Kāla
|| Destino, in sanscrito, vuol dire bufera.
- Non puoi prenderti beffe del destino. - Mi dicevano.
Goccioline gelide cadevano svelte dalla base della fronte, tracciando curve umide e intrise di sudore. Al contatto col mio labbro superiore, si celavano tra le pieghe dello stesso, offrendomi un sapore acre e pungente sulla lingua. L'aridità, in perfetto contrasto, risaliva lungo la mia gola, assorbendo pian piano ogni molecola di salivazione. Sentii la tensione risalire dal basso, dall'alluce del piede, attraversare le cosce molli, ascendere su per gli arti superiori e allungarsi fino ai muscoli del collo, atrofizzandoli. Oscurità. Gli occhi saettavano da un angolo all'altro, tentavano di individuare uno spiraglio di luce. Non un solo rumore si udiva, un silenzio assordante riempiva le tenebre che mi colpivano allo stomaco con una velocità agghiacciante. Uno. Due. Tre pugni potenti e decisi causavano subbuglio e trepidazione al basso ventre. Avanzavo un piede avanti all'altro lentamente, sperando di non collassare a terra per via degli arti apparentemente prolassati.
Udii uno sgocciolare lento e tonante. Qualcosa colava in quello spazio orrido e gelido. Tentai di vagare altrove con la mente, ma lo sgocciolio si intensificò e le vene si chiusero. M'imposi di focalizzare l'attenzione nello scorgere la provenienza di quel suono. Avvertii l'agitazione provenire dal tremolio delle mie dita, espandersi a ogni fibra del mio corpo. Pochi passi dopo, sentii un liquido denso sotto la suola della scarpa. Un susseguirsi di scosse violente colpirono i miei muscoli, tentai di portare a terra il mio corpo convulso, allungai due dita per capire di cosa si trattasse e le avvicinai alle narici, odorando la consistenza del liquido, il colore non mi era visibile. Un odore di ferro investì i miei sensi, il gelo penetrò nelle ossa, sfrecciò dritto verso il cuore. Un calore fulmineo calò subito dopo sulla nuca, penetrò ogni cellula esistente. Le dita si intorpidirono, il respiro si fece celere, gli occhi si spalancarono. Sangue. Una luce improvvisa travolse l'oscurità e fu lì che mi apparve davanti. Lì, inerme a terra, in una pozza di sangue, la testa forata, il colorito bianco, il corpo steso e vestito solo dei suoi lividi addosso. Puntava dritte su di me le sue iridi celesti, palpebre spalancate, pupille dilatate, sguardo agghiacciante. Pareva che, in qualche modo subdolo, mi stesse supplicando di raggiungerlo.
"Non puoi prenderti beffe del destino."
Avevano ragione.
L'assenza d'aria nei polmoni mi fece opporre alle mie angosce. Con un brusco movimento rizzai il busto tachicardico e separai le labbra così che l'ossigeno potesse circolare. Il petto s'alzava e s'abbassava irregolare, gl'occhi proiettavano fulminei e inquieti gli squarci dei ricordi negli angoli della stanza. Impiantai i palmi delle mani nel materasso; le radicai così in profondità che arrivai alle doghe del letto con l'estremità delle dita. Il bruciore allo stomaco mi permise di tornare a percepire la realtà. Pian piano regolarizzai il respiro, chiusi gli occhi e prelevai un elevato quantitativo d'aria. Cercai di riconnettermi ai miei sensi e lasciare nell'oscurità il suo fantasma. Quando li riaprii riconobbi finalmente le mura bianche della camera ove, un tempo, m'addormentavo serenamente.
Mi liberai delle lenzuola e il freddo del parquet mi punse i piedi. Rimasi con i pugni serrati sul bordo per qualche minuto, diedi il tempo all'agonia di sgusciare via per lasciar spazio all'unica emozione che coglievo da quel giorno in stato di veglia: rabbia. Sfregai le unghie sul polso destro, tentando di grattar via la sensazione di morte dalla pelle; il risultato furono solo dei graffi ben visibili e la pelle arrossata, ma non me ne fregava un cazzo. Sollevai a peso morto il mio corpo e un giramento di testa m'indebolì ulteriormente, mi diressi verso la porta del bagno, attorcigliai con forza le dita sulla maniglia e la spalancai.
