Sedalia
Dave – 11 anni prima
Ero al centro del salone interrato, la mia gamba toccava il tavolino di vetro posto accanto al camino fatto di roccia.
- Ma papà, per favore, perché non può venire anche la mamma? – Supplicai con tono acuto, ruotando il capo verso mia madre. Era crollata sul divano beige sotto l'arco roccioso, sconfitta.
- Ti ho già detto di no! Piccolo insolente. – Mio padre mi afferrò l'orecchio destro e lo tirò così forte che mi parve di sentire la pelle lacerarsi, iniziai a lacrimare silenziosamente, pregavo mia mamma con gli occhi di fare qualcosa. Il mio sguardo cadde sulla bottiglia di vino vuota accanto ai giornali sull'altro tavolino, accanto alla poltrona che fronteggiava il divano. Papà aveva bevuto di nuovo. Mi trascinò su per le scale e mi scaraventò contro la porta, lo schianto mi fece sentire le ossa spezzarsi, anche se non si erano rotte davvero, il mio corpo esile si contorse dal dolore. Mi rannicchiai contro la porta, con le mani che mi coprivano la testa e tremavano.
- Quando ti do un ordine, devi eseguirlo, senza contestare. – Pronunciò imperiosamente, non avevo il coraggio di alzare la testa.
- Si, papà. –
- E non devi rivolgerti a tua madre se non ti do il permesso. – Sentii i suoi passi avanzare verso di me.
- Si, papà. –
- E, Dave? – Mi chiamò con tono apparentemente amichevole, riuscii a trovare la forza di abbassare cautamente le mani e alzare lo sguardo. Un colpo. Riportai istintivamente le mani sul capo – Non – un altro calcio sulla gamba destra, cominciai a singhiozzare – provare – ringhiò, la sua mano si scontrò con la mia nuca, una fitta al collo mi travolse e tentai di soffocare i lamenti per non farlo arrabbiare ancora di più – a disubbidirmi – stavolta il colpo fu allo stomaco, così intenso che mi vomitai addosso per il dolore – MAI PIU! – Un rivolo di saliva mi colò sul braccio, mischiandosi al rigurgito fetido e ripugnante. Strinse il tessuto del colletto in una morsa stretta, mi sollevò in aria tenendomi con due dita, guardandomi come fossi un insetto schifoso da gettare via. Fu quello che fece, mi lanciò con disinvoltura al lato della stanza, sentii il mio corpo volare e poi l'impatto con il pavimento freddo.
- Adesso muoviti, ti aspetto in macchina. Non provare a ripulirti, viaggerai sommerso nel tuo stesso vomito, verme che non sei altro. – Si sistemò la giaccia con noncuranza. Le manine pressavano sul pavimento, le ginocchia pulsavano e chiedevano di essere spezzate, per far smettere gli aghi di pungerle. Tremavo, ogni parte del mio corpo tremava nel tentativo di non fare rumore. – Ti voglio fuori in dieci secondi, Dave. – Trasalii, il petto era sovraccaricato, come se papà mi stesse calpestando, troppo appesantito per un bambino così piccolo. Papà uscì dalla porta, cercai subito di sollevarmi, ma ricaddi a terra. Ringraziai che lui mi stesse aspettando in macchina. Intimorito, mi alzai vacillante, cercai di ritrovare l'equilibrio e di ignorare i lividi che prendevano forma sulla pelle. Riuscii ad arrancare verso la porta, aprirla e percorrere il sentiero di campagna fino alla macchina blu. Intorno a me c'era tutto verde, abitavamo in una villetta sperduta fra i campi. Lanciai uno sguardo a casa, pensando alla mamma. Starai bene mamma, mentre io sono con lui, sta tranquilla. Giunsi davanti alla portiera, entrai nel posto del passeggero e il sedile mi sembrò troppo grande. La sua presenza ingombrava l'abitacolo, non lo guardai. Mi rannicchiai sul sedile, cercando di non pensare ai vestiti sporchi e all'odore nauseabondo. Papà mise in moto e partì, senza degnarmi di uno sguardo. Meglio così, tanto mi avrebbe guardato schifato. Trattenni le lacrime mentre ci lasciavamo alle spalle i campi e le radure, sorpassavamo un gregge di pecore e le montagne sembravano correre più veloci di noi. Imboccammo la via principale di Westcreek, è lì che vivevamo. Era un piccolissimo centro abitato, non sapevo quanti fossimo, non vedevo mai nessuno, ma mamma mi diceva che eravamo pochissimi a vivere lì. Mentre le casette montane sparivano dietro di noi, papà prese una strada grande, che non avevo mai visto. Poi, un cartello verde rispose alla mia domanda.
