Preda e Predatore
- Non puoi fare il predatore con chi ti vuole come preda. - Dave Sanders
Dave - 11 anni prima
Il tintinnio della catena mi fece gelare il sangue, chiudere le piccole venature sulle braccia. Ogni rintocco segnava la fine, il rumore stridulo batteva contro le ossa.
- Daave. – La sua voce strisciò viscida sulle rigature del legno, come un serpente da caccia mandato per iniettarmi il suo veleno. Forse, sarebbe stato meglio, magari sarei morto. Mi rannicchiai dietro il divano, strinsi le braccine attorno alle ginocchia e provai a smettere di tremare. Tenevo i denti serrati, con una pressione tale che le gengive iniziarono a sanguinare. Temevo che sentisse il fragore delle mie piccole ossa battenti.
- Dove sei, figliolo? – Visualizzai i suoi occhi spalancati, iniettati di sangue, vagare per la casa alla ricerca del mio corpo. I denti serrati e la bocca spalancata in un sorriso sadico, mentre sibilava il mio nome come un serpente incantatore, per attirarmi a sé, per torturarmi.
Ogni passo si faceva sempre più forte, il cuore gridava e la suola della scarpa in pelle batteva sul parquet, lasciando che i tonfi s'insinuassero nel mio condotto uditivo e mi facessero vibrare le budella. Scuoteva la catena per chiamarmi, come fossi il suo cagnolino pronto per la passeggiata pomeridiana. Una passeggiata verso il male.
- Lo sai che ti troverò, Dave. – Mi strini ancora di più su me stesso, sperai di confondermi con i tessuti del divano, mi ero trasformato in un grumo di paure e sofferenze. Trattenni il fiato, finché il viso non divenne blu e la pancia gonfia per la paura, tanto da far male.
Silenzio.
Non sentivo più un nessun rumore, neanche il debole soffio del vento. Forse si era arreso, ma sarebbe tornato presto. Probabilmente, era andato dalla mamma. Mi dispiace mamma, quando sarò grande io ti salverò.
- Bu. – Il suo volto terrificante sbucò da dietro il divano. Gridai. Scalciai. Piantai le mani sul pavimento e tentai di sfuggire alla sua presa. Gattonai più veloce che potevo. Le ginocchia si scontravano col legno e il dolore si mischiava alle grida strozzate, come se mi stesse già sventrando le budella con le sue mani, grandi e dure. Mi afferrò la caviglia. La stanza si rovesciò quando roteò il mio corpo con violenza. Le assi di legno presero a pugni la schiena.
- Papà! No, ti prego. – Supplicai, scalciai e piansi, mi disperai. Non volevo più sentire le sue mani addosso.
- Farò il bravo. – Sussurrai, tirandogli calci sulle braccia che mi trascinavano verso la porta dello scantinato. Le lacrime scesero copiose pensando a ciò che avrebbe potuto farmi lì sotto. Rideva, rideva come un pazzo. Mi arresi, smisi di calciare. Spalancò la porta e si voltò, premendo con più forza attorno alla gracile caviglia che si stava frantumando sotto la sua mano.
- Sì che lo farai, dopo questi giorni, sarai molto più che bravo. - Lo sussurrò sottovoce, in modo macabro, come se lo stesse dicendo a sé stesso. Mi tirò, il sedere bruciava e ad ogni scalino, le vertebre venivano colpite, delle frustrate mi massacravano i muscoli, fino a radicarsi attorno alla spina dorsale e premere su un unico punto. La vista era appannata e la pelle umida, i pantaloncini del pigiama erano intrisi della mia urina. Il cuore pompava nelle vene e si arrestava ad ogni passo, come se fossi sempre sul punto di morire.
- Ti sei pisciato addosso? – Mi urlò contro, mentre mi scagliava contro un palo. Non alzai lo sguardo finché non lo sentii muoversi verso di me, agguantò il mio polso e lo spinse giù con forza, fino a toccare il cavallo dei miei pantaloncini. Ti prego papà, smettila, mi vergogno tanto. Mi fece toccare con la punta dei polpastrelli l'urina, le dita sfregarono contro il tessuto fradicio e s'impregnarono di pipì. Non lo guardavo, se avessi incrociato i suoi occhi spiritati mi sarei pisciato addosso di nuovo.
