Capitolo 1. Beware
Other Lives... come sarebbe se la tua vita venisse stravolta da una persona? Per dare un'occasione di riscattarsi in una vita che abbiamo sempre desiderato, ma non abbiamo mai avuto coraggio di costruire.
Fino ad adesso ho sempre avuto una vita normale. Non facevo mai nulla di strano e di fuori dall'ordinario. La mia vita, per quanto fosse incasinata, era simile a quella di tante altre ragazze della mia età ed io non mi lamentavo mai di essere una persona comune, che rigava dritto e stava nelle righe. C'era chi alla mia età faceva un sacco di cose stravaganti, come tingersi i capelli di rosa, mettersi la minigonna a scuola, uscire con tanti ragazzi, suonare in una band, bere fino a vomitare alle feste... no, non ho mai fatto cose del genere. Voi starete pensando "che noiosa..." e io vi darei ragione; ma non sono qui per parlarvi della mia vita normale... ma di quello che è diventata dopo aver conosciuto un ragazzo. Il suo nome era... Tobias Erin Rogers.
Era una tiepida serata estiva, come tante altre in precedenza e nulla, nulla mi faceva sospettare che, proprio quella sera, sarebbe potuto succedere qualcosa di così terribile.
Il mio nome è Jenny, diminutivo di Jennifer. Nonostante il nome di origine anglosassone, sono di cittadinanza finlandese e vivo a Thur, un tranquillo paesino immerso tra i boschi sempreverdi vicino a Tampere.
Va bene, forse vi sto riempiendo la testa di dettagli e non so nemmeno a quanti di voi interessi la geografia della Finlandia, quindi vediamo di arrivare al punto.
In quel periodo era estate inoltrata, e nel paese dove abitavo non c'era molto da fare, perché tutti i miei coetanei passavano gran parte delle vacanze nelle grandi città in visita dai parenti o partivano per lunghi viaggi in Europa.
Anche la mia migliore amica, Karen, era partita con i suoi genitori per visitare la Svizzera e non sarebbe ritornata prima di tre settimane. Insomma, nel paese ero rimasta da sola e mi stavo anche annoiando a morte.
Era da qualche giorno che per ingannare il tempo e fuggire dalla monotonia di casa passavo le mie serate a intraprendere lunghe camminate nei boschi, con la sola compagnia della musica. Mentre camminavo, pensavo a tante cose... specie a cosa avrei scelto di fare dopo la maturità. Il prossimo anno mi sarei diplomata e forse avrei scelto di andare all'università. La cosa mi dava molto da pensare, perché mi preoccupavo di come avrebbe fatto mia madre a pagare le rette, visto che lavorava solo lei. Lui... scusate. Dovrei dire "mio padre", ma abbiamo un pessimo rapporto e ho smesso di chiamarlo così.
Lui si era allontanato da noi più di un anno e mezzo fa ed era andato ad abitare in città. Che cosa facesse veramente io e mia madre non lo sapevamo, ma era solito tornare di quando in quando per chiedere soldi in prestito. Una volta mia madre rifiutò di prestargli altri soldi, perché non li restituiva mai, e lui le diede uno schiaffo. Tentò di dargliene subito un'altro, quel vigliacco, ed io riuscii a fermarlo, perché mi misi in mezzo e lo insultai chiamandolo "puttaniere del cazzo".
Mi presi uno schiaffo. Da quella volta smisi di chiamarlo "papà", e da allora iniziai a detestarlo.
Beh, adesso torniamo a quella sera.
Come di consueto stavo percorrendo il sentiero dietro casa mia, che si inoltrava nel bosco per chilometri. Non sono mai arrivata alla fine e non so dirvi dove porti di preciso, perché è molto lungo. Neanche gli abitanti più anziani di Thur lo sanno. In genere arrivavo fino a una vecchia baracca di legno e poi tornavo indietro; ma quella volta ero così presa dai miei pensieri che credo di aver superato la baracca senza accorgermene e di essere anche andata avanti un bel po'.
