma non abbastanza da colpire Elizabeth. Si collegavano alla barba attraverso le basette diritte e ben tagliate. Claude, questo il nome del ragazzo francese, era infine palesemente molto più alto della giovane che aveva davanti, superandola di almeno vento centimetri buoni.
- Se con "rimediamo" è sottinteso il tuo andartene e lasciarmi in pace prima che ti arrivi una ginocchiata nei genitali... sì. Rimediamo con piacere. -
Il sorriso innocente mostrato dalla corvina poco prima si allargò a dismisura, mentre ella batteva un paio di volte le palpebre per mettere in risalto i finti e teatrali occhioni da cerbiatta.
E a quella risposta, il diretto interessato inarcò un sopracciglio scuro, ma parve non demordere: le sorrise dunque cordiale, come se si frequentassero da una vita intera.
E in effetti egli era parso familiare a Elizabeth, come se fossero stati conoscenti in una vecchia vita, ma la memoria andata della ragazza non sembrò volerla affatto aiutare.
- Lo sai, Eli, non sei cambiata per niente. Ti lascio da sola per un paio di giorni e rimani sempre la solita. - Commentò allora l'uomo, scuotendo con rigore il capo, ma accompagnando il tutto con una tagliente risata divertita.
Quella risposta non solo confuse la diciassettenne, ma finì anche con il farla innervosire: si sentiva presa in giro e di sicuro non le faceva affatto piacere. Il suo ego smisurato non le dava l'agio di restare calma di fronte agli sfottò altrui, che spesso le apparivano molto più esagerati rispetto a com'erano realmente.
La giovane si ritrovò dunque a corrugare la fronte e il suo sguardo vagò velocemente sul volto dell'altro, avido nel cercare di capire come egli conoscesse il soprannome - la cui pronuncia era "Ilai" - attribuitole da qualcuno di sicuramente importante e intimo che però in quel momento non era vicino ai suoi ricordi.
Ma soprattutto cercava di capire secondo quale criterio il maggiore affermasse di non vederla trasformata dopo averla lasciata da sola per un paio di giorni, naturalmente prima che questi glielo rivelasse da solo.
- Tu c'entri con la mia perdita di memoria. - Sentenziò d'un tratto Elizabeth, asserendolo in una maniera così campata in aria ma con un tono tanto sicuro, fermo e convinto da farla apparire pazza. Cosa che probabilmente, vista la scintilla di follia sempre presente nei suoi occhi, era davvero.
- Oppure, se non c'entri, hai dei ricordi che condividiamo. -
Alla seconda opzione, il francese storse appena le labbra in una frazione di secondo, poiché esse si ritrovarono piegate in un mezzo ghigno subito dopo.
- Sono il tuo ragazzo, Eli. -
Ancora quel nomignolo. Le dava fastidio, ma non perché irritante: la corvina provava dolore nel sentirsi chiamare in quel modo. E, come un déjà-vu, l'immagine di un giovane dai capelli scuri quanto i suoi, i lineamenti molto simili e familiari, la risata cristallina e gli occhi di un verde-azzurro chiaro quanto il mare attraversò la sua mente, squarciandola come una stella cometa durante una notte buia. Un giovane importante, troppo importante per la fanciulla a cui era legato.
Il suo primo pensiero fu quello che no, Claude non era affatto il suo fidanzato, ma che poteva ipoteticamente esserlo colui che aveva appena visto. D'altronde, Elizabeth sentiva una stretta allo stomaco, dalle parvenze delle famose "farfalle". E sentiva come se l'unica persona di cui le interessava, adesso, fosse quella appena scorta.
E fu proprio per questo che, dopo aver sbattutto ancora le palpebre nel tentativo di riprendersi dal proprio momentaneo stato di trance, la scozzese mormorò una risposta troppo distratta nei confronti dell'interlocutore:
- Non sei il mio ragazzo. E, se lo fossi mai stato fino ad ora, non lo sei più. -
Il poco accentuato ghigno sulle labbra del diretto interessato si intensificò nell'udire quelle parole quasi crudeli, se non fosse stato per il fatto che loro due davvero non avevano alcun tipo di rapporto amoroso.
- Riduci il mio cuore in tanti piccoli frammenti, lo sai? -
- Perdonami, adoro il rumore dei cuori spezzati. -
Ancora una volta, la risposta della diciassettenne fu distratta e sarcastica, soprattutto quando ella chiese scusa. Non era il tipo, Elizabeth, da domandare sciocchezze simili, tantomeno era tipo da ringraziare, da pregare, da supplicare. Il suo orgoglio ne avrebbe risentito troppo, e non poteva permetterselo.