- Questo, Dave... - Si fermò e inclinò il capo, il labbro inferiore cominciò a tremare, temetti che se ne accorgesse e tentasse di strapparmelo. Fece scattare la mia mano verso l'alto e la protese sotto le mie narici. Il fetore m'investì e una pugnalata mi trafisse il capo.
- Fai schifo! – Mi urlò a un soffio dal viso, le sue grida e il suo alito pesante mi fecero strizzare gli occhi. Tentai di trattenere le lacrime, ma il dolore e l'umiliazione erano tanto intensi che non riuscii a controllare nessun muscolo.
Lasciò cadere la mia mano e agguantò la catena arrotolata. Spalancai gli occhi e scossi il capo freneticamente. Avevo il cuore intrappolato in gola, non riuscivo a parlare. Volevo morire.
- Uccidimi, papà. – Sussurrai singhiozzando, pregai gli inferi che esaudisse il mio desiderio e ponesse fine ai supplizi. Fammi portare la mamma, però, non voglio stare solo. Invece, scoppiò a ridere di gusto, come se fossi il comico più divertente del pianeta. Sentii il sangue affluire sulle guance e dipingersi di rosso, mentre sentivo le lacrime risalire dal basso degli occhi, come fossero tanti piccoli torrenti che sgorgavano sul volto.
- La tua anima non è pronta per lui, quando lo sarà, verrò a prenderla io stesso. – La frase mi giunse lontana, come se fosse di sottofondo alle preghiere. Stavo cercando di estraniarmi dalla realtà, di scucirmi l'anima di dosso, per prepararmi alla tortura.
Mi lasciò lì, fra i miei escrementi, per giorni. Dovetti nutrirmi delle zanzare e dei ragni che abitavano sulla colonna della quale ero prigioniero. Vomitai. Il liquido nauseante, dopo giorni, odorò come un corpo in putrefazione, mescolandosi all'odore di urina. Mi parve di sentirlo colare nella gola.
Poi, tornò. I lividi delle catene e i corpi degli insetti mi avevano marchiato, dall'esterno e dall'interno. La mia anima non sarebbe più tornata.
Presente
Scostai la sedia della scrivania, lo stridio mi fece infiammare i denti. La gola bramava dell'acqua, la desiderava gelida, per affogare la secchezza di una notte insonne. Giunsi in cucina e me ne versai un bicchiere. La settimana precedente avevo compiuto il passo più decisivo del mio progetto su Rachel. L'avevo drogata. L'avevo seguita e le avevo infilato un ago nella coscia e le avevo...sorriso. Il ricordo delle mie capacità mi fece aggrottare le sopracciglia e mostrare, con fierezza, la mia dentatura perfetta. Il primo soggetto, Kendall, era mio. La sua mente era di mia proprietà e la stavo plasmando a mio piacimento, era dipendente da me e dalle mie attenzioni.
La sua morte avrebbe avuto il sapore della vittoria, del potere. Rachel, anche, seppur con maggiore difficoltà, stava per cedere. Le feci credere di averla salvata, la portai qui, in casa mia. Mi persi fra i ricordi del suo sguardo terrorizzato e sulla successiva espressione confusa, grata. Mi fu d'obbligo mantenere il controllo, non potei manifestare la consapevolezza di star mangiando anche la sua anima. Aveva provato a resistere ai miei tentativi di accesso, ma non ce l'aveva fatta. Nessuno poteva. Mancò a scuola una settimana intera, le diedi il tempo d'interiorizzare la mia voce melliflua e i miei occhi pazienti. La mia espressione finta. Non avevo mai impiegato così tanto per insinuarmi in una psiche spezzata, ma con lei era divertente.
Vederla spaventata, confusa, grata e ancora terrorizzata mi scuoteva dentro. Provava a far la coraggiosa, a sfuggirmi come un topolino, ma sapeva anche lei che i miei artigli l'avrebbero afferrata, che si sarebbero aggrappati alla sua pelle fino a sprofondare nel cuore. La sua mente sapeva che aveva bisogno di me. Le diedi il tempo, sarebbe tornata lei stessa a pregarmi di aiutarla. Nel mentre, mi concentrai su Kendall.
