Orme
Rachel
Chiusi l'anta dell'armadietto e appoggiai le spalle contro il metallo, sentii il freddo pungermi le scapole e penetrare nelle ossa. Non fu facile dimenticare la scena che avevo visto pochi giorni prima in quel vicolo tenebroso. Anzi, in alcuni momenti fui io stessa a cercare di ricordarla. Se sentivo lo scoppiettio delle fiamme bruciare nello stomaco, richiamavo alla mente le mani salde su quei polsi, la paura intrecciata all'intestino, i passi decisi e le lesioni sulla pelle. Il calore nel corpo così svaniva e venivo investita da un gelo nordico che m'avvolgeva, spogliandomi di tutte le energie che possedevo. Non era una sensazione piacevole, ma era l'unica che mi permetteva di non pensare ai miei fratelli, a mia madre e al mondo intero. Tuttavia, dopo poco tempo la percezione di non sentirmi più consumata mi pesava, il freddo diventava troppo e mi ritrovavo in una bolla che mi isolava dal presente, così tentavo di allontanare i frammenti di quella scena e lasciavo che la collera tornasse. Sospirai e mi diressi verso l'aula di teatro, avevo scelto questa disciplina agli albori del mio terzo anno, affascinata da qualsiasi arte fosse presente sulla terra. In quel momento, le mie intenzioni di continuarlo erano nulle, ma dovetti obbligarmi a muovere le mie gambe rigide in direzione del teatro scolastico. Varcai la soglia dell'aula e un gremito di studenti mi comparve davanti, tutti accalcati davanti al professore per udire le sue parole. Una serie di panche si estendevano a cascata verso il basso, il professor Bretman, un uomo giovane con i capelli corvini e il viso rotondo, sedeva sulla piattaforma innalzata che ospitava gli spettacoli. Mi sedetti su una delle panche, più o meno a metà della sala, evitando di immischiarmi in quella calca di gente stupida e poco furba a tal punto da soffocarsi a vicenda, stretti in una morsa collettiva di curiosità per le parole del professore.
- Buongiorno, ragazzi. Oggi vi proporrò un'esperienza diversa dal solito scambio di battute. Voglio che vi cimentiate nell'arte dei monologhi. I monologhi, nel teatro, servono per aprire la mente alle insidie interne dei personaggi. Per entrarci al meglio, dovete liberarvi delle vostre e lasciar spazio a quelle dovete interpretare. -
Gli altri studenti esultarono a bassa voce, i loro commenti riecheggiavano nell'ampio teatro e mi giungevano confusi all'orecchio facendomi sospirare continuamente.
- Il monologo che dovremo studiare è quello di Jimmy Porter, Il suo è un personaggio arrabbiato, una rabbia totale e totalizzante. Nasce dall'insoddisfazione della sua posizione nella società e di non riuscire ad accontentarsi di quello che ha. La rabbia, ragazzi miei, ha tante sfumature diverse. Immagino che tutti noi almeno una volta nella vita ci siamo arrabbiati e fatti carico di eventi frustranti. Tuttavia, con il monologo di Jimmy Porter voglio insegnarvi che vivere di rabbia, significa vivere infelici. -
Il professore scrutò le espressioni degli studenti per un po', cercando di individuare le reazioni al suo discorso. L'aula era silenziosa e tutti gli prestavano attenzione, tranne me. Mi ero accasciata sulla panca e guardavo il soffitto, contando le luci in fila.
- Signorina Amirson, potrei avere l'onore di averla qui accanto a me? – Alzai il capo di scatto, tutti si erano voltati verso di me e mi fissavano. Il professore sorrideva sornione e un brusio echeggiò nell'aria. Serrai i denti e inclinai il capo verso il basso, puntando gli occhi dritti in quelli dell'insegnante.
- No. –
- Non credo abbia scelta, venga qui o questo atteggiamento risulterà sul suo curriculum scolastico entro la fine della giornata. –
Feci dei respiri profondi, continuando a sfidarlo e serrando i pugni. Mi alzai lentamente e scesi le scale con passo pesante. L'accalcamento di studenti si aprì in due, creando uno spazio ampio dove sarei dovuta passare, sotto lo sguardo di tutti. Li ignorai, giunsi davanti al professore che mi squadrò, in attesa che seguissi le sue indicazioni e mi posizionassi accanto a lui. Rimasi impassibile, non volli dargli la soddisfazione di avermi infastidita. Appoggiai le mani sulla piattaforma e sollevai il mio peso. Mi voltai, avevo gli occhi di tutti puntati addosso e la presenza del professore accanto a me.