Un tonfo suonò nello spazio circostante e la mia figura s'impossessò dello specchio. La stanchezza disegnava le curve del mio volto, borse viola contornavano i miei occhi nero pece e la secchezza era la nuova peculiarità delle mie labbra piene. Lo sguardo perso faceva d'accompagnatore alle palpebre pesanti e da assistente alle vene del collo pulsanti. Le lunghezze scure come gl'occhi erano arruffate e spente, giungevano al seno sporchi e gonfi. L'unico punto di luce rimasto nella mia vita brillava sul naso a patatina: il nostril. Il mento stretto e gli zigomi segnati, uguali ai suoi, avrei voluto strapparmeli via. Mi voltai verso la doccia e aprii al massimo il getto ghiacciato, spogliai del tutto il mio organismo poco nutrito ed entrai. Il flusso potente provocò sofferenza agli arti, come se l'acqua fosse grandine che, colpendo i lembi di pelle, potesse essere in grado di spegnere il rogo interiore. Questo era il motivo del perché non bagnavo il mio torso con acqua calda da quell'evento, supplicavo il freddo di congelarmi. Strofinai insistentemente sull'epidermide, cercando di strapparla via insieme alle memorie. Quando m'accorsi che ciò non avrebbe funzionato, mi costrinsi a uscire.
Un'infinità di goccioline colavano contendendosi il traguardo; il pavimento. Afferrai lo spazzolino, lo posi nella cavità orale e sfregai sui denti, cercai di eliminare i residui del sapore di ferro appartenente all'incubo della notte appena trascorsa. Ottenni come risultato il sanguinamento delle mie gengive e un dolore atroce ad esse, sputai e un rivolo di sangue colò nel lavandino. Proprio in quel momento l'immagine di quando trovammo il corpo disteso a terra nella sua camera, avvolto in una pozza di sangue, si fece ben chiara d'innanzi a me, come se la stessi vivendo in quell'istante. Ero appena tornata dagli allenamenti e trovai mia madre sulla soglia di casa ad aspettarmi.
Quando entrammo in casa Kendall non era rientrato e Thomas, il fratello minore tra i tre, sarebbe dovuto essere a casa come ogni mercoledì. Mia madre chiamò il suo nome per chiedergli di aiutarla a preparare la cena, nel frattempo ero salita in camera mia. Non ricevette risposta da mio fratello, sentii i passi pesanti di mia madre sulle scale riempire il corridoio. Quando al cigolio della porta seguì un grido acuto e disperato mi recai preoccupata e rapida nella stanza di Thomas, fu lì che il tempo si fermò e percepii ogni fibra corporea gelare, brividi violare i miei confini e i muscoli paralizzarsi. Tappai la bocca, tutte e cinque le dita ben dischiuse pungevano il labbro inferiore; lacrime amare scivolarono lungo le guance e una voragine lacerò i tessuti del mio stomaco.
M'accasciai a terra e, con la vista appannata, sollevai il mento. La scrivania rovesciata, il sangue secco accerchiava la sua corporatura esile al centro delle mura, i capelli neri arruffati, il foro scavato nel cranio. Gli occhi limpidi e chiari aperti tendevano verso il basso, seguii quella traiettoria con lo sguardo e individuai una beretta M35 giacere accanto alla sua figura. Roteai il collo verso mia madre; indietreggiò fino ad appiattire il corpo alla parete, il volto cinereo tremava, pupille dilatate e sguardo irrequieto seguivano gli ansimi continui. Portai le ginocchia al petto e tentai di sfiorarle una mano, appena la toccai la ritrasse e diede il via a una camminata agitata, avanti e indietro per la stanza. Non riuscii a seguire la sua figura consumare il pavimento, posai nuovamente lo sguardo sul suo corpo inerme e il tremolio riprese. Le viscere premevano sul petto causando un male lancinante. Ad oggi, non sono ancora in grado di spiegare come rinvenni a tal punto da porgere la mano nella tasca della tuta, estrarre il cellulare e chiamare i soccorsi. Dinanzi agli occhi riapparve la colata rossa nel lavabo, ripresi coscienza.