Lo allenai a sparare con le armi scelte e premeditate per uccidere i suoi fardelli, per traforare gli organi delle sue vittime. Sarebbe stato preda e predatore al tempo stesso.
Il suono di una notifica attirò la mia attenzione, arrivò debole dall'altra stanza. Andai a controllare, muovendomi a passo deciso e moderato. Il computer era posizionato sulla scrivania, collocata sotto la parete decorata col mio sangue. I pentagrammi intrecciati disegnati con linee spezzate, di un rosso puro, il rosso sangue. Strinsi il ciondolo legato al collo fra le dita, aveva la stessa forma delle figure sul muro. Sapevo cosa rappresentava, il male e il demonio, ma non ebbi mai modo di ricordare come lo avessi ottenuto. Dimenticai che mio padre raffigurasse, per me, il diavolo e affibbiai al simbolo un nuovo significato: il demone ero io, io controllavo ogni cosa e nessuno dominava me.
La notifica giunse dal forum, un uomo supplicava la mia punizione. Un alcolizzato, un sudicio verme che aveva ceduto alle tentazioni. Mi informò che la sua mente aveva il bisogno di soffrire per perdonarsi il male che aveva inflitto alla moglie e ai suoi figli.
Erano i miei preferiti, i figli di puttana che si piegavano alle corruzioni della vita e causavano dolore ai familiari. Erano i miei preferiti da umiliare e torturare, quelli a cui volevo arrecare più angoscia. Il supplizio più spietato che potessi sperimentare sulle loro carni.
***
I fasci d'erba secchi e prominenti rendevano il passaggio arduo da compiere. Chiunque avrebbe trovato difficile avventurarsi nel fango e nella notte, dover oltrepassare i fusti prepotenti, non avendo visione, col rischio di precipitare nel fiume. Se una mia vittima riusciva a scorgere la fabbrica e giungervi, mi dimostrava una devozione assoluta. Una premura nel seguire le mie indicazioni, nell'eseguire i miei ordini. Mi lasciai il fruscio del vento e il gorgoglio dell'acqua alle spalle, addentrandomi nella fitta vegetazione, fino allo scorgere il luogo ove i miei demoni potevano eclissarsi. La luce soffusa della fabbrica mi avvolse, al centro, l'uomo. Gli avevo ordinato di procurarsi un masso pesante sulla riva del fiume. L'aveva adagiato ai suoi piedi.
- Kyle. – Richiamai il suo nome, la nuca bassa fissava il masso, chiedendosi cosa gli avrei fatto. Oh, non ne hai la minima idea.
- Kyle. – Il capo schizzò all'insù e il corpo perse l'equilibrio. I suoi occhi tormentati posarono lo sguardo sulla bottiglia di whisky che tenevo in mano. Un uomo basso, robusto, vigliacco.
- Hai preso il masso, vedo. – Avanzai verso di lui.
- Si...si signore. – Balbettò, la fronte perlacea mi confermò la fatica nel trasportare la roccia fin qui, nell'oscurità. La visione di lui affaticato, percorrere la sponda del fiume rischiando di caderci dentro e morirvi, mi provocò un vuoto nello stomaco. Leggerezza. L'aveva fatto per me, solo per me.
- Cosa mi farà? –
- Silenzio. – Lo ammonii. – Non hai diritto di sapere. Meriti alcuni dei castighi più crudi che esistano. Il tuo mancato senso di controllo e di responsabilità verso la famiglia... - Giunsi a un passo dal suo corpo. – Sei un mostro, Kyle. – Toccai la punta del suo naso con il mio, affondai gli occhi nei suoi, così che il mio sguardo potesse stritolargli l'anima.
Alcuni no, non meritavano il mio sguardo. Mi godevo le sofferenze senza dargli il sollievo di guardarmi negli occhi. Per altri, per quelli come lui, però, le mie pupille si trasformavano. Bramavano la morte.
Gli afferrai il gomito, le gambe gli tremarono e la maglietta scoprì la pancia gonfia e sudicia. Lo trascinai al centro di due vecchi macchinari.