Quando capii di non avere la benché più pallida idea di dove fossi decisi subito che avrei fatto bene a tornare indietro sui miei passi. Sapete, non è molto prudente girare nei boschi di sera, e figuriamoci quanto lo sia girare su sentieri che non conosci. In quello stesso istante dalla foresta si levò un vento gelido che mi fece accapponare la pelle. Pensai subito che non era un vento tipico di quella stagione, perché un vento così freddo poteva soffiare solo d'inverno. Poi, sentii un suono simile al frusciare di foglie secche e vidi un pezzo di carta stropicciato venire trascinato da una folata di vento fino ai miei piedi.
Mi chinai e lo raccolsi. Sembrava un foglio strappato da un quaderno e la carta era ingiallita dal tempo. Notai che doveva esserci scritto qualcosa e, quando lo aprii, lessi solo una parola in inglese: "BEWARE".
– Sta attenta? – . Pensai subito a uno scherzo di qualche idiota. Eppure, il solo raccoglierlo mi aveva fatto provare un brivido lungo la schiena. Decisi di appallottolare il foglio e di infilarlo nella tasca della felpa.
Non mi andava di lasciarlo lì, solo perché non mi piaceva l'idea di lasciare rifiuti in giro. Accesi lo schermo dello smarphone e vidi che l'orologio digitale segnava le dieci di sera.
Era già così tardi? In effetti, era difficile orientarsi con il costante sole estivo al crepuscolo. Mi infilai di nuovo le cuffie e tornai sui miei passi, ignara di quello che mi avrebbe atteso quella notte.
Dovetti camminare per un'ora buona prima di arrivare a casa, anche perché smarrii la strada un paio di volte. Cosa alquanto strana, dal momento che non mi ero mai persa fino ad ora nei boschi...
Insomma, abitavo lì da un sacco di tempo e percorrevo quei sentieri da una vita. Come potevo perdermi? Attribuii la colpa al fatto che quella sera mi sentivo... più strana del solito.
Per tutto il tempo avevo avuto come l'impressione che qualcosa mi stesse seguendo.
Quando arrivai a casa trovai mia madre in soggiorno che guardava il suo programma televisivo preferito.
«Ciao piccola, com'è andata la passeggiata?». Chiese.
«Bene». Dissi di rimando, togliendomi le scarpe all'ingresso.
«Vuoi mangiare qualcosa?».
«No, sono stanca. Vado a dormire... notte!». Le schioccai un bacio sulla guancia e sgattaiolai di sopra nella mia stanza.
Abitavamo in una casa a due piani, che era piuttosto grande per noi. Forse anche troppo grande... ma non era questo il problema. Era una vecchia casa che avevamo ereditato dai nonni ed era piena di spifferi.
Tra l'altro la mia finestra si chiudeva pure male e le tubature erano vecchie, perciò non era insolito di notte sentire sgocciolare.
Mi cambiai i vestiti per infilarmi il pigiama e accesi il computer. Fu in quel momento che notai qualcosa rotolare per terra dalla tasca della felpa. Avevo dimenticato del foglio che avevo raccolto nel bosco e in quel momento sentii ancora una volta quel brivido. Raccolsi la cartaccia e feci canestro nel bidone.
Poi, come se niente fosse, fischiettai e mi sedetti davanti al computer. Mi collegai a Skype e mi accorsi che Karen era online, così la chiamai e parlammo del più e del meno per tutta la serata.
Mi raccontò di quello che aveva visto fino a quel momento in Svizzera e di essersi comprata un sacco di vestiti nuovi. Era tipico di Karen. Era una vera accumulatrice compulsiva di vestiti.
Poi le raccontai di quello che avevo fatto in quei monotoni giorni e le parlai del foglio che avevo trovato nel bosco.
«Sarà lo scherzo di qualche idiota...». Disse, traendo la mia stessa conclusione.