Completamente nuda mi voltai verso la porta e strinsi nuovamente le mani attorno alla maniglia per aprirla. Le pareti bianche spoglie parvero tremare all'arrivo del mio passo pesante, il letto matrimoniale giornalmente sfatto; la coperta grigia arrotolata e le lenzuola bianche calate a terra; camera mia rappresentava perfettamente il mio disastro interiore. Le dita dei piedi percepirono un formicolio, entrai a contatto con il tessuto soffice del tappeto e mi diressi in fondo alla stanza. Aprii le ante dell'armadio e afferrai un jeans nero con una felpa del medesimo colore. Una volta indossati, lanciai un'occhiata di traverso all'uscita. Non avevo spirito per imbattermi in Kendall e nel suo volto cadaverico, dunque sperai con tutta me stessa che si fosse dileguato in anticipo quella mattina.
Rachel, Kendall e Thomas questo era il nostro ordine di nascita, o meglio, in quel momento non poteva essere altro che quello. Una volta eravamo una tela ritraente tre storie fuse fra loro; tra un sorriso ed un sospiro, formavamo un dipinto meraviglioso. Almeno finché Thomas non compì sedici anni e iniziò a distaccarsi da entrambi. Né io né Kendall riuscimmo a farlo parlare per mesi: era scattante, costantemente sull'attenti, furtivo. Finché accadde la tragedia che le autorità archiviarono come suicidio. Forse fu per questo che Kendall diventò così dalla sua morte, non riuscì ad accettare il fatto di non esser stato in grado di prevedere suo fratello minore. Si sentì impotente d'innanzi al fato, credette di aver mancato al suo dovere: proteggere chi più debole di lui. Beh, a dir la verità, non me ne fregava un emerito cazzo del motivo, sapevo solo che lo detestavo con tutta la mia anima. Teneva lo sguardo fisso nel vuoto, non proferiva parola da mesi, non s'accorgeva di nulla. Si era trasformato.
Ogni componente della famiglia s'era estraniato da ogni persona o eventi circostanti, ma Kendall s'isolò completamente. Le poche volte che dalle sue labbra fuoriuscivano parole, queste erano prive di senso, interposte fra pause lunghe che facevano il silenzio protagonista della mia attenzione. Oramai, le rare volte in cui gli strappavo un suono dalla bocca, lo aggredivo perché sapevo di aver perso anche lui. Forse lo facevo per provare a mantenere un contatto vivo e lui non me ne dava modo. Per questo, iniziai a sminuire le poche frasi che pronunciava, ad alzare gl'occhi al cielo se mi passava vicino. Ogni qualvolta ne avevo l'occasione lo schernivo e sbuffavo alle sue gesta spente. Gli gridavo contro, all'inizio gli battevo i pugni sul petto senza ricevere reazione, prendevo a calci gl'oggetti che ci circondavano se non mi degnava di uno sguardo.
L'odiavo, l'odiavo con tutta me stessa. Dunque, quel mattino più degli altri non volli incrociare il suo volto spossato. M'affacciai col collo fuori dalla stanza per monitorare eventuali movimenti. Mi investì un sordo silenzio, tutto parve tacere. Sgusciai fuori dalla porta e la feci sbattere violentemente. Il boato riecheggiò nel corridoio e lasciai che attraversasse anche il mio corpo. Percorsi il sentiero di legno scricchiolante che mi avrebbe portato al piano inferiore, una volta presa visione dell'ampio salone continuai a vagare con lo sguardo alla ricerca dei capelli neri di Kendall, nulla. Rimasi qualche secondo immobile a scrutare le pareti beige, fin quando la figura stesa di mia madre sul divano attirò la mia attenzione. Un'altra apatica del cazzo. Non riuscivo a pensare ad altro che al modo in cui Kendall e mia madre avevano deciso di reagire; facevano sembrare la nostra una famiglia di persone fragili, ma io non lo ero mai stata. Se ne stava lì, le gambe stese, i capelli arruffati, la mano poggiata sotto al mento. Sembrava mi stesse studiando con quell'espressione fiacca in volto, mi chiesi se le aleggiasse ancora qualche pensiero in testa. Sul tavolino d'innanzi a lei vi erano delle pastiglie sparse, chissà che merda le avevano prescritto.
