XVIII

(Amélie)

Adam corrugò la fronte colpito e Amélie aprì la bocca. «Non lo sapevo! Spero che prendano quel bastardo. Di sicuro è un pazzo malato.» Mi morsi la lingua e non diedi altri dettagli su Alain o la setta. «Stai bene ora?» chiese e io annuii. Non volevo che la Stigmate rovinasse quella giornata. «Sei stato davvero poco gentile, Adam.»

Il ragazzo alzò le mani in difesa e si scusò.

«No, va bene. Tu non lo sapevi» cercai di sdrammatizzare. «Come vi siete conosciuti voi due?»

Amélie fece un ampio sorriso e guardò il suo ragazzo dolcemente. «Io e Ian andiamo alla stessa università e seguiamo i medesimi corsi. Dovevo chiedere gli appunti a qualcuno e ho cominciato a sedermi vicino a Ian per disperazione, era il più calmo della classe. Poi un giorno mi ha presentato Adam e lui mi ha chiesto di uscire!» esclamò e la sua voce era trasognante.

«E tu mi hai detto di no!» si impuntò il biondo.

«L'ho fatto un po' penare all'inizio, lo ammetto, ma era così divertente vedere la tua espressione disperata!» scherzò. «Tu conosci Ian da più tempo, vero?»

Adam annuì fiero. «Oh, sì! Ci siamo conosciuti un paio di anni fa, ma aveva la stessa faccia imbronciata che ha ora. Vuoi darci un taglio?» Ian non proferì parola. «Però almeno posso tenere d'occhio la mia Amélie mentre sono al lavoro! Chi mi dici che non ti getti in altrui braccia mentre non guardo?»

Lei alzò un sopracciglio. «A volte lo farei quando fai certe scenate.»

«Non contare su di me» disse Ian. «Io sono dalla sua parte, non dalla tua.»

Adam schioccò la lingua e adocchiò il mio ciondolo d'oro. Era l'unico oggetto di valore che avevamo all'orfanotrofio, le suore lo davano ad ogni ragazzo e ragazza una volta compiuti quattordici anni, quando eravamo ufficialmente pronti a prendere gli incarichi più importanti in chiesa. Era un semplice pendente a forma di croce, sottile e brillante. Erano anni che non lo toglievo.

«Sei religiosa?» mi domandò e colsi una punta di scherno nella sua voce che faticai a mandar giù.

«Sono cattolica» specificai.

Adam ridacchiò e si voltò verso Ian. «Tu glielo hai detto di essere un ateo convinto?»

Pensai che fosse una cattiveria gratuita e di sicuro anche l'altro ragazzo lo pensò, Ian diventò rosso di rabbia fino alle orecchie e potei quasi vedergli il fumo uscirgli dalle narici. Era strano vederlo in quello stato, in preda ad un'emozione così disturbante.

A differenza di ciò che pensavano molti, e con essi molte suore conservatrici, io non ero innervosita dalle altre religioni o dei. Non mi era mai importato se qualcuno pregasse il mio Dio o il suo, era bello l'atto in sé di amore e fiducia verso il mondo spirituale.

Calò uno strano silenzio.

Sospirai e dissi: «Non mi importa se Ian è ateo o meno. Può pregare anche un dio fatto di spaghetti e mi andrebbe comunque bene. Io rispetto le sue opinioni e lui ha sempre fatto lo stesso con me. Non mi arrabbierei mai per questo.»

Ian rilassò le spalle, ma non accennò a diminuire quel cipiglio costante.

«È una bella cosa questa!» commentò Amélie «Io sono Buddista. Adam non sapeva nemmeno cosa fosse quando mi ha conosciuta.»

«Tu non credi in Dio?» chiesi ad Adam.

Lui alzò le spalle. «Io credo alle cose che vedo. Non dico che non credo a niente, ci sono parecchi misteri a questo mondo, ma la religione ha già rovinato parecchie vite e ha rallentato il progresso scientifico. Come ti spieghi le persecuzioni degli ebrei e dei cristiani a Roma?» scimmiottò.

«Le azioni di pochi non rappresentano il totale di una comunità o di una religione. Gli estremismi cristiani o musulmani non sono religione, sono frutto di una contorta distorsione dei testi sacri, unito a un bel po' di odio bellico. Credo che se non ci fosse Dio non saremmo così diversi dagli animali, senza etica. Mi credi capace di fare una strage?» replicai curiosa.

