III

(Gregori)

Mi svegliai alle prime luci dell'alba, seppure i raggi fossero filtrati da una cappa bianca che avvolgeva la città. Era brutto tempo, si sentiva odore di pioggia e doveva aver già piovuto durante la notte: le strade e l'erba erano ricoperte da un fitto strato di rugiada.

Mi rigirai nel letto e assaporai quel momento di tranquillità: adoravo quando alla mattina le coperte erano calde fino ai piedi.

Nausicaa dormiva nel letto accanto al mio, come al solito con le lenzuola tirate fino al naso.

Quella mattina non era il mio turno in mensa o in cucina, avrei potuto dormire un po' di più, ma per qualche strano motivo non ci riuscii. Non mi sentivo tranquilla, un pizzico di nervosismo mi invase le membra.

Mi ricordai di Alain e Gregori della sera prima, per quanto avessi desiderato che fosse stato solo un incubo. Mi chiesi dove fossero o cosa stessero facendo a quell'ora della mattina, probabilmente tutti stavano dormendo, eccetto loro due.

Mi alzai infastidita, attenta a non svegliare Nausicaa, la quale emise un profondo espiro e si accoccolò al cuscino come un peluche.

Il bagno era uguale per tutti, perciò avevamo dei turni: noi ragazze ci lavavamo per prime la mattina, avevamo a disposizione trenta minuti ed entro un'ora eravamo operativi. Non c'era molto nei bagni, solamente una lunga fila di lavandini con altrettanti spazzolini e asciugamani.

Mi feci una veloce doccia calda e mi infilai il solito vestito di cotone con una fantasia a quadri azzurri e bianchi, esageratamente vecchio: le spalline erano state sostituite di certo e la gonna mi sfiorava le caviglie. Mi guardai allo specchio e potei farlo tranquillamente, senza che ci fosse Adele a prendermi in giro o Nausicaa a fare confusione alle mie spalle.

Avevo un viso lungo e paffuto come uno scoiattolo, le guance sempre arrossate e gli occhi troppo grandi, color nocciola. I capelli erano biondi, di un biondo più scuro rispetto alla norma, vicino al grano secco. Erano cresciuti molto in quell'ultimo mese, ben oltre le spalle.

Tutte le ragazze non portavano i capelli lunghi, era vietato, perciò ogni due o tre mesi, suor Marcelle ce li tagliava. Non mi era mai importato granché, in effetti.

La porta si aprì ed entrò suor Elisa, aveva in mano l'acqua da mettere nei termosifoni e mi guardò con aria sorpresa.

«Hazel, che ci fai già sveglia? Non è il tuo turno questa mattina.»

«Lo so, non riuscivo a dormire.»

«Hai fatto un incubo?» Non seppi cosa rispondere, ma annuii. «Hai fatto una preghiera?» Annuii ancora. «Allora non è nulla di grave, piccola. Dio risolve ogni cosa.»

«Credo che i miei capelli siano troppo lunghi, dovrei tagliarli» le feci notare e me li indicai.

Lei mi venne vicino e li studiò. «Lo dirò a suor Marcelle. Piuttosto, sono finite le patate e la farina sta per finire, te la senti di fare un salto al mercato?»

Avevo voglia di uscire a fare un giro e quello era un buon pretesto. Non volevo più pensare all'incontro della notte precedente e con il passare delle ore mi convinsi che forse consigliare Gregori in quel modo era stato uno sbaglio, inoltre non lo avevo riferito alla superiora perché io stessa mi ritenevo nel torto. Aiutavo la gente sbagliata.

Suor Elisa mi portò nel convento, tutte le suore erano già sveglie e pregavano riunite. Mi diede una lista di semplici cose e una banconota da venti euro. Non andavamo mai nei grandi supermercati, solo una volta c'ero stata e mi era venuto un mal di testa incredibile: troppe luci, troppa confusione, troppi oggetti. Avevamo i nostri piccoli negozi di fiducia e ci rifornivamo due volte a settimana, il mercoledì e la domenica, al mercato del XV arrondissement.

Il mercato si trovava accanto alla torre Eiffel e al museo Boudelle, era mattina presto ed era il momento ideale per fare compere. Era un mercato antico e si allungava sotto i binari della metropolitana, una delle poche soprelevate. Faceva freddo, così mi infilai una giacca più pesante per coprirmi le braccia e il collo. Quel pomeriggio sarebbe stato più rigido degli altri giorni e immaginavo che quella fastidiosa nebbia non sarebbe scomparsa.