Invece di aiutarla, qualcuno le aveva diagnosticato non so cosa e prescritto farmaci che la rendevano praticamente un automa. Era sempre stata una donna debole, con poco carattere e incredibilmente fragile, ma ora era un fottuto cadavere, senza anima come suo figlio. Il trillo della sveglia telefonica mi fece trasalire, sobbalzai e lo estrassi dalla tasca. Pigiai imprecando il tasto Off senza risultati e scaraventai il dispositivo a terra. - E che cazzo! - Strepitai, piegandomi a recuperarlo. Il rumore era scomparso, ma afferrati i laterali dello schermo percepii la ruvidità dei graffi sotto i polpastrelli. Lo girai e comparvero le rigature. Imprecai digrignando i denti. Serrai gli occhi e con le narici larghe sospirai profondamente. Inserii il cellulare nella tasca posteriore dei jeans e decisi di andare in cucina. Girai attorno al divano e a mia madre, giungendo all'arco quadrato che separava il salotto dall'area ristoro. Non appena misi piede sulla soglia, la figura prestante del diciassettenne di casa mi oscurò la vista dal resto della stanza. Nonostante fosse un anno più piccolo di me, Kendall sovrastava completamente la mia corporatura. Teneva le spalle curve e la testa china, delle borse viola sotto gl'occhi preannunciavano l'ennesima notte insonne.
-Spostati. - Ordinai e non esitò ad ubbidire. Non appena spostò il suo corpo al lato emisi una risata sarcastica - Sei...sei un verme...ecco cosa sei. - Sputai fredda, trasformando il sarcasmo in crudeltà. Cercai una reazione nei suoi occhi, ma non feci in tempo ad alzare lo sguardo che Kendall abbassò il capo per passare sotto l'arco trascinando i piedi, si dileguò senza mostrare alcun segno di interesse per le lame che avevo cercato di infliggergli. Mia madre e Kendall erano diventati impassibili a ogni possibile stimolo, l'unica differenza è che a lui non era stata diagnosticata nessuna malattia. Non sapevo più chi avessi in casa mia, l'unica cosa di cui ero certa, è che il bruciore costante m'accecava la vista. Avanzai in cucina, sul lato sinistro vi erano i fornelli, il frigorifero e i banconi in sequenza.
D'innanzi a me si estendeva una parete bianca con delle fotografie e un orologio. La mia attenzione venne catturata dalla foto di Thomas in un luogo che non avevo mai visto, non sapevo perché l'avesse attaccata ne chi gliel'avesse scattata. Il suo viso delicato era ritratto serio, con un luccichio negli occhi alquanto inquietante. Sfiorai il suo naso a patata, ma non appena percepii una serie di piccole scariche elettriche sotto il polpastrello lo ritrassi immediatamente. Strinsi i denti sul labbro inferiore e premetti la punta del dito sul tavolo per far scaricare il dolore - Diamine. - Sollevai il mento e incontrai le lancette dell'orologio che segnavano le otto. Perfetto, il mio piano stava andando esattamente come avevo deciso. Sarei arrivata in largo ritardo il primo giorno di scuola, così come tutti i successivi, ma specialmente quel giorno, per non dover subire le occhiatine della gente o le loro frasi di compassione. Avrei affrontato l'ultimo anno col menefreghismo come accompagnatore e con l'indifferenza come guida; mi sarei sottratta a sguardi, parole e giudizi. Questo era il mio intento e così doveva essere, niente e nessuno in mezzo. Solo io e il fuoco ardente. Levai lo sguardo dalle lancette e mi voltai verso il lavello, aprii lo sportello sopra di esso contenente i bicchieri. Il freddo del vetro entrò in contatto con il palmo della mano, aprii l'acqua e riempii il boccale. Bevvi un sorso e decisi che me lo sarei fatto bastare per il resto della giornata. Aggiunsi il bicchiere usato alla pila di piatti sporchi nel lavabo e mi voltai, attraversai il salone e sorpassai mia madre ancora stesa.
Le lanciai uno sguardo di traverso e aprii la porta d'entrata, lasciai che il vento di settembre la trascinasse fino a chiudersi con un tonfo. Afferrai gli auricolari nel marsupio della felpa nera e li inserii, una volta detestavo camminare con le orecchie tappate. Mi piaceva andare a scuola con calma, lasciando che le risate con i miei fratelli mi riempissero l'animo. Altre volte amavo fare una passeggiata lenta, da sola, lasciare che l'arietta mattutina mi soffiasse in volto, ascoltare il sottofondo dei cinguettii, osservare le stradine colorate di Littleton, la nostra città. Alcune mattine, più molte che alcune, uscivo presto e mi perdevo fra le domande mentre guardavo le persone compiere le loro azioni. Divagavo, inventandomi le loro storie.