Adam mi squadrò. «Nah. Ehi, Ian, ti va di bere una birra? Vi portiamo un succo.»

Lo tirò per il braccio, sussurrandogli qualcosa all'orecchio e Ian sospirò. Non mi parve per nulla a suo agio, ero stata fin troppo in mezzo alla gente per capire quando una persona era turbata. Non osai pensare al termine "infastidito" dato che, se non avessi saputo che Adam e Ian fossero amici da anni, si detestassero. Di certo non era puro odio, se a Ian non piaceva la compagnia preferiva non perdere troppo tempo e andarsene, anziché sopportare e fare finta.

Per un momento pensai che forse era imbarazzato per avere me intorno.

«Hazel, chiacchieriamo un po'. Come hai conosciuto Ian?» mi domandò curiosa, cercò nella borsa un accendino e una sigaretta, offrendomene una.

«No, grazie» risposi educata e lei se la accese, espirando un leggero fumo. «La prima volta che ci siamo visti è stato per strada, ho sbattuto la testa contro un palo e lui mi ha aiutato! È un ragazzo molto gentile.»

Lei annuì e si sdraiò. «Lo è. Senza ombra di dubbio Ian è uno dei ragazzi più dolci e disponibili che conosca, quando Adam mi ha detto che si frequentava con una ragazza sono rimasta stupita. Non l'ho mai visto in compagnia di nessuna in particolare, anche all'università è piuttosto schivo. È educato, ma riservato, non so se intendi.»

Dissi di sì, seppure mi paresse lontano dall'idea che mi ero fatta su di lui. A volte mi accennava qualche nome qua e là, ma oltre a loro due e Simon non conoscevo nessuno della sua vita. Era un po' egoista da parte mia sperare in molto di più, specie perché la mia, di vita, sarebbe dovuta restare un mistero.

«Tu abiti a Parigi?» chiesi.

Lei mosse la mano. «Leggermente fuori, a Montrouge, ma vengo a Parigi ogni giorno per l'università. Se non hai impegni qualche volta potremmo vederci, prendere un caffè, che so, o un bubble tea. Lasciami il tuo numero.»

Quando tornarono dal bar Ian aveva assunto un tono più rilassato e mi diede un succo all'ace. Quando Adam finì la sua birra andammo all'interno e facemmo il giro delle attrazioni. Non avevo idea di quanto l'altezza in sé mi facesse paura fino a quando dovetti salire fino allo scivolo più alto tramite a delle rampe metalliche.

Facemmo numerose attrazioni, anche più di una volta, e ammisi che fu il giorno più divertente della mia vita. Erano rari i momenti in cui ero così impegnata da dimenticare la sensazione del fuoco che mi pizzicava la dita, sospettavo talvolta che Emmanuel volesse tenermi occupata per non farmi perdere tra i miei pensieri e, per la prima volta, il divertimento che provai superava l'insicurezza, la malinconia e la paura.

C'erano scivoli altissimi, gallerie su cui slittavano i gommoni per poi finire in rampe vertiginose che ti gettavano nelle piscine. I più coraggiosi si lanciavano da alti trampolini, facendo capovolte e atterrando con maestria, i bambini giocavano nelle piscine più basse o in quella delle onde, dove si generavano a intervalli regolari e la gente si divertiva a saltare. Non mi piacque la sabbia, era appiccicosa, molto più bianca di quella normale e puzzava.

Mentre io e Amélie eravamo a mollo nella jacuzzi, Adam e Ian andarono a surfare all'interno, in un piccolo centro. Per quanto volessi rimanere con Ian e avere la scusa di andare negli scivoli insieme, lo lasciai stare senza dire niente e ci rincontrammo più tardi, verso le capanne di paglia e ridacchiai un po' di più, avendo bevuto con la ragazza un Cosmopolitan.

«Tu è meglio se non bevi» mi ammonì Ian, togliendomi il bicchiere tra le mani. «Specie se a stomaco vuoto. Mio Dio, ero convinto che fossi astemia.»

Adam si massaggiò la botta sul bacino. Era caduto da una delle tavole da surf e si era fatto male. «Che diamine di ore sono? Ho davvero fame.» Amélie gli mostrò il suo telefono e lui allargò gli occhi. «Ma sono quasi le quattro e mezza!»

Ian mi prese per le guance e me le strizzò, tanto da farmi assomigliare a un pesce e mi fece il verso.