Comprai in varie bancarelle farina, patate, uova, verdura e del formaggio fresco. Con i restanti spicci presi una barretta di cioccolato fondente da dare ai bambini più piccoli, sapendo quanto a loro piacessero quel tipo di leccornie.

Passeggiavo serenamente senza pensare a granché, forse solo per la colazione che mi avrebbe aspettata al dormitorio o alle pulizie del pomeriggio. Le strade erano ancora poco trafficate, i pendolari avevano iniziato la loro routine, i più mattinieri correvano a ritmo lungo i marciapiedi per tenersi in forma, dai bar si levava un delicato aroma di croissant e caffè e mi permisi di deliziarmi con quella tentazione.

All'improvviso sentii due forti sirene e mi allontanai dalla strada, facendo passare due camion dei pompieri. Sfrecciarono lungo il rettilineo, verso il fiume, rallentando poco solo ai semafori rossi. Molti si affacciarono alle finestre o guardarono con fare preoccupato la scena.

«Che è successo?»

«Speriamo non sia niente di grave.»

«Ho sentito che è scoppiato un incendio in una vecchia chiesa vicino al Senna.»

C'erano stati molti incendi a Parigi, specie nella stagione estiva per via delle alte temperature e la mancanza di piogge, molti campi e vecchi edifici in legno avevano preso fuoco. Mi piacevano i pompieri, mi rassicuravano nonostante le sirene spiegate, tuttavia quel giorno non fu affatto così: la mia ansia non cessò di aumentare e uno strano presentimento si insinuò nel mio cervello.

Mi girò la testa e quasi lasciai cadere la borsa a terra. Strinsi la busta al petto, in modo tale di impedire agli alimenti di cadere e presi a correre verso la chiesa. Percorsi a ritroso lungo il fiume tutta la strada che avevo fatto, senza mai fermarmi. Se lo avessi fatto il dolore alle gambe e alla gola mi avrebbero impedito di proseguire.

A mano a mano che mi avvicinavo le sirene dei pompieri e della polizia aumentarono di intensità, ripetitive. Dal fiume potei osservare un pennacchio scuro innalzarsi dal I arrondissement. C'erano numerosi musei, chiese e ristoranti in quella zona, anche antichi, c'erano pochissime probabilità che si trattasse di un incidente alla Saint-Marie e mi cercavo di convincere.

Non smisi di correre neppure quando la gola cominciò a bruciarmi e l'aria divenne troppo pesante per trattenerla nei polmoni, lo stomaco era attorcigliato da una strana ansia malvagia che non avevo smesso di sentire dalla sera prima. C'era qualcosa che non quadrava.

Scoprii che l'area oltre Le Palais de l'Élysée era stata evacuata e messa sotto sorveglianza dalla polizia. C'era tantissima gente che dalla Senna e dalle vie limitrofe, alcuni affacciati persino dai balconi a riprendere con i cellulari la scena, osservavano impietriti le azioni inutili dei soccorritori e l'ombra del fumo diventare più nera nel cielo chiaro.

Mi feci largo tra la folla e cercai di passare, trovandomi una barriera davanti.

«Devo andare là, c'è casa mia» spiegai velocemente ad un agente posto davanti alla transenna.

Lui mi guardò confuso. «Abbiamo evacuato la zona più vicina, non c'è più nessuno di là. Dove abiti, ragazza, hai perso i genitori?»

«Abito alla Saint-Marie, Boulevard Malesherbes» dissi nervosa.

Sia il poliziotto sia la gente accanto a me ammutolirono. Pensai di aver gridato troppo e avevo un'espressione distrutta con i capelli in disordine e il viso rosso, ma non me ne importò.

L'agente si tolse il cappello e lo vidi deglutire. «È scoppiato un incendio nel vecchio convento, le fiamme hanno già divorato la struttura della chiesa. I vigili del fuoco sono già sul posto, sono intervenuti subito...»

«Io devo andare là, c'è la mia famiglia, i bambini!» Mi agitai.

L'uomo scavalcò la transenna e mi afferrò le spalle per fermarmi. «No, è troppo pericoloso, ci sono schegge che volano e fumi tossici. La chiesa era costruita interamente di legno ed è stata mangiata in fretta, non sappiamo ancora se ci fossero persone dentro, quindi non allarmarti. Il tuo intervento sarebbe inutile e saresti d'intralcio. Chiamo un'ambulanza, una volante ti porterà in un posto sicuro.»