- Immobile, non voglio udire un movimento. – Mollai la presa, si morse la punta della lingua. Gli diedi la schiena e cominciai a sorridere, un sorriso carico di odio. Presi la catena nello stanzino e tornai da lui. Rimase in religioso silenzio, quelli come lui era i più vigliacchi, non osavano pronunciare una parola per timore della mia potenza.
Gli legai i polsi alle estremità dei due macchinari, i suoi arti tirati tanto da poter staccarsi dal suo corpo. Se ci fosse stata una croce a disposizione, gli avrei trafitto il corpo come Cristo.
Ma io, non uccidevo. Io inducevo la mente a voler strapparsi dal corpo, la plasmavo affinché volesse recidere tagli profondi nel capo e sfuggire alla persona alla quale apparteneva. Facevo un lavoro ben più architettato di Dio.
Tornai verso il masso, ancora posto al centro della stanza.
- Piega la schiena Kyle, come la pecora nera che sei. Un agnellino, vigliacco e debole. – Le parole fluirono dure mentre sollevavo il peso. – Non dovrai far cadere il masso dalla tua schiena, qualsiasi cosa io ti faccia, dovrà restare sulla schiena. Non m'importa se senti il cuore schiacciarsi o le vertebre spezzarsi. Sei tu a volverlo, giusto? – Posai la bottiglia di vetro e strinsi il masso e lo portai, senza fatica, verso di lui. Il corpo flaccido tremava come fosse una foglia e io la tempesta che stava per strapparla via.
- Rispondimi. – Serrai i denti e pressai i polpastrelli sulla superficie ruvida.
- Si. Lo voglio. Lo...lo merito. – Assunsi un ghigno satirico e mi gustai la vista della sua schiena piegata, la pancia che sfiorava il pavimento.
- Fai schifo, Kyle. Sei un verme, viscido e senza alcun tipo di prospettiva futura. Dimostra almeno di saper reggere un masso. – L'umiliazione avrebbe dovuto carezzargli le viscere fino a marchiarle dell'odio per se stesso.
Posizionai il masso sopra la sua schiena, sentii le costole incrinarsi e la sua bocca emettere gemiti gutturali.
Mi allontanai, beandomi del suo corpo schiacciato contro le mattonelle gelide. Gli arti superiori allungati, le spalle roteate premere contro la pelle e le vene sul punto di scoppiare preannunciavano la sofferenza fisica.
Rimase in silenzio, mentre afferravo lo scopettone nello stanzino e ne estraevo il manico.
- Allora, Kyle. Come ti sei sentito a scagliarti contro tua moglie? Eh? – Il cuore si strinse e si riallargò. Il sangue affluì nel cervello. Era il momento.
Un lamento.
Una bastonata sulle cosce. Feroce. Spietata.
Gridò come se gli avessi addentato il cuore con i canini.
Il masso oscillò, ma non cadde.
- Dimmelo! Come ti sei sentito quando le hai rotto le costole, bastardo. – Mi scagliai contro di lui.
Un'altra bastonata. Secca. I polpacci piegati. Il suo volto si deformò, non riconobbi più i suoi lineamenti. Un viso senza organi.
Un grido dilaniante, gli avevo affondato i denti nella polpa del cuore.
- Ti sentivi libero, eh? Mentre ti bruciava lo stomaco per l'alcool. Dimmi, come ti sentivi quando strangolavi tuo figlio fino a togliergli il respiro? – Le vene pulsavano e il sangue affluiva verso l'alto, il resto del corpo lì, la mente avvolta dalla sete di castigo. Quest'uomo, doveva soffrire.
- Si...è...è vero. La...supplico. –
- Cosa!? Cosa vuoi, non meriti nulla se non dolore e tormenti. –
Fui colto da una scarica di epinefrina che mi avvampò il cervello. Io lo stavo punendo, io lo controllavo.
Un'altra legnata. Sulle ginocchia. Potente e incontrollata. Il fragore delle ossa spezzate riempì la stanza col suo eco. Scoppiai a ridere. Gli avevo strappato il cuore con i canini.
- Si, bastardo. – Il masso scivolò dalla sua schiena, mentre la gamba destra perdeva stabilità e l'osso trafiggeva i nervi. Le urla strazianti mi riempirono il petto d'orgoglio e si mescolarono al tonfo del masso.