Amélie diede un'occhiata al cielo e si tolse gli occhiali. «Si sta rannuvolando o pare solo a me?»

Avevamo passato molte ore all'interno a divertirci, il tempo era davvero volato, e le vetrate interne mascheravano un cielo più grigio. Non mi ero preoccupata del meteo perché al mattino c'era stato un bel sole caldo, ma in quel momento c'era una grosse nube densa e scura a est. C'erano ancora dei raggi solari, si stava ancora bene all'aperto, tuttavia si alzò un'aria più fredda e pungente.

«Avevi detto che c'era bel tempo.» Adam si voltò verso Ian.

«Tu l'avevi detto. Anzi, l'hai presupposto. Ragazze, perché non ci vestiamo e andiamo al ristorante? Secondo me non ci conviene rimanere all'aperto, molti se ne stanno andando.»

In effetti c'era molta meno gente rispetto alle prime ore del mattino, quasi la totalità delle famiglie aveva tolto i bambini dalle piscine e stavano levando le tende, i ragazzi nelle comitive ancora giocavano infantili tra tuffi e fischi, liberi dalla folla.

Il ristorante dell'Aquaboulevard era molto più compresso degli ambienti circostanti, o così parve a me dato che eravamo stati per ore immersi in torrenti e piscine ampie, e di sicuro era più sporco. C'erano pezzi di hamburger per terra, quelli che i bambini più piccoli lanciavano, delle bucce di bagigi e le pozze delle infradito bagnate, nonostante questo ci sedemmo a uno dei tavoli. Aspettammo un po' più del dovuto, ma alla fine mangiammo tutti e quattro delle pizze. Non erano male – di sicuro lo erano, eppure era la compagnia di Ian a far sì che il gusto migliorasse e la fame – e chiacchierammo per ore.

Parlammo di sciocchezze, ciò che i ragazzi di solito a quell'età dicevano tra loro, su come l'università fosse stressante, di come Adam avesse lasciato gli studi per lavorare in una macelleria, del vestito che Amélie aveva visto a Beaugrenelle e del tradimento di una sua cara amica. Non mi sentii affatto diversa o strana, ridevo alle loro battute, scherzavo, rispondevo.

Uscimmo dall'acquapark verso le sette, quando la gran parte delle persone se ne ero già andate e rimanevano solamente degli anziani a girovagare nelle vasche idromassaggio o giovani ragazzi su e giù per i negozi. Il cielo oramai era diventato blu scuro, grigio, e il sole era totalmente scomparso. Di sicuro nel giro di poco tempo avrebbe iniziato a piovere, e sarebbe stata una pioggia intensa e di breve durata, come accadeva spesso in quella stagione. Non faceva tanto freddo, nonostante l'aria si fosse alzata.

«Noi ci dividiamo qui» disse Adam, sfregandosi le mani sulle braccia. «Devo portare a casa Amélie, altrimenti suo padre mi impiccherà. Come se non mi odiasse abbastanza.»

La ragazza saltellò verso di me e nel mentre che mi diede un affettuoso abbraccio, Adam fece lo stesso con Ian, stringendogli le spalle. Salutai entrambi e Ian si mise le mani in tasca.

«Ti va di fare una piccola passeggiata?» mi propose. «Mi sento davvero pesante.»

Pensai che si sentisse così perché aveva ingurgitato due porzioni di patatine fritte con il ketchup, ma l'idea di poter finalmente passare del tempo con lui mi fece dimenticare il fatto che dovessi rientrare all'Artemis e che, a breve, avrebbe piovuto. Mi ricordai di alcuni film romantici con i protagonisti che si baciavano appassionatamente sotto la pioggia e, ridendo tra me e me, scacciai quei pensieri.

Ian alzò il gomito e io lo presi sotto braccio, avvicinandomi appena per non sentire troppo il vento. Aveva un viso così adorabile per via di quei ricci umidi sparsi tra la fronte e le orecchie, gli occhi leggermente rossi per il cloro. Avevo pensato che il suo malumore fosse passato, si vedeva che aveva altro per la testa.

«Da piccola sognavo di venire in un parco divertimenti come questo. Lo sognavo con la mia migliore amica» gli raccontai. Attraversammo la strada e percorremmo un lungo tratto dritto, proprio sotto l'autostrada. «Credimi, era una ragazza fantastica! Era buona, altruista e trovava sempre un modo per togliersi dai guai. Ti sarebbe piaciuta, era uguale a te.»