- GRAZIE PER ESSERE STATI A WESTCREEK – Recitai senza farmi sentire, mimando le lettere con le labbra. Stavamo andando via? E la mamma? Non l'avevo salutata. La vista cominciò ad appannarsi, le pupille erano coperte dalle lacrime che stavano per traboccare. Cercai di non farmi vedere e di trattenerle. Tornerò mamma, te lo prometto. Il pensiero di tornare a prenderla mi confortò un po', mi concentrai sul cielo. Le nuvole si muovevano con noi, cercando di arrivare prima, ma io non avevo voglia di fare una gara. Cercai di farglielo capire aggrottando le sopracciglia, ma loro non mi capirono e continuarono a correre alla stessa velocità della macchina. Le lacrime erano andate via, papà continuava a guidare in silenzio su questa strada lunghissima. I lividi facevano ancora male, ma l'odore del rigurgito si era dissolto e l'aria non era più così soffocante.
- P.. Papà? – Azzardai, dopo non so quante ore di silenzio, la mia voce uscì in un sussurro.
- Parla forte, Dave, o mi farai perdere la pazienza. –
- Si papà, scusa. Posso sapere dove stiamo andando? – Domandai, cercando di apparire sicuro di me. Papà fece un ghigno che mi spaventò, di solito lo faceva solo quando mi costringeva a guardare mentre faceva quelle cose con mamma mentre lei gridava. Lei però non c'era, quindi non capii perché le sue labbra s'incurvarono verso sinistra e i suoi occhi mi guardarono in modo inquietante.
- Stiamo andando a fare una promessa, Dave. Beh, tu stai andando a farla, ma io garantirò per te. E tu non mi deluderai, vero Dave? – Scossi velocemente il capo, avrei voluto chiedergli se saremmo mai tornati dalla mamma, ma rimasi in silenzio per tutto il resto della tratta. Papà sterzò per la prima volta dopo quelle che mi sembrarono ore, entrammo in una via simile a quella d'entrata di Westcreek, ma il cartello stavolta annunciava - BENVENUTI A SEDALIA. – La strada era costeggiata da alberi altissimi, superammo alcune casette ancora più piccole di quelle dove abitavamo noi, poi prendemmo una salita ripida che la macchina fece fatica a percorrere. Superata la parte più faticosa, papà fermò la macchina di colpo, in una radura vuota. Spense il motore e scese, aspettando che io facessi lo stesso. Aspettai i suoi ordini accanto alla macchina, ma lui proseguì verso un sentiero senza guardarmi. Lo seguii, senza fare domande. Entrammo in una stradina piena di rocce e fango, salivamo verso su e ancora su. Papà era davanti a me, non fiatava e cercai di fare lo stesso. Guardavo a terra, cercando di non inciampare, o mi avrebbe lasciato lì, da solo. Mi sembrò di scalare la montagna più alta del mondo, dopo non so quanto tempo iniziò a mancarmi il fiato, facevo fatica a stare al passo con papà. Era come se qualcuno stesse cercando di spingermi giù premendo con la mano sul petto, mentre io con tutte le mie forze gli remavo contro. Cominciavo a sentire le energie abbandonarmi. Papà, invece, non sembrava avere difficoltà. Il piede si scontrò con un sasso e io caddi, mi sembrò che tanti piccoli vermi volessero mangiarmi la pelle. Cercai di rialzarmi, il ginocchio mi faceva malissimo. Sentii un braccio afferrarmi e strattonarmi, papà mi aveva spinto davanti a lui, per controllarmi. Per favore papà, basta. Non posso farla qui, la promessa? Non osai pensare ad alta voce, ma quando iniziai a prendere in considerazione l'idea di farlo, papà mi affiancò e si fermò. Alzai lo sguardo, un edificio di cemento era piantato al centro della collina, aveva delle statue all'entrata, mi sembrarono due angeli con le ali spezzate, ma ero troppo stanco per guardarle bene. La struttura era grande e, nella parte più alta, c'era una torre con all'interno una campana. Forse c'era qualcuno lassù, perché la vibrazione dello strumento echeggiò nell'aria, come a voler segnare l'inizio di qualcosa.