- Dunque - spostò lo sguardo da me al resto della classe - Jimmy è insoddisfatto della sua vita e sente di meritarsi di più. E allora si arrabbia, si dimena, contro tutti e contro tutto. Ma tutta questa sua rabbia non serve a niente. Per quanto possa ribellarsi e arrabbiarsi, la sua vita non cambia e questo lo rende infelice. Durante il monologo racconta il momento in cui ha visto morire suo padre. Jimmy sembra per un momento mettere da parte la sua rabbia e aprirsi con chi ha di fronte. E' proprio durante questo suo monologo che gli spettatori scoprono quanta fragilità ci sia dietro quell'aria sempre arrabbiata. –
Alla parola morte le orecchie si chiusero, sentii d' un tratto le voci e i brusii lontano. Gli occhi divennero duri e lo sguardo freddo, senti la vena del collo gonfiarsi e pulsare sulla pelle.
- Con questo monologo, voglio insegnarvi che dietro una persona arrabbiata c'è qualcuno che ha bisogno d'aiuto, qualcuno di fragile. Non dovete lasciare che vi consumino, ma se ne avete la possibilità, scavate al loro interno e aiutateli ad uscire dal tunnel. Se siete voi, ad essere arrabbiati con il mondo, sappiate che non dimostrate di essere forti, siete deboli dentro e, prima lo ammetterete, prima potrete tornare ad essere felici –
Non udii tutto il discorso, mi bastò la parola deboli per abbassare e alzare il petto irregolarmente, sentire un calore fulmineo investirmi e sentire le urla risalire lungo la trachea per essere sputate velenosamente.
- Questa – è – una – grandissima – STRONZATA! – Sbattei i pugni sulla piattaforma e un formicolio doloroso si propagò lungo le braccia. Fissavo il professore e lui fissava me, avevo gli occhi spiritati e respiravo a fatica. L'attenzione di tutti era rivolta a me, imprecai e saltai giù dalla piattaforma. Le gambe erano deboli e ad ogni passo le sentivo cedere, mi scontrai con i corpi di chi intralciava il mio passaggio e ogni urto mi causava una fitta alla spalla della quale mi nutrivo per sopperire l'ardore nello stomaco. Il professore mi urlò dietro delle parole indistinte, ma l'unica cosa che sentii mentre abbandonavo la sala era la parole debole risuonarmi nelle orecchie, la vedevo scorrere nelle vene, incastonata fra le pareti dei vasi sanguinei e bloccarsi di punto in bianco, picchiando contro di esse. Debole, mai. Il subbuglio nello stomaco si fece più violento. Debole era quel verme di Kendall, quel verme che portava disonore alla nostra famiglia e umiliava la memoria di Thomas. Debole era quel parassita di mia madre, risucchiata dai ricordi e dal dolore della perdita. Io, non ero debole, combattevo ogni giorno contro il suo fantasma, contro le colpe che mi addossavo, contro la perdita della ragione di Kendall, contro la solitudine. Io, non mi ero lasciata sopraffare, e ogni giorno rischiavo di diventare cenere con le vampate e gli incendi che s'insinuavano sotto la pelle e facevano puzzare di morte il mio cuore. Niente e nessuno, avrebbe mai potuto rendermi debole. Ero uscita dalla scuola e consumavo l'asfalto correndo, senza respirare, con il cuore che pompava nel petto e gridava ai pensieri di cessare. I capelli neri sudati e attaccati al volto, sentivo la pressione di uno sguardo addosso mentre, tagliando l'aria col corpo, cercavo di liberarmi delle ustioni interne. Il vento mi graffiava la pelle e la bocca schiusa lasciava che l'aria fredda mi seccasse le pareti della gola. Non seppi come, ma la mia mano si scontrò con una superficie trasparente e il tintinnio di una campanella risuonò alle mie spalle, mentre sorpassavo tavoli e sedie e mi precipitavo al di là della porta in fondo al locale. Solo quando la richiusi alle mie spalle e fui travolta dal silenzio, poggiata contro la parete, riuscii lentamente a riprendere il controllo del mio corpo. Tornai a vedere nitidamente, staccai le mani sudate dalla parete e me le accarezzai, l'unto sui palmi mi fece venire la nausea. Mi mancò il fiato, le tele erano sparite