In quel momento, invece, non me ne importava assolutamente nulla della storia di nessuno, nemmeno della mia. Il sottofondo musicale mi distrasse, lasciai che le mie gambe percorressero autonomamente le strade familiari e sconosciute allo stesso tempo. Percorsi le vie del centro, i passanti mi parvero tutte anime perse ed io non ero interessata a capirle. I negozietti contornati dalle mura colorate portavano avanti la loro attività senza che io potessi leggere oltre e vedere la loro passione. I miei occhi scattarono verso l'insegna del luogo, l'unico, dove potessi dare libertà al nodo centrale del cuore, ma non diedi attenzione a quel desiderio. Mi soffermai sull'insegna spenta e mi chiesi perché i tavoli all'esterno non fossero aperti o perché il tendone con il dipinto sopra fosse chiuso. Pochi secondi dopo la vetrina si riempì di goccioline che correvano rapide al suolo, raggiunsero presto anche il mio corpo. Mi lasciai colpire, percependo i tessuti bagnarsi e la pelle inumidirsi, attesi che trascinassero con loro al suolo anche i miei incubi, ma non sentii sciogliere le cellule tese. Dunque, chiusi e riaprii le palpebre qualche volta; ripresi lucidità, continuai ancora qualche metro e girai l'angolo che mi separava da uno dei tanti luoghi dai quali sarei voluta stare lontana. Eccolo lì, un alto e imponente cancello verde spalancato per invitare gli studenti a sorpassarlo. Ebbene sì, mi toccò farlo.
Il cortile deserto mi riportò al primo giorno di scuola superiore di Thomas e successivamente anche quello di Kendall. Il giorno in cui quest'ultimo fece il suo ingresso al liceo io avevo solo un anno in più di presenza in questo posto, gli feci poco da guida e da mentore. L'ingresso di Thomas al Rent High School, invece, fu totalmente diverso. Io ero già al terzo anno, lui si sentiva così smarrito che mi chiese di fargli vedere ogni angolo della struttura per impararla a memoria. Arrivammo sotto al portico, in una giornata limpida e solare. Aveva il volto fisso verso l'entrata, la bocca schiusa e le pupille dilatate. Deglutì e sbatte le palpebre frequentemente. Restò immobile e pose il capo verso il basso. Feci un respiro profondo, gli strinsi il viso tra le mani e puntai i miei occhi dritti nei suoi.
- Ehi ehi ehi, perché hai tutta questa ansia Thom? - La sua espressione mi provocò un risolino; le labbra erano sovrapposte a causa della pressione della mia stretta sulle guance, i suoi occhi spalancati e le sopracciglia innalzate.
- Perché il liceo è una giungla R e io sono un piccolo agnellino che verrà mangiato dai lupi. - Disse con voce strozzata.
- Ricordati che tanti dei lupi sono miei amici e nessuno toccherebbe mai il mio fratellino, non lo permetterei, capito Thom? Ci sono solo due cose da fare per sopravvivere al liceo. - Rimossi una delle mani dalle sue guancia e feci il segno del numero uno con il dito. - Non fare lo scemo. - Feci una breve pausa e segnai il numero due con le dita. - Ma sii te stesso. Adesso dammi un forte abbraccio, fa un bel respiro e ti accompagno alla tua classe. Da lì in poi, starà a te ma io sarò nell'aula accanto. - Cercai di incoraggiarlo e misi il braccio dietro al suo collo, portandolo avanti verso le scale.
- Ma che diavolo significa R? –
- Non preoccuparti piccolo Thom, non preoccuparti. - Risi ancora per via della sua espressione confusa, le risate delle persone alle nostre spalle sfumarono via come quel ricordo. Al mio rientro dell'ultimo anno sarei dovuta essere come le ragazze che anni prima sedevano al muretto giallastro, come quelli poggiati sulle scale a fumare, oppure come i ragazzi del primo anno spensierati e terrorizzati. Contrariamente, la mia anima era rinchiusa in un silenzio che però parlava fin troppo. La verità è che dentro ero morta, insieme a lui. Affogai i ricordi strizzando i capelli sotto il portico della scuola, percorsi i gradini lentamente e varcai il portone. L'atrio era ampio e dipinto d'azzurro, normalmente, questo colore m'avrebbe dato un'energia sorprendente, ad oggi mi risultava anonimo come ogni altro dettaglio. Darsy, la bidella dentro al gabbiotto, mi osservò attentamente, indecisa se arrabbiarsi per il mio ritardo o farmi le condoglianze. Un fascio di nervi s'arrotolò sotto la pelle, le dita si strinsero tra loro e le narici s'allargarono.