«Parli al passato» mi fece notare.

«È morta nell'incendio... Crescere in un orfanotrofio è diverso che crescere in una famiglia, ti mancano le figure fondamentali e le vai a cercare in altri, come è successo a me e lei. Tutti dicevano che eravamo come sorelle, quando ho saputo che fosse morta mi sono sentita come se mi avessero strappato un pezzo di anima. Non importa cosa dicono, cose del genere non le superi mai.»

Ian si morse un labbro. Non avevo idea se comprendesse il mio dolore, cosa significava perdere una persona così cara dopo aver passato tanti anni della vita insieme. Non potevo nemmeno dirgli tutta la verità e questo mi tormentava.

Una macchina sfrecciò lungo il rettilineo. La zona era percorsa da un lungo campo vuoto, la terra era smossa, segno che avevano raccolto da poco, e più in là c'era una zona industriale, circondata da dei canaletti di scolo. Le ciminiere alte svettavano in cielo, quasi toccavano quelle nubi basse e pesanti, elargendo un fumo grigio dalle vette.

«Come si chiamava?» mi domandò.

«Nausicaa.»

Ian aggrottò la fronte. «È un nome poco comune.»

«Già, in base a quel che hanno detto le suore glielo hanno dato in nome di Nausicaa, la figlia di Alcinoo nell'Odissea.»

Avevo studiato il latino e il greco per un certo periodo, ma non mi piaceva per niente tradurre i testi e imparare a memoria tutte quelle declinazioni. La letteratura mi appassionava, a parer mio i testi di Omero erano uno dei più grandi tesori dell'antichità per via delle avventure dell'Odissea e dei temi bellici dell'Iliade.

«La principessa dei Feaci» raccontò Ian assorto. «Quando Ulisse sbarca nell'isola di Scheria, la principessa Nausicaa lo veste e lo accompagna fino al palazzo, come ospite.»

«Nemmeno il suo amore è andato bene» mormorai pensosa, rammentando il suo affetto verso Odisseo e di come lui l'aveva lasciata per tornare in mare, per la moglie.

Era una cosa giusta, onorevole, Odisseo era un eroe saggio, nonostante questo le sue scelte spesso arrecavano dolore a molti altri. Come me, era stato destinato a qualcosa di più grande a caro prezzo.

Ian si irrigidì e si pulì la guancia, osservando il cielo. Meno di un attimo dopo una goccia di pioggia mi bagnò le ciglia e, in seguito, altre due il naso. Il cielo non lampeggiò, non era una di quelle tempeste che duravano ore ed erano provviste di raffiche di vento gelido e forti lampi, tuttavia ci fu un rombo e ci spaventò entrambi. Ci prese alla sprovvista perché entrambi pensavamo il tempo reggesse, o almeno ci consentisse di raggiungere il ponte per rifugiarci sotto il cavalcavia. Una pioggia fitta iniziò a cadere a catinelle, senza furia, su di noi.

Mi chiesi mentalmente cosa avessi fatto a Dio per meritare una punizione simile e subito ebbi la risposta: avevo mentito a Kieran, la mia Regina. Forse non avrei meritato un posto all'inferno solo per questo, eppure mi sentii così in colpa, quasi come se Dio avesse mandato quella pioggia solo per me.

Ian mi afferrò il polso e cercò di trascinarmi verso una piccola struttura a pochi metri dalla strada, accerchiata da una vecchia staccionata distrutta e logora. Gli corsi dietro senza pensare, con il viso grondante di acqua.

«È una chiesa!» esclamai stupida, avvicinandoci a quella deprimente costruzione.

Era una chiesa, ne fui certa perché sopra l'occhio c'era un malridotto crocifisso. Era fatta di pietra, doveva essere molto vecchia data la semplicità delle monofore e i grossolani dettagli del portino. Mi dispiacque moltissimo vedere una chiesa ridotta così male, con il prato incolto, le finestre rotte e l'edera rampicante sui lati. C'era persino della spazzatura sulla porta.

Non c'erano lucchetti, la porta era perfino socchiusa e pregai mentalmente di non trovare nessun criminale o omicida al suo interno. L'interno era un vero rudere, avevano portato via o rubato quasi tutte le panche e quelle rimaste erano dipinte o rotte. Non c'era nient'altro di rilevante, nessun altare, nessuna statua sacra; magari c'erano stati ed erano stati rubati.