tutte. La stanza era completamente vuota, c'era solo una scala al centro della stanza. Che fine aveva fatto la mia unica possibilità di respirare? Le tele, i pennelli, le tempere. Iniziai a muovermi freneticamente per la stanza, scostai le tende bianche sulla destra, girai su me stessa più volte. Guardai nel magazzino, solitamente chiuso. Una serie di barattoli di vernice e poster artistici erano accatastati in un angolo, non seppi cosa fare. Senza questa stanza non avevo una via di fuga. L'impossibilità di recarmi qui ogni qualvolta ne avessi bisogno mi fece annebbiare il cervello. Il petto si strinse, il sudore sulle mani s'espanse su tutta la pelle. La testa iniziò a pulsare, tutta la stanza girava. Uscii di corsa dal magazzino e, nel tentativo di scrollarmi di dosso il peso nel petto, afferrai la prima cosa che vidi nella stanza. Mi gettai sulla scala e senza sentire sforzo a causa dell'adrenalina la scaraventai a terra. Boom. Un frastuono stridulo risuonò tanto forte che le orecchie iniziarono a rombare fino a farmi perdere la ragione. Le tappai con violenza e, improvvisamente, udii un silenzio ovattato. Lo sterno vibrava ancora a causa dei colpi che gli dava il cuore, strusciai la schiena sul muro e m'accasciai a terra. La mente era vuota e gli occhi sgranati, non mi passava alcun pensiero per la mente.
"Non ti aiuterà." Mi giunse lontano un sussurro deciso. Iniziai a tremare, ma alzai lo sguardo e un volto familiare mi riportò bruscamente alla realtà. La testa rasata, che dava a quegl'occhi grigi un'aria severa, era rivolta verso il basso, verso di me. Mi scrutava attentamente, non lo guardai dritto negl'occhi, ma lo riconobbi essere quel ragazzo visto nel bar settimane prima, quando ancora ero libera di dipingere. Lui rimase in silenzio, in attesa di una mia mossa. Il fatto che fosse lì, davanti a me, a sputare parole senza senso, m'infastidì e mi bastò per rialzarmi. Lo guardai negli occhi e tornai a sentire gli arti, il respiro si fece regolare. L'aria di sfida sostituì l'espressione spostata. Le iridi incrociate diedero fuoco all'aria, un calore ardente c'avvolse, ma lo ignorai.
- Che cosa? - Arricciai le sopracciglia mentre mi pulivo le mani sui jeans neri. Giocava a fare il tenebroso con quello sguardo cupo e l'atteggiamento misterioso.
- La rabbia, ti distruggerà e basta. - Ebbi un mancamento, ma a che razza di gioco stava giocando? Si annoiava e doveva trovare qualcuno da infastidire. Non gli diedi modo di vedere che quella frase mi aveva scosso. Restai a debita distanza, - Davvero? - Scimmiottai sarcasticamente, spostando il peso su un fianco e incrociando le braccia.
- Mh-mh. – Annuì e fece un passo verso di me, restai ferma con un sopracciglio alzato.
- Si può sapere cosa vuoi? –
- Ho solo sentito il fracasso che hai causato e sono venuto a controllare prima che il proprietario chiamasse la polizia per tentata rapina. – Scrollò le spalle come se volesse abbandonare l'aria enigmatica e risultare più naturale.
- Il signor Ethan mi conosce. –
- Conosce anche questi scatti d'ira che hai? – Mi disse in tono piatto, assumendo un'espressione annoiata.
- Ma..., - M'interruppe – Sai, so che fa paura essere arrabbiati e affrontare la situazione, ma così ti distruggi – non mi diede modo di fermarlo, si avvicinò ancora e la pelle s'incendiò. Mi toccai istintivamente il braccio e feci un passo indietro.
- Dovrest... -
- Oh e smettila di parlare! Non so chi tu sia né perché sei venuto di qua, lasciami stare. – Lo sorpassai e me lo lasciai alle spalle. Appena spinsi la porta ed entrai nel locale il calore sparì e venni investita da un freddo polare, come quando ricordavo la scena del vicolo. Ignorai gli sguardi indiscreti e il richiamo del signor Ethan, mi ritrovai lungo la Main. Street, diretta verso casa. L'ultima cosa che mi serviva era uno sconosciuto che sputava parole a raffica tentando di darmi lezioni, mi era bastato il professore di teatro quella mattina.