- Comportati bene, Dave. Ci saranno dei miei amici. Non fare domande, esegui solo gli ordini. – Papà non mi diede altre spiegazioni, sentii come dei ragni tessere le loro tele dentro la mia pancia. Avevo paura, tanta paura. Seguii papà dentro l'edificio, varcammo una porta di legno antico e fui sommerso dal buio. Non c'era nessun amico di papà all'ingresso, non vedevo niente. Ad un tratto, mentre le gambe iniziavano a tremare, quattro candele si accesero al centro della stanza, con accanto quattro uomini coperti da un cappuccio rosso. Rimasi immobile, inchiodato sul posto, guardandomi alle spalle. Sentivo aria fredda dietro di me, come se qualcuno mi stesse soffiando sulla schiena. Papà si mosse e m'aggrappai d'istinto al suo braccio, mi fulminò con lo sguardo e mollai subito la presa. Sussultai quando un rumore metallico ruppe il silenzio, uno degli uomini si era allontanato dalla rispettiva candela ed era andato a prendere qualcosa. Si mosse verso di noi e diede a papà un altro cappuccio rosso.
- Peter, il signore sarà lieto della tua promessa. Vedrai, ci ricompenserà. – Mi guardò e il cuore iniziò a battermi velocemente, quasi lo sentii esplodere. Papà indossò il cappuccio e io non capii, quale signore sarebbe stato contento della promessa che dovevo fare?
- Dave – Trasalii, ebbi voglia di fuggire, perché sapeva il mio nome? – Vai al centro del cerchio. Mi mossi rigido, con le gambe bloccate e una stretta allo stomaco. Con la luce delle candele vidi una stella disegnata sul pavimento, il contorno delle punte era tracciato da un cerchio. Cercai di non guardare nessuno degli uomini, volevo che il mio papà mi riportasse a casa, dalla mamma. Invece, prese posizione sull'ultima punta e accese la sua candela, lanciandomi sguardi sinistri di ammonimento. Non sapevo cosa fare, sgranai gli occhi e bloccai il fiato in gola quando l'uomo alla mia sinistra tirò fuori un coltellino. Scossi la testa e feci qualche passo indietro.
- AL CENTRO! – Gridò la voce di mio padre, senza muoversi dalla sua punta. Tornai al mio posto, mentre sentivo un liquido caldo colarmi lungo le gambe. L'uomo col coltellino emise una risata perfida – Oh bravo, più liquidi del tuo corpo lasci al signore più vorrà che onori la tua promessa, si nutrirà del tuo terrore. – Non capii niente, si avvicinò a me e mi lasciò il coltellino in mano, altro liquido colò sulla pelle, fino a macchiare il pavimento sotto di me.
Tutti gli uomini si posizionarono sulle loro punte, i volti illuminati solo dalla luce soffusa delle candele. Unirono le mani e mi guardarono, stringevo il coltellino fra le mani e tremavo. Silenzio.
- Satanas amamus le honoramus Te glonilicamus Te – Pronunciarono in coro solennemente, mi girai attorno più volte, ero terrorizzato.