«Domani qual è il tuo programma?». Le domandai, tanto per cambiare argomento.
«Uhm... mio babbo vorrebbe andare a visitare il Cern, ma non è che ne sia entusiasta».
Improvvisamente il segnale si fece disturbato.
«Karen? Karen?». La connessione cadde e fece disconnettere la chiamata. Provai un paio di volte a riconnettermi, ma non ci fu nulla da fare.
Era uno dei contro di vivere in campagna.
Le mandai un messaggio col cellulare per dirle che mi sarei connessa anche domani sera, e poi diedi un'occhiata all'orologio. Era l'una di notte. Decisi di andare a dormire. Mi infilai a letto e spensi la luce.
Ricordo che feci molta fatica a prendere sonno, ma, alla fine, mi addormentai e sognai qualcosa di strano. Non so cosa fosse più "strano" tra: l'aver sognato qualcosa di strano e il ricordare di aver sognato qualcosa di strano, perché non era nel mio solito ricordare i sogni che facevo. Fu in quel sogno che lo vidi per la prima volta: un uomo, alto, molto alto, vestito completamente di nero ad eccezione di una cravatta rossa.
Mi guardava dalla finestra spalancata della mia stanza. La cosa inquietante era che... il suo volto non era definito, anzi, sembrava che non avesse né occhi, né naso, né bocca. Eppure, avevo come l'impressione che mi stesse... guardando.
Quando mi svegliai erano le quattro del mattino ed io ero in un bagno di sudore.
Avevo lasciato la finestra chiusa e l'avevo pagata cara. La spalancai e lasciai che il vento mi alitasse in faccia. Decisi di scendere in cucina a prendere un bicchiere d'acqua.
Quando passai davanti al soggiorno vidi che mia madre si era addormentata sul divano. Come ogni sera. La coprii con una coperta di pile prima che rischiasse di prendersi un malanno.
Aveva la bocca socchiusa e stava leggermente russando.
Attraversai il corridoio e andai in cucina brancolando nel buio. Aprii lo sportello del frigorifero, ma la luce non funzionava. – Dannazione, come ha fatto ad andare via la corrente? – pensai seccata, mentre tastavo lo sportello del frigo in cerca della bottiglia dell'acqua.
La afferrai e ne versai il contenuto in un bicchiere, passando davanti alla finestra, dove mi sembrò di intravedere con la coda dell'occhio un bagliore arancione. Mi voltai di scatto, ma non vidi nulla.
- Sto diventando troppo paranoica... - mi rimproverai.
Tornai in camera mia e brancolai nella penombra verso il letto. Il vecchio pavimento di legno scricchiolava sotto ai miei piedi in modo sinistro, ma cercai di darmi una calmata concentrandomi su altri pensieri.
Ero quasi sul punto di stendermi sul letto quando qualcosa catturò la mia attenzione: qualcosa di bianco era appoggiato sopra le coperte, in piena vista. Qualcosa che non avevo lasciato io.
Lo raccolsi e al primo tatto, capii subito che si trattava di un foglio di carta... presi lo smarphone da sotto al cuscino e lo illuminai. Per un attimo rimasi come irrigidita: era lo stesso foglio che avevo trovato quella sera.
"BEWARE" – la scritta sembrava ancora più inquietante della prima volta che l'avevo letta. Non lo avevo buttato via? Come aveva fatto a finire sul mio letto? Ce lo doveva aver messo qualcuno per forza!
Fu quando lo realizzai che iniziai ad andare in panico. Qualcuno doveva essere entrato nella mia stanza e avercelo messo. Forse il fatto che mancava la luce in casa non era soltanto un caso.
Mi guardai intorno nella stanza spaventata, come se da un momento all'altro sarebbe sbucato fuori un serial killer come un pupazzo a molla.
Istintivamente composi il numero della polizia.
«112, qual è la vostra emergenza?». Chiese l'operatore.
«Qualcuno è entrato in casa mia!». Dissi.
«Pronto?»