- Hai disobbedito. Il masso è caduto. – Affermai scuotendo le spalle, per ricompormi e compiere l'azione decisiva.
I suoi lamenti mi fecero d'accompagnatori mentre afferravo la bottiglia di whisky. La osservai come un assassino osserva l'arma del delitto. Il liquido ambrato solcava le pareti di vetro con schizzi netti e veloci.
La scaraventai a terra. Il fracasso mi risvegliò i timpani, che si ubriacarono dell'eco per offuscarmi del tutto la mente. Migliaia di schegge di vetro guizzarono e scivolarono sul pavimento. Mi chinai e afferrai la più tagliente, percepii la punta pressare sul polpastrello. Allargai le labbra in un sorriso purulento di saliva. Mi avvicinai a lui, pronto a incidergli sulla pelle bastardo e vedere il sangue colare incessante sulle ossa. Ero sul punto di posare la punta...
- Liberalo! – Mi bloccai di colpo. Arrestai ogni movimento e resettai il cervello. La sua voce dura e minacciosa, Rachel. La scheggia cadde dalle mie mani e la sua figura oltrepassò il limite, varcò la soglia dell'entrata. Non è possibile. No! No! No!
- Libera. Subito. Quell'uomo. – Scandì bene ogni parola, mentre il suo corpo esile avanzò verso il mio. Il riecheggiare delle sue parole mi fece venir in mente solo una cosa. Un ordine. Aveva provato a sovrastarmi. Il cervello si rovesciò, niente era più lucido. Tu non puoi controllarmi.
- Vattene via. Immediatamente! – Mi scagliai contro di lei. La spintonai. Aveva violato i miei limiti. Era entrata nel mio mondo. Il solito sguardo smarrito e terrorizzato era scomparso, era tornata la furia nei suoi occhi. Oscillò all'indietro.
- No! Non me ne andrò finché non lascerai andare quell'uomo. – Gridò anche lei, cercando di sovrastarmi. Contorse il volto in una smorfia di disgusto quando vide le ossa e il sangue fuori dalla gamba flaccida dell'uomo. Lui non osava parlare.
- Devi andartene subito! Tu non puoi capire. Esci e sparisci dalla mia vista. All'istante. – Le ordinai, naso a naso. Allargando la bocca fino a sentire i muscoli del viso tirare. Le mie urla tonanti la schiaffeggiarono in volto. Lei, non si smosse.
- So quello che fai da mesi. – Pronunciò con una calma agghiacciante, affinché le sue parole avessero il tempo di afferrare le convinzioni nella mente e sgretolarle come fossero sabbia. Sapeva, mi aveva seguito. Non me ne ero accorto. Avevo perso il controllo. Non potevo permetterlo. Respira, Dave. Tu puoi sovrastarla, non essere debole, non lasciarti sopraffare.
Serrai gli occhi, mi presi il tempo di inalare quanta più aria fosse possibile e di ricomporre il puzzle nella mente.
Lei sapeva. Quante cose poteva aver visto? Non importava, avrei dovuto far leva sui suoi sensi di colpa. Spezzarle la convinzione di essere un'eroina, togliendole la libertà di imporsi su di me.
- Sei una stalker, Rachel? - Il mio tono piatto e pacato tornò, non gridai più. Questo la destabilizzò. La sua espressione mutò all'istante, distese le sopracciglia e schiuse le labbra.
- Cosa? No. Tu... - Scosse il capo, ma la interruppi.
- Io, cosa? Rachel? Ti ho forse seguita? - Avanzai verso di lei. La vidi scuotere il capo un'altra volta e raddrizzare la schiena.
- Stavi per ucciderlo. - Non gridò neanche lei, cercò di tenermi testa. Avanzò un passo verso di me.
- Ho visto ciò che fai alla gente. - Non funzionava, non le stavo entrando nella mente. Mi stava sfuggendo. Mi balenò in mente l'idea che potesse razionalizzare ciò che aveva visto, che raccontasse la verità. Avrebbe potuto parlare con Kendall, avrebbero potuto fermarmi. Le vene si chiusero e il cervello batteva contro le ossa, ma non potevo perdere il controllo. Dovevo cambiare modo di entrarle nella mente, dovevo farle razionalizzare come volevo io.