- Darsy, puoi stare tranquilla, non me ne frega un cazzo della compassione. Segnami il ritardo. - Sputai sorpassando il gabbiotto. Una lunga schiera di armadietti contornava entrambi i laterali dell'ampio corridoio. Proseguii fino alla metà e sulla destra individuai il mio, avrei dovuto trovare al suo interno una pila di libri lasciati lì, ma non ricordavo esattamente quali. Afferrai tra l'indice e il pollice il tastierino per aprirlo, tentai di inserire il codice, ma il dispositivo segnalava errore. Tentai nuovamente, ancora errore. Adesso? Sul serio? Lanciai il lucchetto contro lo sportello e affondai i denti nel labbro inferiore contemporaneamente alla diffusione del rumore in corridoio. Irrigidii le braccia lungo i fianchi, flessi le dita e percepii la contrazione della palpebra inferiore. Un torpore improvviso m'investì e avvertii la collera arrivare. Spostai lo sguardo a terra e vidi il piede sinistro puntellare sul pavimento. Ero sul punto di alzare la mano e sferrare quanti più pugni possibili all'anta di metallo, quando uno schiamazzo attirò la mia attenzione. Mi voltai e intravidi alla fine del corridoio tre ragazzi.
Le sagome non mi furono chiare, riuscii a intercettare dei movimenti bruschi compiuti da due di loro, il terzo pareva inerme. Mossi i piedi nella loro direzione, quanto bastava per avere una visione più ampia. Mi appoggiai al muro e osservai silenziosamente. Le due figure predominanti avevano immobilizzato la terza con le spalle al muro, impedendomi di identificarla. Gli aggressori mi davano la schiena, possedevano due spalle ben piazzate e superavano in altezza anche il ragazzo sollevato in aria. I capelli ricci di entrambi venivano spostati dall'aria ad ogni gesto. Il ragazzo a sinistra afferrò il colletto della vittima, ridusse il tessuto in un groviglio con una morsa stretta. I piedi del ragazzo non toccavano più terra, il suo corpo si fuse con il muro, ma non riuscii ancora a capire chi fosse. Dopo una serie di spostamenti, riconobbi Mason, uno studente dell'ultimo anno come me. Alzò il gomito destro verso l'alto, congiunse le dita e sferrò una serie di colpi violenti allo stomaco della vittima. I nervi frenici mi sollecitarono ad intervenire, ma fiorì una presenza sulla spalla per sussurrarmi che non doveva esser affar mio. Deglutii e sbattei le palpebre velocemente, inalai quanta più aria possibile e sentii il petto gonfiarsi. Percepii l'ossigeno picchiare sullo sterno ed espirai profondamente. Non seppi se intervenire o meno, ma ogni mio dubbio scomparve quando il corpo di quel ragazzo si piegò verso il basso e intravidi dei lineamenti familiari. Il naso a patata arricciato dal dolore distraeva dalla morsa dentale sulle labbra. Lo scintillio dell'orecchino mi diede la conferma, la vittima era Kendall.
M'avvicinai poco più e il sangue si gelò quando m'accorsi che il suo viso mancava di espressione. Tirò su il busto e puntò lo sguardo dritto e vuoto negli occhi di Mason, non vi era alcuna traccia di timore nella sua espressione. Disinteresse. Mimica facciale assente, distaccato e freddo come lo era stato quella mattina con me. Le braccia stese a peso morto e il capo sorretto per miracolo. Il ragazzo a sinistra lo teneva ancora stretto per il tessuto, la sua passività doveva aver suscitato l'ira di Mason perché tutt'un tratto colpì Kendall con una serie di percosse cariche e incontrollate.
Uno.
Due.
Tre.
