Ostaggio

Quando ha riaperto gli occhi, l'esserino giallo si è trovato in un incubo. Uno di quelli veri.
I muri della stanza in cui era rinchiuso erano talmente chiari da sembrare fonte di luce; si sarebbe avvicinato per toccare lo sconosciuto materiale di cui erano fatti, ma si trovava incatenato polsi e caviglie ad una lastra di legno leggermente inclinata all'indietro, appoggiata in corrispondenza di una nicchia sulla parete.
Il legno aveva una fossa rotonda all'altezza della nuca, che lo invitava ad appoggiarsi e guardare diritto innanzi a sé. Proprio dentro l'occhio nero di un cannone - un fucile in scala sei o anche sette a uno, per la precisione, di quelli che possono polverizzare un extraterrestre con un banale colpo. Ignorando la sensazione di terrore che l'aveva assalito nell'incontrare lo "sguardo" della macchina della morte a poche spanne da sé, ha deglutito.
Ha poi sollevato la testa, con fatica, per accertarsi che la sensazione di non indossare la divisa fosse vera. E infatti, niente mantello, niente calzature e niente corsetto: solo un leggero camice azzurro, che lasciava scoperte le braccia e le gambe tagliuzzate dai micro-robot. Si è sentito travolgere dalla scomoda sensazione della vergogna, che unita al "batticuore" provocato dalla paura, gli ha fatto provare una specie di conato.
Ha mosso le dita dei piedi, osservandole per distrarsi da tutto il resto, ed è trasalito quando l'ha raggiunto una voce ormai familiare.
«Sei nostro ostaggio, Rambos.»
Il rumore arrivava da un altoparlante appeso al muro dietro il cannone, in alto. In mancanza di altri punti dove guardare, il prigioniero ha puntato gli occhi lì, e nonostante avesse il cuore in gola, si è sforzato di respirare forte e rispondere adeguatamente.
«Tekkaman, che tu sia maledetto! Vieni a parlarmi in faccia!»
È seguito qualche momento di silenzio, che Rambos si è imposto di interpretare come positivo. Nascondere le sue emozioni era per lui qualcosa di naturale; soltanto Dobrai riusciva a metterlo a confronto con la realtà e con sé stesso, e al contempo era la roccia alla quale si aggrappava per non venire travolto dal burrascoso fiume dell'esistenza. Non essendo presente, comunque, l'unica cosa da fare per Rambos era prendere atto della sua solitudine e cercare di sfruttarla a suo vantaggio.
«Non lo farò. Conosco le tue capacità ed è proprio per questo che sei isolato in quella stanza.»
«Interessante» ha immediatamente risposto il prigioniero, beffardo, ostentando indifferenza per le sue parole. «Non mi ha mai raggiunto la notizia di qualche ostaggio sulla Terra. Ci rapite per divertimento?»
Joji ha riso con il microfono acceso.
«Sei il primo, Rambos. E speriamo che tu collabori, così da essere anche l'ultimo. Siete stati voi a scatenare il caos su tutta la Terra? Parla, se vuoi uscire vivo di qui!»
L'unica reazione dell'essere giallo è stata voltare il capo in segno di diniego. Joji non si è comunque perso d'animo: «Ti verranno a salvare?» Ha chiesto, e dietro il microfono non si è curato di celare il sorriso crudele di chi prova gusto a vedere la sofferenza altrui. Rambos era colui che aveva dato l'ordine di distruggere la base spaziale in cui lavorava suo padre: era dunque lui l'assassino di suo padre. Non pensava che ucciderlo sarebbe bastato a vendicarlo. Quel vile extraterrestre doveva soffrire.
Ha continuato dopo una piccola pausa, a bassa voce, cercando le parole che lo avrebbero ferito di più. «Sarà già dilagato il caos nelle tue armate, oppure i tuoi sottoposti possono fare a meno di te? Interessi davvero a Waldaster..?»
«Vi conviene sperare che non vengano» ha mormorato l'alieno, ancora rivolto a destra, con gli occhi chiusi e i denti stretti.
«Al contrario, siamo pronti ad accogliere le tue forze!»

Il tono improvvisamente vivace usato dal ragazzo l'ha fatto trasalire. Se Rambos avesse fisicamente avuto un cuore, si sarebbe potuto sentire il suo battito persino nelle cuffie che indossava Joji. In altre parole, non stava più riuscendo a nascondere la sua crescente paura: per quanto stentasse a crederci, una manciata di vili terrestri era bastata a mettere all'angolo l'Impero di Waldaster. A riprova di questo, il suo stato d'animo - confuso, terrorizzato, scombussolato - impediva l'accesso al canale telepatico con Dobrai, isolandolo completamente in quella stanza sempre più angusta e accecante, davanti ad un cannone pronto a polverizzarlo.
Non aveva paura della morte. Aveva vissuto abbastanza a lungo per capire che l'universo è governato da leggi mostruose, e che neanche il re dei re è libero di condurre un'esistenza felice, quindi non è che ci tenesse davvero tanto alla sua vita.
Era sinceramente preoccupato per Dobrai.
Sapeva molto bene che senza di lui, l'Imperatore di Waldaster avrebbe perso il senno. Sì insomma, avrebbe sofferto tantissimo... E lui lo sapeva, perché era ciò che sarebbe toccato a lui, a parti inverse.
«Lasciatemi andare!» Ha sbraitato, muovendo le braccia senza volerlo e facendosi male ai polsi. Non ricevendo nessuna risposta, però, si è dovuto calmare.
«Cosa volete da me?» Ha quindi chiesto. Eppure il silenzio è continuato.
L'ha richiesto, ancora e ancora, facendo diventare la richiesta una cantilena ma senza sortire il minimo effetto.

Ore dopo si è addormentato con queste quattro parole sulle labbra.

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