22. L'amante
Ventisei febbraio 2017
Casa di Lily.
Ore 12:15
«Come stai, tesoro?» chiese Lily, avvicinandosi all'amica.
«Adesso meglio... Però, ripensandoci, visto che comunque hai fatto il caffè, ne vorrei una tazza.» rispose Melissa, ridendo.
Mentre Lily sistemava la bevanda, la ragazza sospirò, assaporando quell'ultimo minuto di serenità che le aspettava. Dopo poco, infatti suonò il campanello.
La padrona di casa porse la tazza a Melissa e andò ad aprire.
«Guarda chi ci è venuta a trovare!» disse la ragazza tornando in cucina.
«Shona! Che bella sorpresa. Che ci fai qui?» chiese Melissa piacevolmente colpita. Posò il caffè sul tavolo.
La donna, che di solito la guardava con occhi dolci, aveva qualcosa di strano nello sguardo, sembrava perso, era cupo... ambiguo.
Nonostante tutto, la ragazza si avvicinò a lei per abbracciarla, ma fu allora che Shona disse con tono duro: «Devi ricordare!»
Lily fece un piccolo passo verso l'adulta: «Shona, ma che stai dicendo?»
Melissa si bloccò da farle quel gesto affettuoso e abbassò le braccia che aveva prima allargato. «Non capisco...» farfugliò, aggrottando le sopracciglia.
«Devi... ricordare» ripeté con tono più aggressivo.
Lily iniziò a balbettare: «Sh-Sh-Shona... che ti prende? I-Io non capisco...»
La donna sospirò profondamente e alzò il braccio, tendendolo verso Lily. La lunga mantella che copriva più in basso delle mani sfilò via, cadendo e adagiandosi sulle forme della donna. La pistola impugnata da Shona fu così in bella vista.
«Shona, Shona, Shona... guardami sono qui!» esclamò Melissa, alzando le mani come segno d'arresa. «Lascia stare Lily, sono qui, è con me che volevi parlare... sono qui.» ripeté più volte la ragazza.
La donna roteò il corpo puntando la pistola verso la ragazza.
«Non ricordi nulla di quella notte?» chiese, tenendo ancora la pistola in mano.
Melissa scosse la testa.
«Prima che Sebastian ti trovasse nel bosco, hai incontrato una persona... sforzati...». Vedendo che la ragazza faticava a capire, continuò: «Se ti dicessi Melissa, tu qui non mi hai mai vista. Hai capito, piccola? Cosa ti ricorda?»
La ragazza sgranò gli occhi.
Venti anni prima: due dicembre 1996
Casa Rocher
Hay River, Canada
Ore 23:30
Quando i poliziotti arrivarono sulla scena del crimine, ciò che videro fu inquietante: il nulla. Non c'era gente fuori a curiosare, non c'erano faretti accesi, tutte le case stavano al buio, all'infuori di quella dei Rocher, sembrava non si muovesse una foglia; come se il tempo si fosse fermato, tutto era immobile e silenzioso.
Sebastian e Jhanson si scambiarono un'occhiata prima di scendere dall'auto e pian piano si diressero verso l'entrata, passando per il campo di spighe. Il piccolo percorso di cemento era ancora fresco e se ne accorsero per via dell'odore aspro che esso emanava. Appena arrivarono avanti il portico, finalmente un uomo si avvicinò, l'unico ad averne il coraggio: il signor Jackson.
«Ha dato lei l'allarme?» chiese Jhanson all'uomo.
Egli annuì, come se gli mancassero le parole. Il poliziotto, dai grandi baffi scuri e quasi calvo, gli posò una mano sulla spalla: «Torni a casa, verremo noi a farle qualche domanda.» continuò.
L'uomo, ormai anziano e curvo, si addentrò tra le spighe per sparire nel campo.
I poliziotti, con le pistole in mano, entrarono in casa. Il silenzio era tombale, una lampadina, quasi fulminata, a intermittenza emanava luce soffusa nel corridoio. Tutte le porte delle stanze erano aperte, all'infuori di una, che sembrava chiusa a chiave. Jhanson provò ad aprirla, ma dei piccoli gemiti in lontananza attirarono la loro attenzione. Camminarono furtivi per il corridoio fino a intravedere il ragazzo, in piedi, di fronte la porta del bagno, spalancata.
«Phill» chiamò delicatamente Sebastian, alzando il palmo della mano verso il giovane e puntando, con l'altra mano, la pistola nella stessa direzione. Lo conosceva bene, uno dei tossici del paese che a volte dava problemi.
Il diciottenne teneva una pistola in mano, che però gli pendeva per lungo al torace, sembrava poco chinato su se stesso e teneva l'altra mano sul petto, come se non riuscisse a respirare bene, piangeva e sussurrava: «Mamma, mi dispiace.»