- Tu Deus Noster Tu nostrae Stirpis origo. Satanas, veni! Silvam Obscuram illumina. Satanas, vocamus Te in silenti umbra Te expectamus – Mi fissarono e innalzarono le braccia. Strizzai gli occhi, cercando di distrarmi e non udire quelle voci cupe. Era solo un brutto sogno.
- Nobiscum mane Magne Deo et carnes nostras pervade. Satanas, veni! Vocationem nostram accipe. Satanas, invocamus Te Draco abyssi Mane Astrum qui catenas exolvis – Mi tappai le orecchie e lacrime silenziose inumidirono le guance.
- Ritum Sacrum auge. Satanas, veni! Anima nostra parata est. – Un soffio secco di vento spense le candele, calò il gelo e fui avvolto da un silenzio assordante. Le voci degli uomini non s'udirono più.
-Dave, è il momento. Tagliati la mano con il coltellino e fa colare il sangue lì, dove la tua urina ha macchiato il pavimento. Dopo, dovrai ripetere delle parole dopo di noi. – Quella voce era simile a quella di mio padre, ma mi giunse più sinistra e cupa del normale. Alla parola tagliati, gli occhi schizzarono fuori dalle orbite, ma non ribattei. Non volevo morire. Il tremolio del braccio mi rese difficile recidere il taglio lento e profondo sulla mano. Le lacrime scorrevano incessantemente, cadevano sul pavimento, mischiandosi al sangue e all'urina. Non percepii il dolore, forse nella convinzione che stessi facendo solo un incubo. Le goccioline rosse stillavano lentamente, tracciando scie rosse lungo il braccio.
- Oh, Signore. Prometto a te la mia anima innocente. Quando essa sarà pronta, anche il mio corpo e la mia mente lo saranno. Sarò devoto a te, come ti ho giurato anni precedenti. – La voce profonda e oscura di mio padre tagliò l'aria e mi fece vibrare gli organi. La tela che il ragno aveva nidificato nel mio stomaco si era diramata in tutto il corpo. Mio padre mi ordinò di ripeterle e io lo feci senza accorgermene. Mentre pronunciavo la promessa, scorsi l'ombra di mio padre avanzare verso di me. Le mani poste a conca proteggevano un oggetto, mi sembrò un ciondolo perché la corda nera pendolava dalle dita gonfie. Arrivò a un passo dal mio corpo, la sua figura sovrastava la mia piccola corporatura, chinai il capo in gesto meccanico e lui fece scorrere il ciondolo lungo il mio collo. Soffiai l'ultima parola mentre un freddo improvviso mi colpì allo sterno e, con essa, percepii l'ultimo granello di energia abbandonarmi. Mi risvegliai non so quanti giorni dopo, sul mio divano, vicino a mamma. I ricordi di quella notte erano così confusi che, il me bambino, si convinse di aver fatto un brutto sogno. Mi costrinsi ad ignorare che la ferita rimarginata sulla mano andasse in contrasto con la possibilità di aver fatto un incubo. Presi fra le mani il ciondolo appeso al collo, la luce del lampadario rifletteva su una stella intrecciata come quella che era disegnata a terra. Tuttavia, la mente alterò la realtà e, per gran parte della mia vita, non ricordai più quella sensazione e quegli avvenimenti terrificanti.