Non sentii più niente. Il poliziotto si girò e parlò ad un piccolo aggeggio attaccato alla sua spalla, si allontanò di pochi passi e lo fece di sicuro per non farmi ascoltare. C'erano alcune donne vicino a me, avvertii le loro mani posarsi sulla schiena e sulle spalle. Dovevano essere o sembrare delle carezze di consolazione, simili a quelle che facevo io ai bambini più piccoli quando avevano degli incubi o cadevano, sbucciandosi un ginocchio.

Non li capivo. Perché mi trattavano in quel modo? Non era morto nessuno. Non avevo perso nessuno. Stavano tutti bene.

Lasciai cadere la borsa a terra e saltai oltre la linea di sicurezza, passando sotto le braccia di un agente. Una donna urlò impaurita. Evitai la macchina della polizia e sfrecciai a lato, verso l'angolo della strada. Andare dritti era un suicidio, avrei trovato altri soccorsi a fermarmi e non avrei avuto modo di trovare nessuno. Non conoscevano i loro posti segreti, i nascondigli in cui si rifugiavano per non essere scovati dalle suore o durante i giochi, solo io li sapevo tutti.

Tre poliziotti corsero con me e solo il più distante dalla palizzata iniziale riuscì a raggiungermi di fortuna: strappai i bottoni della giacchetta e gliela lasciai sfilarmela dalle spalle senza opporre resistenza. Piantò i piedi a terra, credendo di fermare una ragazzina di cinquantaquattro chili e si ritrovò con le gambe all'aria.

Ero più veloce di chiunque altro, sapevo quelle strade come se le avessi costruite io dato che avevo vissuto per quei quartieri.

Non mi inseguirono a lungo, forse per metà via, poi, per la stanchezza o la rassegnazione, tornarono indietro. Di certo non potevano tenere il mio passo e non avevano l'autorizzazione o il coraggio di proseguire.

Non avevo mai visto quelle strade deserte, non c'era letteralmente nessuno. I bar e i negozi avevano le luci accese, ma le porte erano aperte, i caffè lasciati sui tavoli, le macchine a lato. Persino gli alberi in fiore, proseguendo, non riuscivano a sormontare la puzza di cenere e bruciato.

La Saint-Marie bruciava dalle fondamenta, oramai un pezzo della cappella era caduto e pareva un piccolo stuzzicadenti divorato dalle fiamme rosse. C'erano numerosi soccorritori nello spiazzale davanti, l'ambulanza assisteva le persone che non erano riuscite ad allontanarsi al momento della tragedia ed enormi zampilli di acqua volavano dalle pompe fino alla chiesa, tentando di domare l'incendio.

Presi una scorciatoia a sinistra e sbucai dalla parte opposta della mensa, vicino al dormitorio. Il perimetro era recintato e c'era un grosso muro, quello dell'ala attrezzi, tuttavia non era impossibile da scalare: Nausicaa mi aveva insegnato il punto giusto, come fare e dove mettere le mani.

C'era un albero vicino, ma i rami erano troppo alti per poterci saltare, così presi il cassonetto lì vicino e lo spostai. Aiutandomi con le unghie salii sul coperchio, saltai e afferrai il ramo. Come se fosse una scarpata, agitai i piedi e mi arrampicai. Faticai un po', anche perché non avevo molta forza nelle braccia, ma nonostante questo montai sul tetto del deposito.

L'interno la situazione era più drastica di come sembrava fuori: le fiamme erano tremendamente più vicine e l'aria era rovente. La chiesa e il convento erano interamente bruciati, non potevo nemmeno pensare di avvicinarmi, così iniziai a chiamare.

«Nausicaa! Adele! Charles! Martine! Daniel!»

Nessuno mi rispose.

Provai a cercare nella mensa e nella cucina, l'unico posto ancora intoccato, ma per quanto chiamassi e cercassi non c'era nessuno. I bambini erano soliti ad andare a nascondersi nel deposito, vicino ai sacchi per il giardino, ma dopo che Suor Corinne li aveva rimproverati per le sostanze nocive di alcuni terricci, avevano cominciato a nascondersi in cucina. Erano tutti piccoli, spostavano i piatti e si contorcevano per entrare nei mobiletti e, se avevano abbastanza fortuna, rubare qualche dolce.

Mi venne da vomitare. Là non c'era nessuno di loro. La tavola non era nemmeno apparecchiata, era possibile che fossero rimasti tutti al piano di sopra e si fossero accorti troppo tardi del pericolo?

Entrai dentro il dormitorio e notai che la temperatura era notevolmente più alta. Le scale e i muri scottavano, non potevo andare al piano di sopra e per quanto cercassi qualcuno, non udii mai il mio nome chiedere aiuto. Proseguii verso la sala principale, nonostante il soffitto avesse preso a bruciare.