«Qualcuno è entrato in casa mia! Per favore, mandate una pattuglia a controllare!»
«Pronto? Non la sento, la linea è molto disturbata!»
«Mi sente? La prego, mi aiuti!»
«Se è lo stesso ragazzino che poco fa ha fatto lo stesso scherzo, non è divertente!»
«Non è uno scherzo, c'è qualcuno in casa mia!»
L'operatore buttò giù il telefono.
– Merda! – cosa avrei dovuto fare? Improvvisamente sentii un fruscio di foglie provenire dal giardino sotto alla mia finestra e mi affacciai immediatamente.
E questa fu la prima volta che vidi Lui.
Nel mio giardino c'era una sagoma scura, un uomo, che mi stava fissando. Indossava un paio di occhialetti arancioni e, tra le mani, stava stringendo due accette.
«Mamma!». Gridai spaventata. E se avesse fatto del male a mia madre? Un brutto presentimento iniziò ad insinuarsi nella mia testa. Mi precipitai al piano di sotto a tutta birra e trovai mia madre addormentata, così come l'avevo lasciata qualche attimo prima, in soggiorno. Stava ancora russando, il che mi rincuorò molto, perché capii che stava bene. Ma non avevo di certo tolto di mezzo il problema, perché in giardino c'era ancora un pazzo psicopatico con due accette che sarebbe potuto entrare da un momento all'altro in casa e io non potevo avvertire la polizia.
Andai in cucina e aprii uno sportello, dove su una mensola, dietro diversi pacchetti di biscotti e caffè in polvere, trovai il dissuasore elettrico che mia madre nascondeva. Poi mi infilai un paio di scarpe e uscii in giardino.
Il tizio con le accette non si era spostato di un centimetro.
«Ehi tu!». Gli urlai, prendendo coraggio. «Che cosa pensi di fare?». Il cuore aveva iniziato a martellarmi nel petto ed ero terrorizzata.
Lui era molto più alto di me e, seppure avesse un fisico snello e molto slanciato, sembrava abbastanza muscoloso. Nonostante la sua stazza, non mi tirai indietro.
«Che cosa vuoi da noi?».
In risposta, il ragazzo sollevò un braccio e indicò me stessa.
«Non mi fai paura!». Gli urlai, ma la voce mi tradii. Era evidente che avessi paura e che non avessi la benché minima possibilità contro uno come lui. Cosa avrei dovuto fare? L'unica cosa che potevo fare era scappare, ma non volevo lasciare sola e indifesa mia madre. Sapevo che non avrebbe avuto difficoltà ad entrare in casa, visto che era già riuscito ad entrare dalla finestra della mia stanza, al secondo piano.
Inaspettatamente lo vidi voltarsi indietro e correre in direzione del cancello.
«Ehi! Dove pensi di andare?». Lo seguii.
Lui scavalcò il cancello di casa dirigendosi verso il bosco. D'impulso decisi di andargli dietro. Lo so, voi direste che non è stata una decisione molto saggia e che, probabilmente, ci sarebbero state altrettante scelte migliori da fare, piuttosto che gettarsi a capofitto nella fossa dei leoni, e avreste ragione; ma vi posso assicurare che quando si ha veramente paura di perdere qualcuno di caro e si ha in circolo solo adrenalina, non si ha neanche il tempo di fermarsi a ponderare altre scelte.
Corsi più veloce che potevo, ma ogni passo sembrava che aumentasse la nostra distanza e non ci volle molto perché mi ritrovassi a guardarmi intorno alla cieca.
– È stata un'idea stupida venirgli dietro... –
Mi voltai disperatamente. Ero circondata dagli alberi e, colmo dei colmi, mi ero di nuovo persa. Possibile che non mi ricordassi dov'ero finita? Di una cosa ero certa: non ci eravamo allontanati di molto da casa mia, dovevamo essere distanti appena mezzo miglio al massimo.