Presente
Chiusi l'anta dello sportello e incontrai i miei occhi freddi nello specchio. Nei giorni trascorsi dopo il mio primo incontro con Rachel, il senso di impotenza si era intrecciato alle mie viscere e non aveva voluto sentire ragioni di andarsene. Si era radicato così in profondità che neanche le sessioni punitive erano riuscite a farmi riacquistare lucidità. Nella mia mente avevo solo lei e il modo in cui mi era sfuggita, così tenace e debole allo stesso tempo. Avevo tentato di avvicinarmi a lei durante uno dei suoi momenti di debolezza, ma non aveva esitato un secondo a sfidarmi con gli occhi e congedarmi poco dopo. Mi aveva liquidato come fossi stato un verme, sfidato come se avesse avuto possibilità di vincita, e l'aveva avuta. Ma mia piccola Rachel, questa non è la nostra sfida, è la mia. Il suo pensiero era fisso da giorni, avrei dovuto cambiare metodo per portarla a me, lei non era facilmente plasmabile come quell'inetto del fratello. I suoi capelli neri svolazzavano incontrollati quando muoveva il corpo per opporsi alle mie parole, i suoi occhi scuri divampavano fiamme ostili ogni volta che incrociavano i miei, e le sue labbra secche sputavano veleno ad ogni mio tentativo di avvicinarmi a lei. Ma io sapevo, sapevo che avrei dovuto far leva sull'unica debolezza che aveva e che ero stato tanto impulsivo da ignorare. Questa volta non avrei sbagliato. L'avrei nominato, suo fratello, fatta sentire compatita, avevo solo bisogno di una nuova occasione per impormi e riprendere il controllo. Strinsi fra le dita il ciondolo raffigurante il pentagramma intrecciato, lo stesso che avevo inciso sul muro tante volte quante quelle che avevo rischiato di farmi risucchiare nel passato. Il metallo degli anelli si scontrò con quello del ciondolo, lo fissai per alcuni secondi e lo lasciai ricadere sul petto. Avevo appuntamento con una delle mie seguaci proprio in quel locale, dove Rachel si era opposta a me. Se l'avessi incontrata, avrei saputo cosa fare. Ammirai ancora per un po' la mia figura carismatica e poco dopo uscii di casa. Tracciai il percorso lungo l'Insidee Scoop lasciandomi alle spalle orme di pensieri e frasi ripetute nella mente. Lasciami stare. Esegui gli ordini. Sei stato promesso. Non varrai mai nulla finché non adempirai al tuo dovere. Immaginai la suola della scarpa lasciare ad ogni impronta una lettera incastrata nell'asfalto, le impronte sporche d'infamia e crudeltà che avevano colpito la mia anima passata. Tentai di concentrarmi sulla sessione punitiva che avrei dovuto organizzare, al potere che avrei lasciato scorrere nel sangue, alle suppliche e al controllo esercitato. Sulla scia del passato, con la testa pulsante, arrivai davanti l'edificio. Lì dentro, c'era il simbolo di tutto ciò che ero oggi, una delle mie seguaci, pronta a farsi perdonare da me e a scontare i suoi peccati. Lei era uno degli esemplari che mi dimostrava ogni giorno devozione, che mi ricordava che non ero più l'essere innocente, il bambino impotente ed incapace di reagire. Avanzai verso la porta e il familiare tintinnio echeggiò nell'aria, la individuai al tavolo davanti la porta che portava alla stanza dove avevo avuto il primo incontro con Rachel. Le pareti dipinte e vivaci contrastavano con il mio umore e le mie intenzioni. Presi posto lentamente sulla sedia, puntandole gli occhi fissi e guardandola agitarsi sulla sedia. Incrociai le mani e posizionai i gomiti alle estremità del tavolo, rimasi a studiarla per quello che lei percepì un tempo indefinito. Le lunghezze le ricadevano morbide sui seni, le mani erano serrate e stringevano i bordi. I segni di alcune settimane prima si erano quasi rimarginati, ma erano ancora scolpiti nella sua pelle, il mio potere era ancora inciso su di lei.
- Megan. - Rabbrividì e alzò lo sguardo su di me - Ripetimi. Perché vuoi essere punita? - Le ordinai e la vidi inghiottire la bile e sistemarsi i capelli dietro le orecchie.