- Ma ora basta con le stronzate del genere. Piuttosto, la mia memoria... -
Claude non le diede neppure il tempo di terminare la frase e la frenò, alzando una mano per farla smettere di parlare. Si guardò attorno e, in lontananza, all'inizio della sala suggessiva, scorse fugacemente un modello di roulette che attirò subito la sua attenzione. Il francese era tanto patriottico e qualsiasi cosa gli rimandasse a spezzoni della propria vecchia vita lo faceva andare su di giri, esaltare peggio di un tossico dinanzi a sostanze stupefacenti e bambini di fronte a un giocattolo nuovo di zecca.
- Perché non vieni con me, Elizabeth? -
Le propose dunque lui, allungando la mano appena protesa nella direzione della giovane, che ella naturalmente non fece altro se non osservare con palese disgusto.
- Ci divertiamo un po' e nel frattempo trattiamo di questioni che interessano particolarmente a entrambi. -
A quella proposta, la scozzese inarcò un sopracciglio corvino con fare accusatorio. Fidarsi? Non fidarsi?
Non che avesse tanta importanza, d'altronde l'uomo le aveva già dimostrato di essere a conoscenza di informazioni di cui lei necessitava.
Cosa aveva da perdere, a quel punto?
- Cominciamo ad esempio dal fatto che le condizioni del patto non sono trattabili. -
Il sopracciglio già incurvato della diciassettenne non fece altro che salire sempre più, portando con sé anche l'altro.
- "Patto"? - Fece quindi eco al maggiore che, intanto, aveva preso a camminare verso il gioco d'azzardo a lunga distanza da loro.
- Qui nessuno ha nominato alcun patto. -
- Sì invece, Elizabeth. -
Il ventottenne, questa la sua età, si arrestò nel bel mezzo del corridoio, girando di poco il capo per poter guardare la fanciulla che aveva iniziato a seguirlo titubante, ma che si era bloccata a sua volta vedendolo fermarsi.
- Io e te siamo legati da una clausola che non puoi in nessuna maniera infrangere. -
La fanciulla fece per aprire bocca, ma l'altro la interruppe per l'ennesima volta. Non sapeva neppure perché lo stava facendo, lei: uno così avrebbe dovuto non solo odiarlo, ma soprattutto liberarsene il prima possibile. Non confidava affatto nella sua persona e di certo non le faceva piacere stare a sentire ciò che diceva.
Ma il suo spirito di sopravvivenza la portava a credere nel fato, una volta tanto, e ad azzardare quel minimo di fede nell'uomo, abbastanza da farle ascoltare ciò che le veniva spiegato.
Elizabeth rivoleva la sua memoria indietro. Senza una storia non era nessuno, non aveva carattere, né una filosofia. Rivoleva se stessa, e non avrebbe accettato un "no" come risposta. Anche a costo di compiere scelte sbagliate.
D'altronde, per lei il fine giustificava sempre i mezzi. Sempre.
- Quindi ti conviene tenere bene a mente una cosa, mia piccola Eli. -
Claude si girò completamente a guardarla, uno sguardo tanto profonda da farle pensare di poterla trapassare in un nonnulla senza sfiorarla.
- Io e te siamo molto, molto simili. E l'uno senza l'altro non può esistere.
Ma ricorda ogni momento in cui aprirai quella piccola bocca senza prima collegarla al cervello che, in qualunque dei casi, una sola cosa è certa. -
Il silenzio parve avvolgerli nettamente, in modo che le ultime parole del francese risuonassero come un eco infinito nella mente di colei che ne sarebbe diventata la servitrice.
- La mia parola è legge. -
ANGOLO AUTRICE
Finalmente sono riuscita a portare a termine un capitolo di questa storia! È stata una faticaccia assurda e non è venuto neppure come mi aspettavo, ma diciamo che ci accontentiamo va'!
Allora, parto con lo scusarmi per l'attesa e soprattutto per la lunghezza assurda del capitolo. Spero non sia stato troppo pesante, in ogni caso.
Poi. Lo stile è davvero molto differente da quello che, per chi la segue, utilizzo con "Phoenix". Well, vi piace? O vi sembra troppo forzato? Quale preferite tra i due?
Infine, vengono presentati tre personaggi: Elizabeth, la protagonista, e altri due che saranno strettamente legati a lei: Übel e Claude. Cosa ve ne pare dei tre? Riuscireste a delineare almeno un paio di caratteristiche per ognuno? Fatemi sapere nei commenti!
Bene, credo di aver scritto abbastanza per questa parte. Tenterò di pubblicare il prima possibile la prossima anche perché è fondamentale.
Come al solito uso orari esagerati per pubblicare ma ormai chi mi segue da un po' sa che io vivo di notte. Quindi, noi ci vediamo con la prossima parte del primo capitolo.
Good goodbye and good night visions,
~Arianna☄
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