Mi tolsi i capelli dal viso. Ian era sull'ingresso, sotto il misero porticato. Arricciò il naso, per niente a suo agio e si guardò in giro, dopodiché entrò e si chiuse la porta alle spalle.

«Deve essere una vecchia chiesa medievale locale!» gli dissi. «A quel tempo le cerimonie erano molto sacre, era quasi un crimine non andare a Messa nei giorni stabiliti. C'erano tantissime chiese sparse in campagna secoli fa, costruite dai contadini.»

Ian, come me, era bagnato dalla testa ai piedi. Se non avessimo preso la febbre per colpa dello sbalzo delle temperature sarebbe stato un vero miracolo. Prese un respiro e si avvicinò, stringendosi nelle spalle.

«Non ti preoccupare, sono temporali estivi, sono intensi ma durano davvero poco, te lo garantisco. So che questo posto ti mette a disagio, ci resteremo poco» lo rassicurai.

Ian era ateo, la maggior parte degli atei non aveva problemi con nessuna religione in particolare, ma non volevo costringerlo in quelle mura non sue. Durante i volontariati ne avevo conosciuti molti e seppure i diversi pensieri ci avevo parlato con molta educazione e simpatia. D'altra parte, se lui avesse creduto in un'altra religione avrebbe pensato e fatto lo stesso per me.

Mi guardò e per un momento fui quasi terrorizzata da lui. Aveva uno sguardo così diverso rispetto al ragazzo che avevo incontrato quella mattina. Non mi mossi solo perché non lessi alcun vero cenno di ira nei suoi occhi, rimasi a fissarlo confusa, sperando parlasse.

«Perché credi in Dio, Hazel?» mi domandò direttamente Ian, neutro.

Sbattei gli occhi, confusa dalla domanda. «Perché penso che in tutti gli esseri umani ci sia del bene, per quanto piccolo sia, e questo derivi da Dio. È il bene che illumina il mondo, quello che ci rende meno vuoti» risposi semplicemente.

Non poteva capirmi, la religione era qualcosa di intimo e personale. Era ovvio che Nausicaa avesse avuto un'idea diversa dalla mia, così come le suore e un semplice ragazzo di città. Era difficile spiegare a chi non credeva, chi voleva vedere e toccare con mano, l'esistenza di un bene superiore, univoco a tutti.

«Ian, dimmi che succede» lo pregai.

Lui si masticò un labbro, fece un passo indietro e si distanziò da me, lasciandomi spazio. Fu distratto da qualcosa alle mie spalle e fu un pretesto per allontanarsi maggiormente, guardò oltre l'orlo della finestra e studiò la tempesta.

«Sai, oggi... mentre ero con Adam e voi eravate nell'idromassaggio, mi sono grattato il braccio e ho aperto una ferita. So che le hai notate, le hai guardate tante volte e non hai mai chiesto niente.» Non mi parve un'accusa, tanto meno vittimismo. «In un certo senso speravo che me lo chiedessi, perché io volevo parlartene. Ho tentato il suicidio un paio di anni fa, voglio che tu lo sappia, ma lo avrai già capito da queste. Per voi questo è un peccato, giusto?»

Lo avevo sospettato molte volte. Ferite del genere non potevano essere un incidente, erano troppo precise e profonde. Sentirglielo dire accentuò un peso nel mio cuore e la Pedina del mio animo vibrò. Non capii se fosse Penelope ad essersi improvvisamente svegliata o l'istinto divino a spingermi a prendermi cura di lui. Il fuoco dentro il mio animo si accentuò e divenne impossibile placarlo.

Ian si sedette a terra, accanto al muro lercio e si studiò le cicatrici vecchie. Una sottile era leggermente più rossa delle altre, viva.

Mi avvicinai piano. «Sai che ti resterò a fianco, qualunque cosa mi dirai.»

Non rispose. Rimuginò a qualcosa e dalla sua espressione non era nulla di piacevole. «Mio padre era un tipo violento. Non è mai stato diverso da un mostro, da ciò che mi ricordo io, e mia madre... era simile a lui. Diceva di volermi bene, che ce ne saremmo andati io e lei per sempre e avremmo vissuto felici. Un giorno incontrò al parco un suo amico. Mi diede un po' di euro per comprarmi un gelato e mi disse di aspettarla lì perché doveva fare una commissione. Non è mai tornata a prendermi» sottolineò. «Aspettai ore. Due vigili mi videro a notte fonda fuori da quella gelateria e mi portarono a casa. Mamma ci aveva abbandonato. Mi aveva abbandonato» specificò. La voce e le labbra gli tremarono. «Mio padre non è un brav'uomo, so perché mia madre se ne è andata, non la biasimo, ma quelle bugie ancora mi feriscono. E io volevo tirare fuori quel dolore da me, in qualsiasi modo...»