- Perché ho compiuto atti impuri con il mio corpo, l'ho donato in cambio di soldi e mi sento sporca. Sono stata debole, ho ceduto alla tentazione del denaro e non perché ne avessi bisogno, sono stata avida. E lei, signore, mi ha fatto capire che una donna che non è in difficoltà economica e compie un atto del genere per puro piacere, non è degna di essere chiamata Donna. -
- Bene, Megan. Hai ragione, se tu fossi stata in difficoltà economica sarebbe stato l'opposto. Avrei dovuto punire chi di te si è approfittato, ma prostituirsi perché si è ceduto alla tentazione del sesso e del denaro - scossi la testa e feci una pausa, allacciai i nostri sguardi così da persuaderla e scenderle fino all'anima - indica una debolezza immane, debolezza psicologica e tu, Megan, vuoi essere più forte, vero? - Lei annuì vigorosamente, trassi un lungo sospiro e proseguii - Sai che per diventarlo dovrai essere punita e perdonata, accetterai qualsiasi cosa io voglia farti senza protestare o sarà peggio, dovrò esercitare su di te un potere inaudito se proverai a scostarti dalle mie azioni. - Restai in silenzio, in attesa. Iniziò a tremare dalla paura e un ghigno soddisfatto prese forma sul mio volto.
- S-si signore, lo so. Merito qualsiasi cosa lei voglia farmi perché voglio diventare forte come lei, voglio diventare donna. Una donna vera, come lei è un uomo vero. -
- Silenzio. - Ordinai - non sarai mai come me, Megan - ringhiai - ma farò in modo che non sarai più debole, credimi. - Risi meschinamente.
- M-mi p-perdo –
- Silenzio. – La mia testa scattò improvvisamente verso la porta d'entrata, lei. La sua piccola figura ostile aveva varcato la soglia d'entrata. La sua guerra contro il mondo era evidente agli occhi di tutti. Gli occhi infuocati e i pugni serrati sorreggevano il misero peso del suo corpo caldo. Le gambe scattanti e le braccia rigide fecero da sfondo alle labbra serrate e le sopracciglia aggrottate. Era un cumulo di rabbia e fuoco. Un groviglio di paure e debolezze sotterrate dalla cenere e dalle fiamme. C'avrei pensato io a disseppellirle.
- Ho da fare, Megan. Vediamoci domani lì, dove ti ho detto la scorsa volta. - Mi alzai e la lasciai lì, mi aspettava un compito assai più saporito di un'inutile prostituta.
Mi mossi verso di lei, indossando la maschera del dispiacere. -Rachel, scusami. Posso sedermi? - Inghiottii il groppo in gola e una fitta mi colpì allo stomaco per aver osato pronunciare la parola scusa, ma era necessario. Alzò lo sguardo su di me, fece roteare gli occhi e sbuffò, tornando ad ignorarmi e a sorseggiare il suo drink verde. Inalai un gran quantitativo d'aria per mantenere il controllo e mi sedei delicatamente.
- Davvero, mi dispiace. L'altra volta volevo solo dirti che ti capisco. - Il suo sguardo scattò su di me e mi incenerì. Non glielo permisi, calai il velo di protezione sugli occhi, quello che non le avrebbe permesso di leggermi.
- Mi capisci? – Sputò in un sibilo, stringendo le dita intorno al bicchiere.
- Si, mi dispiace. Anche mia madre ha fatto la stessa cosa che ha fatto tuo fratello. Per me è ... -
- Silenzio! - Si alzò dal tavolo gridando e attirando l'attenzione di tutti i presenti - TU NON SAI UN BEL NIENTE, STA LONTANO DA ME, NON TE LO DIRÒ PIÙ! - Fece rovesciare la bevanda verde sul tavolo e lo sgocciolio del liquido fu l'unico rumore udibile per qualche secondo, prima che la porta d'ingresso si scontrasse col muro, causando un boato all'interno della sala. Se ne era andata, lasciandomi lì come un essere inutile. No, non glielo avrei permesso. Mi alzai, ignorando gli sguardi e seguii la puzza di bruciato che quella ragazzina si lasciava dietro. La raggiunsi immediatamente, seguendo la scia di morte che le aleggiava intorno.