– Cazzo! – le gambe mi avevano iniziato a tremare e il cuore mi batteva all'impazzata nel petto, faticavo quasi a respirare. Ero in panico.
Strinsi il dissuasore elettrico nella mano e lo accesi. Sarebbe bastata una scarica nel punto giusto per paralizzare un braccio o una gamba e fuggire da qualche parte.
Tutto intorno a me si era fatto molto silenzioso, non si udivano nemmeno gli animali.
Il sole era sorto da qualche minuto, ma non splendeva a sufficienza perché potessi individuare una via di fuga o magari un sentiero. Ero circondata dalla fitta vegetazione e ora potevo sentire dei passi.
Qualcosa, o qualcuno, si stava avvicinando a me.
Iniziai a sentire un ronzio nelle orecchie. Dapprima lo sentii molto debole, poi diventò sempre più forte, fino a diventare qualcosa di insopportabile. Non sapevo che cosa mi stesse capitando, ma decisi che sarebbe stata una buona idea iniziare a muoversi in una qualche direzione. Corsi con le gambe in spalla, immergendomi nella foresta e infischiandomene dei tagli che mi stavo procurando alle braccia e alle gambe mentre correvo in mezzo ai rovi. L'unica cosa che potevo vedere nitidamente erano solo i tronchi degli alberi, che per fortuna riuscivo ancora a evitare.
Raggiunsi un piccolo ruscello dall'aria famigliare e lo attraversai rapidamente, ma quando arrivai a riva inciampai su di un sasso e il dissuasore mi volò via dalle mani. Cercai di rialzarmi alla svelta, ma qualcosa mi fermò.
Davanti a me, il ragazzo con le accette mi stava fissando dietro quelle lenti tonde e arancioni. Riuscii a vederlo meglio: indossava una felpa con un cappuccio e la sua bocca era coperta da una maschera.
Tra le mani impugnava due accette sporche di un qualche liquido scuro rattrappito, che potevo ben immaginare cosa fosse.
Che cosa avrei dovuto fare? Ero in trappola e non c'era via di fuga tra me e lui, così iniziai a pensare che la mia vita stava per finire... e chi l'avrebbe mai immaginato che sarei morta a 17 anni, assassinata da un serial killer con le accette?
Le lacrime stavano uscendo da sole e mi stavano bagnando le guance, fermandosi sul mento. Allo stesso tempo avevo iniziato a tremare dal terrore. Avrei urlato, se solo la voce non mi si fosse bloccata tra le corde vocali.
Lui si avvicinò a me a passi ben calibrati e sollevò un'accetta con fare minaccioso, pronto a sferrare il primo colpo. Quanto avrebbe fatto male? In quanto tempo mi avrebbe fatta a pezzi?
- Mamma... ti voglio bene... - pensai, chiudendo gli occhi.
Passò un lungo attimo e poi, sentii la prima accettata...
Non ero morta.
Avevo sentito l'impatto della lama che si piantava contro qualcosa di solido, ma io... non sentivo male. Che cosa strana, perché non stavo provando dolore? Riaprii un occhio, poi aprii anche l'altro.
Ero a un palmo dal naso da lui e scivolai con lo sguardo di lato, dove trovai un'accetta col manico arancione brillante piantata nel terreno.
Che cosa gli era preso? Era così vicino a me che non avrebbe potuto sbagliare mira, quindi non doveva essere stato un caso ad avermi mancata. Perché?
Alzai lo sguardo e riuscii a vedere i suoi occhi da dietro quelle lenti arancioni. Doveva avere gli occhi molto scuri e avevano anche uno sguardo triste, perché erano pieni di lacrime.
Perché stava piangendo, se fino a qualche attimo prima voleva uccidermi ad accettate?
«L-Lyra...». Sentii un sibilo profondo provenire da dietro la sua maschera. – Lyra? Sembrava il nome di una persona... - nel frattempo indietreggiai e mi accorsi che, affianco a lui, c'era il sentiero che portava a casa mia.