- Davvero? - Mantenni un tono basso e profondo, quasi canzonatorio.
- Si, tu torturi le persone. - Avanzò ancora.
- Corretto, Rachel. Ma, lasciami dire. Se hai visto tutto ciò che faccio, avrai visto anche che sono le persone a venire da me. Sono loro che mi chiedono di essere torturate. - Si fermò di colpo.
- No...non...non è possibile. -
- Cosa hai visto, Rachel? -
- Quella...quella ragazza...e...e l'uomo che ha cercato di stuprarmi e... -
- Chi? Megan? È venuta lei da me, se lo hai visto, sai il perché. Sai che mi pregava di punirla. - Dovevo spingerla verso un'altra verità, inculcarle l'idea che eseguissi solo le richieste disperate delle persone deboli.
- Perché? -
- Perché sono persone deboli, Rachel. Che fanno male a se stesse o agli altri e non sopportano i loro tormenti. Vengono da me per liberarsene. - Un cipiglio comparve sulla sua fronte, esatto. Si, ragazzina. Non sai niente.
- Non puoi impedire a queste persone di liberarsi dei loro problemi, dei loro...desideri. - Il mio sguardo si aggrappò al suo, ma non lo resse. Interruppe il contatto e guardò a terra.
- Non mi credi, Rachel? Hai sentito con le tue orecchie le suppliche di Megan. Quell'uomo? Si, hai ragione, mi sono preso io la briga di punirlo, ma concorderai con me che lo meritava per quello che voleva farti. -
- Si... Megan ti pregava. Ma perché? Chi sei tu? – Mormorò, si massaggiava i polsi mentre spostava lo sguardo da destra a sinistra. Io sono io Rachel, e tu sei solo un'altra delle mie pedine. Vedrai.
- Rachel, ascoltami. So cosa faccio, so che le persone soffrono. Ma sono loro a chiedermelo, mi assicuro sempre che loro lo vogliano. A meno che non compiano atti simili a quello di quell'uomo che ha tentato di violentarti. - Doveva credere che provassi empatia per loro, che mi importasse che soffrissero, ma che preferivo liberarli dal dolore interiore. Mi avvicinai ancora, ero a un passo da lei.
- No. Sta lontano. – Balzò all'indietro, come se le avessi dato la scossa.
- Rachel. -
- No. Lasciami in pace. Sta lontano da me. -
- Non puoi capire, non puoi privarli del loro dolore. -
- Non...non voglio sapere niente. Non voglio sapere...sapere chi sei o perché queste...queste persone sono così malate da acconsentire. Non avvicinarti mai...mai più a me. - Soffocai un ghigno. Mantenni la calma. Ordinai a me stesso di proseguire. Sta tranquilla, Rachel. Sarai tu a tornare da me, sai che queste persone sono come te, deboli.
Altrimenti, non saresti qui.
- D'accordo. - Fuggì via, confusa e stordita dalle mie spiegazioni. Mi ero insinuato pian piano nella sua mente, il tono deciso e calmo aveva fatto sì che lei vedesse le cose come volessi io. Quasi...normali. Normali per chi come lei aveva paura di me, ma aveva un bisogno disperato del terrore per liberarsi dalle proprie debolezze. La lasciai andare, mentre l'uomo dietro di me aveva perso i sensi. Il sangue si era arrestato, mentre lo slegavo e impedivo che morisse, i miei pensieri vertevano su di lei e sulla sua mente. Aveva osato spiarmi, tentato di fare la spavalda.
Piccola Rachel, io so esattamente come convincerti a credere a ciò che voglio io. Lo imparerai presto.
Non puoi fare il predatore con chi ti vuole come preda.
L'avrei mangiata viva, lei e la sua rabbia, mi sarei nutrito di loro e di quel coraggio tanto fragile.
Sei mia, Rachel. Hai bisogno di me per sfuggire ai tuoi tormenti, tu, come tutti gli altri.
La tua mente, però, avrebbe avuto solo bisogno di più tempo per accettare di essere instabile, insicura, vittima della mia imponenza. Doveva interiorizzare di aver bisogno di me.
Ero stato superbo. Un vero predatore.
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