Il modo in cui le persone pensavano di sapere cosa fosse la rabbia e come dovesse essere gestita mi causava subbuglio allo stomaco. Giunsi a casa, percorsi il vialetto e varcai la soglia. Non appena entrai nel salotto, vidi mia madre distesa sul divano con una tazza di thè in mano e una scatola di pastiglie posata sul tavolo. Alzò lo sguardo vitreo su di me e lo riabbassò immediatamente. Feci un passo verso le scale, ma bloccai il piede a mezz'aria e roteai su me stessa.
- Sai, sono stanca di vederti su questo divano a rovinare anche la mia vita. Thomas si è allontanato da noi e Tu! – Le puntai un dito contro, lei abbassò il capo e prese un sorso dalla sua bevanda – T-t- TU NON LO HAI SALVATO, SEI STATA INUTILE! – Le urlai contro, continuava a ignorarmi, come se non esistessi. Ritrassi il dito e scossi la testa – È colpa tua se è morto, non sei stata in grado di accorgerti che tuo figlio stava svanendo piano piano. E sai una cosa? Ne stai perdendo anche un altro, sei talmente concentrata sul tuo dolore che non alzi mai il culo da quel divano e non vedi che Kendall è completamente perso! – Dissi con tono imperioso, la sua indifferenza fece sì che la tensione mi bloccasse il collo e persi le staffe nuovamente. – BASTA! – Afferrai la tazza bruscamente e il liquido bollente le cadde sulla gamba. Sobbalzò e si portò le mani sulla zona colpita, poi si contorse su stessa, sdraiandosi in posizione fetale sul divano.
- MI HAI SENTITO? KENDALL HA PERSO LA RAGIONE, SE MUORE ANCHE LUI SARÀ COLPA TUA! – Gridai così forte che ebbi l'impressione di udire i vetri rompersi, scagliai la tazza a terra e i cocci saltarono in tutte le direzioni mentre un tonfo alle mie spalle attirò la mia attenzione. Mi voltai, la sagoma di mio fratello copriva la porta e mi fissava inerme.
- Tranquilla, Rachel, ora so cosa devo fare. – Sibilò in tono sinistro e sparì su per le scale, lasciandomi sola con mia madre che parve non essersi accorta di nulla. Fu la prima volta che sentii la voce di Kendall dopo un'infinità di tempo, era diversa. Sembrava quasi in uno stato di confusione, ma consapevole. Il familiare incendio cominciò a bruciare e diramarsi fra gli organi, così sentii il richiamo dell'oscurità e uscii come se qualcosa mi avesse stregato. Passai la notte sotto il Riverwalk Covered Bridge, dove un mese prima avevo incontrato una sagoma oscura che non mi aveva intimorita, ma incuriosita. Quella notte sperai di rincontrarla, che mi parlasse, che tentasse di rapirmi per sostituire il fuoco col gelo, ma nessuno arrivò. Passai la notte a seguire la scia del fiume, lasciando le orme nel terreno, per un secondo pensai di gettarmi nel fiume per raffreddarmi, ma mi sembrò un segno di debolezza che mi fece infuriare. Mentre mi spingevo sempre più in là, oltre il fiume, ripensai alla frase sibilata da Kendall – So cosa devo fare. – Non proferiva parola da mesi e l'unica cosa che era riuscito a dire era questa, una frase priva di senso. Oscillai fra i pensieri dello sconosciuto che aveva interrotto il mio attacco d'ira e i frammenti dei polsi feriti di quella ragazza nel vicolo. Mi orientai fra questi ricordi per trovare un equilibrio fra il fuoco e il gelo, ma non lo trovai. L'unica cosa che mi permise di soffocare i pensieri quella notte, fu la presenza di un imponente edificio che mi ritrovai di fronte. Non mi ero mai spinta tanto in là oltre il ponte, seguendo le mie orme chiunque avrebbe trovato questa struttura decadente. Nella fredda oscurità comparve una colonna alta frapposta tra il fiume e un edificio rettangolare. Non vedevo quasi nulla, non c'era una stella in cielo e il bagliore della luna era così fioco che non rifletteva neanche nell'acqua del fiume. Mi sentivo piccola, ferma ad osservarla. Non avevo mai sentito di un edificio sotto i prati alti del fiume, una struttura imponente che sovrastava la quiete delle tenebre. Anzi, mi sembrò quasi che le finestre aperte, le poche che riuscii a scorgere, tentassero di risucchiare l'aria e, con essa, la tranquillità di Littleton.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top