Non ero brava a mascherare le mie emozioni, ero da sempre un libro aperto, e il fatto che Ian fosse in lacrime davanti a me, fragile e bagnato come un animaletto, mi fece salire un nodo alla gola. Non provai nessuna pietà. Non fu un sentimento così disgustoso. Avevo da sempre visto la sua parte solare e mite e avevo desiderato di conoscere anche il lato triste, malinconico e in quel momento mi resi conto di amarli entrambi. C'era del bene in Ian, tantissimo, e c'era anche del male. Era un puro essere umano.

«Fui quasi sull'orlo di morire, ma presumo che Dio non abbia voluto concedermi la gloria. Dovevo restare in vita. Dovevo continuare a soffrire, a subire.» Non potevo consolarlo in nessun modo: non c'era. «Sono un peccatore, Hazel?»

«Cosa?»

«Nella religione. Chi tenta il suicidio finisce all'inferno, giusto? Perché non hanno saputo apprezzare il dono della vita, perché si sono separati violentemente dal loro corpo e sono destinati a essere alberi morenti, a essere divorati dalle Arpie.»

«Ian, no!»

«Finirò all'inferno, Hazel!» si agitò.

Lo schiaffeggiai e Ian si mangiò il resto delle parole, come se non si aspettasse una cosa simile. In tutta la mia vita non ero stata violenta con nessuno, avevo tirato unicamente uno schiaffo a Ben perché aveva sollevato la gonna a una ragazza per strada.

Ian aveva gli occhi grossi e rossi, pieni di lacrime.

«Non finirai all'inferno, Ian. Stammi bene a sentire. Le persone sbagliano in continuazione, siamo esseri umani, ma il futuro comincia dove tu stesso decidi le tue azioni. Sbagliare non ti rende una persona cattiva, ti rende umano, come tutti gli altri. Non mi importa se finirai all'inferno, io ti seguirei anche lì» affermai.

Ero così distratta in quel momento che mi accorsi solo dopo che mi stava baciando. La stanchezza e il freddo si dissolsero in un secondo, lasciando spazio a una strana sensazione nello stomaco, come un frullatore al massimo. La mente fu sgombra da ogni pensiero, non riuscii a pensare ad altro oltre la morbidezza delle sue labbra, di quanto fossero calde e umide. Era una sensazione stranissima baciare qualcuno e mi stupii di quanto il mio corpo si fosse scaldato. Avrei potuto sollevare una macchina dalla potenza che la Pedina emanava attraverso il mio corpo, fu una scarica di adrenalina, di pura energia e il mondo si colorò improvvisamente di sfumature mai viste.

Rimasi immobile, con le sue mani sul viso e cercai di memorizzare tutto di quel momento, il profumo dello shampoo dei suoi capelli, il sapore del ketchup, il freddo dei vestiti umidi, il fischio del vento e il battito furioso del mio cuore.

Ian si staccò piano, fissandomi il viso rosso. Cercò di pulirsi il viso dalle lacrime rimaste e prese dei veloci sospiri. Non avevo idea del perché mi guardasse in quel modo, mi trovava buffa? Ero così imbarazzata nel guardarlo così da vicino e accorgermi di quelle pagliuzze blu nei suoi occhi, vicine all'iride. Ebbe un singhiozzo, un piccolo spasmo del pianto passato, e gli posai le mani sulle guance, strizzandole appena in una docile carezza.

Ero più forte di lui, ma sarei morta prima di fargli alcun male. Avevo trovato un nuovo motivo per continuare o cedere per sempre quella vita: Ian.

«Voglio andarci piano» gli dissi in un sussurro.

Lui sorrise un po', quasi sollevato. Mi afferrò le spalle e mi fece cadere su di sé, abbracciandomi. «Tutto quello che vuoi. Camminare, strisciare, non mi interessa. Voglio che il mondo si fermi ora. Vorrei essere capace di farlo.»

Capii di aver trovato la persona giusta quando tra le sue braccia ricordai l'affetto della mia famiglia e la speranza di guardare al futuro con occhi nuovi, a testa alta.

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