Suor Elisa era a terra, accasciata in una pozza di sangue denso e tra le braccia teneva il corpo di Daniel. Urlai impaurita e per dei secondi non mi mossi, le lacrime incominciarono a riempirmi la vista e tutto si sfocò.

«Suor Elisa! Daniel!» Mi gettai su di loro e li scossi, sperando di vederli muoversi.

Daniel aveva metà volto bruciato, la palpebra si era quasi sciolta e aveva sotterrato l'occhio sinistro in uno strato scuro di pelle. La sua espressione era terrorizzata, era morto con un occhio e la bocca aperti.

La tonaca di Suor Elisa era ricoperta di sangue, aveva una larga ferita sul collo e una sulla schiena, dalla posizione mi parve che stesse cercando di proteggere Daniel e che stessero entrambi fuggendo verso l'esterno prima di cadere.

Mi rialzai e provai ad andare verso il convento, udendo un rumore. Una vecchia trave quasi mi schiacciò e sbarrò la strada, rompendo una finestra. Il convento e l'ala dedicata alle suore era completamente bruciata, non c'era nessun spazio libero in cui passare e avere la speranza di ritrovarne uno vivo era unicamente un miracolo di Dio.

Stavo quasi per perdere le speranze e fuggire quando uno spiffero freddo mi rinfrescò la tempia. C'era la cantina. Non aveva uscite, era sporca e buia. Non era un bel posto per giocare, anche perché la luce era poca e gli scalini erano ripidi e contorti. Ci avevano impedito di andare là sotto per sicurezza, ma ammisi che era un buon nascondiglio. C'erano numerosi corridoi e stanze che erano state usate ai tempi della guerra.

Scesi di sotto a tentoni, con la luce ormai assente.

Tossii forte. Non era una buona idea rimanere là da sola, specie con le fiamme che aumentavano. Il problema era l'aria, presto l'ossigeno sarebbe sceso a livelli critici e avrei rischiato di svenire e avere dei danni per quella polvere rovente. Tutta la struttura era fatta di materiali infiammabili, non avrebbero spento le fiamme a breve.

«C'è qualcuno? Rispondete, per favore!» urlai con gli ultimi grammi di forza.

Mi pulii gli occhi e andai un po' avanti. Tossii e il semplice getto mi fece dolore dalla bocca fino allo stomaco. Non potevo rimanere lì, ma mi rifiutavo di andarmene senza la mia famiglia.

Ci fu uno scricchiolio a lato ed ebbi un sorriso di riflesso, per la prima volta sollevata.

«Nausicaa!»

Un dolore atroce si propagò nel ventre e vidi davanti a me un paio di occhi chiari, velenosi. Gregori portava un completo scuro, era protetto dal collo in giù e non aveva un centimetro di pelle scoperta a contatto con il fuoco.

«Hazel? Tu dove eri?» mi domandò curioso, inclinando il capo.

Abbassai gli occhi e vidi che avevo un qualcosa incastrato nello stomaco, qualcosa che lui aveva spinto. Le gambe mi tremarono e persero sensibilità, mentre un dolore mi percorse la schiena e il fianco sinistro.

Allentò la presa che aveva sulla schiena e lentamente mi adagiò a terra. Il mio respiro si fece irregolare, rispetto al suo. Prese uno zainetto di pelle da terra e lo serrò alla cintura con cura. Cercai di allentare il dolore e percorsi con il palmo la piccola elsa del pugnale.

Gregori alzò un sopracciglio e non lasciò la presa, nonostante le mie lacrime.

«Non ti preoccupare, morirai in fretta. Spero che non morirai tra le fiamme, è davvero terribile come morte! Ed è abbastanza lenta... Mi spiace averti trovata, stavo per andare via. Eravate in troppi per contarvi. Mi eri davvero simpatica, ti prego di potermi perdonare. In fondo ne sei obbligata.»

Diede una stoccata e la lama entrò del tutto, fino al piccolo decoro di metallo. Provai un dolore atroce, come se mi avessero bucato entrambi i polmoni e il mio cuore stesse per balzarmi fuori dal petto. La mia pelle era stranamente calda e nonostante avessi ripreso a piangere, non feci alcun suono.

Gregori si alzò, mi evitò con un salto da lepre e sgusciò via.

Non avevo più tempo.

La mia vista cominciò a diventare più vaga e i contorni scuri. Faceva male, tremendamente male. Non avevo la forza per lamentarmi, seppure volessi farlo. Non avevo mai pensato alla mia morte, però pregai, perché non volevo che tutto finisse in quel modo. Non ero pronta ad andarmene; non volevo.

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