- Fermati, Rachel. - Lo fece davvero e, per un secondo, sentii di avere controllo su di lei. Rimase girata di spalle, in attesa di scoprire la mia prossima mossa. - Lasciami spiegare, ti pre...- Scossi il capo e sentii la lingua pizzicare - per favore. - La lingua era in fiamme, voleva liquefarsi per aver pronunciato quelle parole. È necessario, è per manipolarla. - Non voglio sembrarti uno squilibrato, sono arrivato da poco in città e ho saputo della tua famiglia. Ho capito che anche tu non vuoi sentirti compatita, è una cosa che odio anch'io, da quando mia madre si è uccisa. - Vedevo ancora i suoi capelli sciolti lungo la schiena e i pugni serrati lungo i fianchi. Azzardai un altro passo. - Non sono un pazzo, voglio solo aiutarti perché ho passato la stessa cosa. –
Le afferrai un polso e lei si voltò fulminea verso di me – Levami quelle mani di dosso. - Mi urlò contro e mi spinse via. Il suo sguardo indemoniato avrebbe intimorito chiunque, ma non me. Stupida ragazzina, tu dovresti supplicarmi di aiutarti. Le pupille dilatate mi puntavano truci, la guardavo dall'alto e mi costrinsi ad assumere uno sguardo smarrito.
- Ascoltami, per favore. - Mi parve di sentire la lingua arrotolarsi e provare a strangolarmi.
- Non me ne frega un cazzo di te e di come, tu – fece un passo avanti – hai superata la cosa. – Gridò senza controllo, marcando parola per parola. Restai in silenzio, i nostri occhi si allacciarono e una scintilla scoppiò.
- Io devo aiutarti, io conosco dei modi. -
- Tu- tu devi aiutarmi! – Gettò le braccia al cielo. - Non so neanche chi sei e con i tuoi modi ti ci strozzo! - Si scostò dal mio sguardo indagatore e cominciò a perdere il controllo. Si muoveva frenetica, come se stesse per avere un attacco epilettico. I denti stridevano e il colore dei suoi occhi venne risucchiato. Divenne assente, quasi posseduta. Tremava e continuava a muoversi.
- Butta fuori. Rachel, grida. - Scoppiò in un urlo sofferente, lacerò la tensione e sentii che era finalmente mia. Le grida s'insinuarono tra i vetri e quasi li ruppero, la strada era deserta nonostante fosse la via principale. Sembrava che Rachel avesse risucchiato tutto con le sue urla. Era mia, mi aveva ubbidito. Crollò a terra, rannicchiata su se stessa. Il mio corpo era imponente sopra il suo, capii di poter fare la mia mossa e chiamarla a me.
- Rachel. - Balzò in aria e mi puntò un dito contro il petto, il suo volto era rigato dalle lacrime. - Sta - un respiro e un passo - lontano - un altro respiro e un altro passo – da me! - Si avventò sul mio corpo in grido incontrollato, fece scontrare i nostri cuori e mi prese a pugni lo sterno. Mi destabilizzò, risposi prontamente afferrandole i polsi e scaraventandola lontano da me. - Tu sei una sciocca ragazzina. - Avevamo entrambi il busto tachicardico, ma nessuno dei due voleva darla vinta all'altro. Chi se ne sarebbe andato prima? Chi avrebbe ceduto al potere dell'altro di mandarlo via? Ceduto alla tentazione di scappare. Intorno a noi forse c'era gente, forse no. Noi sentivamo solo le fiamme divorarci, persi il controllo e il mio sguardo divenne cupo, perché vinsi io. Lei se ne andò correndo, fuggendo via dalla brama che avevo di lei. Vinsi io, ma non mi sentii potente. Avevo perso il controllo, avevo lasciato cadere la maschera. Avevo avuto potere, lei mi aveva ubbidito, ma io ero caduto nella sua velata richiesta di sapere chi fossi veramente. Questo, non sarebbe dovuto succedere. Non poteva succedere, nessuno poteva avere potere su di me. Tanto meno una ragazzina debole e denutrita, convinta di poter vincere sui suoi demoni. Oh Rachel, il demonio, è ben altro.
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