«Phill, butta la pistola...» consigliò dolcemente Sebastian. «Coraggio, ragazzo, non vogliamo farti del male.»
Phill alzò di poco la testa e osservò i due uomini che, con gesti lenti e pacati, continuavano a fargli segnale di buttar via l'arma. Il ragazzo faceva grandi respiri, come se tentasse di calmarsi; il suo viso era stanco, pallido e a tratti ceruleo, un occhio nero e gonfio, le labbra spaccate da cui aveva perso del sangue. Quel liquido scarlatto aveva macchiato maglietta e parte superiore dei pantaloni chiari. I suoi boccoli, intrisi di sangue, gli cadevano sulla fronte e sulla guancia incavata; i suoi occhi, dalla sclera giallognola, sembravano spenti e calanti.
«Phill... maledizione, butta la pistola!» ripeté con più foga Sebastian.
«Ti prego, Phill, ascolta Sebastian, non costringerci a spararti, ti prego, pensa a Bert, mio figlio, il tuo grande amico... Ne morirebbe se ti vedesse in questo stato...» lo supplicò Jhanson.
Fu allora che Phill sembrò destarsi dai suoi pensieri. Alzò di poco il braccio, osservando l'arma, con uno scatto veloce, tirò la pistola ai piedi dei poliziotti.
Mentre Jhanson si avvicinò rapidamente al ragazzo e lo ammanettò, Sebastian tolse le pallottole rimaste dalla pistola del giovane ed entrò in bagno.
Ada, la madre, era riversa dentro la vasca da bagno, completamente nuda e coperta dall'acqua trasparente e senza alcun tipo di schiuma. Dai bordi, le braccia fuoriuscivano e una pendeva fino a sfiorare il pavimento. La testa, chinata sulla spalla, si intravedeva già entrando dalla porta. La cosa strana era che i capelli erano madidi, come se fosse stata immersa e il viso era striato di sangue. Era evidente che fosse stato trasferito e che non le appartenesse, non aveva ferite di nessun genere. Le poggiò due dita sul collo, sulla vena arteriosa, ma ovviamente non vi era più battito.
«Devi venire fuori! Subito!» urlò Jhanson con voce affannata per la corsa fatta.
«Che succede?» chiese l'altro confuso.
I due corsero fuori e Sebastian rimase esterrefatto da ciò che stava accadendo. Tutti i vicini erano ammassati lì fuori, tentando di capire cosa fosse successo. Incoraggiati dalla presenza della polizia uscirono tutti, illuminando ogni casa internamente ed esternamente. Una mandria di giornalisti curiosi aveva già creato formazioni a squadre di inviati e tecnici per saperne di più e scoprire chi avesse ucciso cosa... L'auto della polizia era stata accerchiata dai fotografi nel momento in cui Jhanson aveva rinchiuso lì dentro il ragazzo.
«Chiedi rinforzi, io torno dentro e fai smettere i fotografi di accecare con quei flash il ragazzo!» ordinò Sebastian.
Percosso da una strana sensazione, ripassò davanti quella porta chiusa, ma tornò indietro e la scaraventò, a colpi di spalla, a terra. Come se portasse a una cantina, scese i gradini di legno robusto, fino alla fine e con velocità. Ma lì sotto non c'era affatto un seminterrato, era solo una stanza vuota, buia e fredda, senza mobili né elettrodomestici, solo quattro pareti di cemento armato e una piccolissima lampadina al tetto, che illuminava flebilmente la stanza. Un corpo, al centro, a pancia in giù, era adagiato su sul pavimento.
Il poliziotto si avvicinò al cadavere, il quale teneva la faccia voltata di lato, o perlomeno... ciò che ne restava. L'uomo era stato colpito da una pallottola al centro della faccia, poggiata su una grossa pozza di sangue e materiale cerebrale sparso. Il resto del corpo sembrava non essere stato colpito, ma i vestiti erano sporchi di fango.
«Sebastian, siamo arrivati», disse uno dei quatto poliziotti, che si sporse dalla porta, arrivati per aiutare i colleghi.
«Bene, qui c'è un corpo, scendete, occupatevene voi, io faccio l'ultimo giro per la casa», ordinò l'uomo risalendo dai gradini.
Sebastian teneva una bruttissima sensazione dentro di sé. Percorrendo i corridoi del piano notte, sentì degli scricchiolii arrivare da dentro un armadio a muro. Aprì lentamente l'anta, mantenendo tesa la pistola, l'unica che potesse difenderlo da altri ipotetici aggressori. Ma appena la visuale si fece più chiara, di fronte a sé vide una giovanissima ragazza, da strani capelli colorati di viola e dal viso madido di lacrime. Sebastian affondò la pistola nella fondina e aiutò la ragazza a uscire di lì: «Tesoro, che ti è successo, cosa hai visto? Phill ti ha fatto del male?»