Avrei potuto cogliere a mio vantaggio quel suo momento di debolezza e correre a tutta birra, ma qualcosa mi stava bloccando.
Paura? Di certo ne avevo molta, ma non era quella a fermarmi. Sentivo che le mie gambe si erano fatte incredibilmente pesanti e non riuscivo a muoverle. Poi ebbi un colpo di calore e iniziai a sudare freddo... merda, stavo andando in ipoglicemia. Avevo dimenticato di aver fatto l'insulina quella sera, prima di andare a passeggiare, e non avevo calcolato che avrei potuto avere un blackout da un momento all'altro.
E pensare che ci sono quasi nata diabetica... come avevo potuto fare un errore così grande?
Crollai a terra, e l'ultima cosa che sentii fu la fredda ghiaia contro la mia faccia. Poi, tutto prese a girare nella mia testa e persi coscienza. L'ultimo mio pensiero, in quel momento, fu che, se avesse deciso di uccidermi, almeno ora non avrei sentito nulla.
[Toby's P.O.V.]
L'immagine di Lyra mi era comparsa nitida di fronte agli occhi, nel momento in cui l'avevo guardata meglio in viso. Le somigliava moltissimo... somigliava moltissimo a mia sorella.
Avrebbe potuto scappare e approfittarsene della mia confusione, ma aveva perso troppo tempo a capire perché la stessi risparmiando e, improvvisamente, mi era crollata sotto agli occhi.
Ho sfilato un guanto e mi sono chinato su di lei per prenderle il polso. I battiti erano regolari e sembrava che si fosse semplicemente addormentata. Le sfiorai i polpastrelli e sentii che erano pieni di calli e avevano i segni di numerose punture.
– Le punture per la glicemia... come quelle che fanno i diabetici. – mi ricordai che anche mia zia ne soffriva. Era un grave errore per un diabetico fare l'insulina e poi, a stomaco vuoto, decidere di mettersi a correre come un pazzo nel bosco, ma quella ragazza lo aveva fatto per salvare sua madre.
Avrebbe impiegato qualche ora per riprendersi.
E se non si fosse ripresa, e qualcuno passando di lì l'avrebbe soccorsa? Non potevo sapere quanto tempo sarebbe trascorso prima che qualcuno la trovasse e comunque, con Masky e Hoody a piede libero, sarebbe stata una facile preda per chiunque.
Specie per chi aveva voltato le spalle alla sua umanità ed era rimasto solo con l'istinto per la caccia e la voglia di uccidere per il piacere di farlo.
No, io non ero così. O almeno, non ancora. Avevo appena deciso di risparmiarla. Non era la prima volta che graziavo una vittima. Sì, in effetti potrà sembrare strano, ma anche uno psicopatico come me può avere una sorta di codice morale. Mi rifiuto di uccidere i bambini, ad esempio. E scelgo quasi sempre vittime che hanno circa la mia stessa età... in genere sono bulli, curiosi o ragazzine viziate. Gente che la società non rimpiangerebbe.
Okay, non sono così buono come credete.
Anch'io ho ucciso delle persone, tante persone... e alcune di queste, sono morte perché avevano solo fatto il tremendo errore di incontrarmi al momento sbagliato nel posto sbagliato.
Non mi pento di quello che ho fatto e non ho intenzione di pentirmene. Non cerco di rimediare ai miei errori, risparmiando ogni tanto qualcuno. L'ho fatto... solo perché oggi, non sono in vena di togliere la vita a questa ragazza.
Non c'è nulla che mi lega a lei. Solo, non riesco a ucciderla.
«Sentiti fortunata...». Dissi.
Infilai una mano dietro alla sua spalla e la sollevai in braccio: era più leggera di quanto pensassi.
Ormai era l'alba e la gente sarebbe uscita di lì a poco per andare al lavoro. Avevo poco tempo per riportarla a casa sua, passando inosservato e raggiungere gli altri di ritorno dalla 'caccia'.
In che razza di guaio mi ero cacciato?
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