Ma la ragazza non rispondeva, sembrava essere sotto shock. Il poliziotto, da ciò che aveva trovato nella stanza accanto quella patronale, aveva capito che era anche sotto effetto di stupefacenti.
Quando uscì dalla casa, accucciando con un braccio la ragazza, riuscì a farsi spazio tra i giornalisti, affamati per lo scoop, e aiutò la giovane a salire sulla volante dei colleghi appena arrivati.
«Portatela in ospedale!» ordinò, poi, rivolgendosi a lei, chiese: «Come ti chiami, cara?»
«Melissa...» bisbigliò, alzando la testa verso l'uomo in piedi accanto lo sportello.
«Ti chiami così?», insistette, ricordando vagamente che i Rocher avessero una figlia ancora piccola, lungi dal poter essere lei per l'età che mostrava.
«Sarah... Il mio nome è Sarah. Trovate Melissa, è scappata nel bosco.» continuò balbettando.
«Hai un bellissimo nome, Sarah. Sta' tranquilla, cercherò io stesso la bambina.»
Quando Sebastian stava per chiudere lo sportello, la ragazza iniziò a ridere sguaiatamente e ripeté una frase insensate per tre volte.
L'uomo, seppur particolarmente provato, si diresse dietro le terre dei Rocher, punto in cui iniziava il bosco. Ma quella zona era troppo buia e, dai walkie talkie, chiamò aiuto.
***
Quindici poliziotti continuavano a cercare, tra cui Jhanson che, scorgendo una sagoma di donna allontanarsi nel bosco, la seguì.
Quando si avvicinò abbastanza, si nascose dietro un enorme tronco e lentamente spostò la testa per osservare chi fosse. Stava alzando la radio trasmittente per chiamare aiuto, quando riconobbe la donna. Sussurrò: «Oh, mio Dio! Shona!»
La donna si era chinata sulla bambina. «Melissa, tu qui non mi hai mai vista. Hai capito, piccola?»
Melissa annuì, la donna fece per andarsene, ma la voce del marito la bloccò.
«Sei stata tu ad ammazzarlo?» chiese con tono provato e sconvolto.
«Robert, no, te lo giuro... Perdonami, amore mio!» disse la donna gettandosi addosso al marito.
Melissa osservava in silenzio, mentre i due discutevano animatamente. Jhanson non credette alla moglie e, spinto dalla paura di perderla, le ordinò di andar via: «Scappa, non parlare con nessuno, non farti vedere... A casa mi racconterai tutto... Poi decideremo cosa fare.» spiegò alla moglie che, per ringraziarlo, gli baciò le mani.
L'uomo tirò indietro le braccia istintivamente, l'idea della moglie assieme a Charlie lo disgustò. Non sapeva cosa l'avesse spinto a prendere quella decisione. Da poliziotto avrebbe dovuto fermarla, ma da marito non ci riuscì. Credette la moglie colpevole di omicidio e questo avrebbe dovuto smuovere la voglia di giustizia che dovrebbe esserci in chiunque svolgesse quel mestiere, ma amava la moglie fino al punto di accettare che lo tradisse e di occultare un eventuale omicidio.
Aspettò che la donna si allontanasse, si avvicinò alla bambina, la guardò in viso e sussurrò: «Sono sicuro che è stato tuo fratello.»
Melissa, confusa, annuì.
Jhanson tornò verso i colleghi invitandoli a prendere quella direzione.
***
Sebastian, dopo neanche mezz'ora dall'inizio delle ricerche, scorse una sagoma di bambina, seduta a terra con la schiena poggiata sul tronco dell'albero, le braccia sulle ginocchia e la testolina adagiata su di esse. Da una mano pendeva una bambola di pezza, dal vestito verde e con un solo occhio. La bambina aveva sugli abiti degli schizzi di sangue, Sebastian capì subito, per la formazione delle gocce, che anche in quel caso, il sangue non era, fortunatamente, suo.
«Tesoro, sei sola qui?», chiese l'uomo aiutandola ad alzarsi.
«No, c'è Rachel» disse la bimba alzando il braccio e mostrando la bambola.
Il poliziotto sorrise: «Piacere, Rachel, io sono Sebastian.» affermò con tono elegante, stringendo il braccio di pezza.
La piccola Melissa afferrò la grande mano del poliziotto, alzò il viso per osservarlo negli occhi e sussurrò: «Signore, è stato mio fratello.»
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