Li sentii uno ad uno, lo stomaco pulsare, la testa girare. Il rimbombo del metallo sostituì il silenzio. Delle fitte intermittenti mi provocarono un dolore pungente, mi parve di rivivere la sensazione della notte precedente. La vista s'annebbiò, per un secondo pensai che Thomas mi stesse chiamando a sé, ma la vista del volto inespressivo di Kendall mi permise di riacquistare lucidità. Le contrazioni furono sostituite dai conati di vomito, le labbra schiuse si storsero in una smorfia di disgusto e le sopracciglia alzate ripresero la loro posizione naturale. Socchiusi gl'occhi, arricciai il labbro superiore e mi toccai la pancia con la mano per provare a sopperire il subbuglio causato da Kendall. Il disgusto provato nei confronti del suo atteggiamento sovrastò la nostra connessione.
Il ragazzo a sinistra, che riconobbi essere Joseph, mollò l'indumento di Kendall e il suo corpo precipitò a terra con una potenza non indifferente. Il suo viso si schiantò con il pavimento gelido e la testa sobbalzò un par di volte. Il corpo convulso e dolorante contrastava con lo sguardo vuoto, Mason sputò sul capo e un rivolo di saliva gli colò sulla guancia. Joseph premette con intensità la suola della scarpa sul suo sterno e il volto di Kendall divenne cadaverico. Mason esordì con una risata meschina e diede una pacca a Joseph per indicargli di andarsene. Quest'ultimo si piegò e sferrò un ultimo colpo sul ventre di mio fratello.
Sbuffai, le labbra schioccarono e incrociai le braccia al petto. Una scarica di brividi corse lungo la schiena, segno del disprezzo che provavo per Kendall. Quella figura sdraiata a terra vulnerabile e remissiva non era il ragazzo spavaldo e brillante che consideravo la mia metà mancata. Quello lì era il residuo d'un'anima frantumata dal destino, colui al quale nessuno può sfuggire, nemmeno io. Non ce l'avevo con Kendall per la morte di Thomas, ma perché divenendo lui una scheggia di vetro in un mondo di metallo aveva permesso anche a me di cedere all'oblio. Proseguii a passo lento con la postura curva verso di lui, trattenni il respiro per provare a bloccare il veleno che stavo per rilasciare, ma non ci riuscii. Nel corridoio dominava il silenzio e lo struscio della scarpa pareva graffiare lo spazio circostante. Dita ferme, sguardo attento ad ogni cenno, andatura marcata. I capelli solleticarono le guance quando mi chinai per raggiungerlo. Una mano posata sul ginocchio e l'altra adiacente al suolo gelido. Scrocchiai le dita quando Kendall rivolse il capo verso di me, dietro l'inerzia si celava il dolore e dietro la tempesta si celava l'amore, ma alcuno di noi era disposto a rivelarsi.
- Alzati. - Sibilai secco, a denti stretti. Puntai il mento in alto e lo guardai di traverso, i miei occhi neri si fusero per un impercettibile secondo con i suoi del medesimo colore, poi riprese ad osservare dinnanzi a sé. Fu lì che sentii i tendini irrigidirsi e bloccare il movimento alle articolazioni, captai il formicolio risalire il collo, le vene pulsare e il petto ansimare. La sensazione pungente che solitamente precedeva lo scatto d'ira stava per raggiungere la punta della lingua, la sentii risalire lungo la gola e premere sulle labbra. Proprio in quel momento, un trillo assordante colmò il vuoto, ripresi a vedere chiaramente e i tendini si stesero, permettendo alle gambe di riportarmi in piedi. Il suono mi parve ancora un po' ovattato, spostai lo sguardo tentando di capire cosa stesse succedendo, ma feci difficoltà.
M'accorsi che di Kendall non vi era più traccia e una quantità infinita di sagome diede inizio ad un veloce via via. Il cambio dell'ora. Non mi sarebbe convenuto restare lì perché avevo appena rischiato un attacco di rabbia. Cercai di individuare il più velocemente possibile uno spazio per passare o una porta facilmente raggiungibile. Mi guardai attorno nella confusione con la vista appannata e ne intravidi una verde sul laterale destro del corridoio, diedi il via alla mia missione e mi feci largo tra la gente. Ad ogni spinta susseguiva un lamento. Avvertivo sotto la punta del gomito la rigidità delle costole o il tessuto morbido di uno stomaco. Occhiate di traverso e gemiti tracciavano il percorso verso la porta. All'ennesimo colpo giunsi debole alla soglia, circondai con una morsa stretta la maniglia e la tirai su e giù violentemente.
Chiusa. Imprecai. Pressione sul petto. Vista offuscata.
Nell'esatto momento in cui la mano abbandonò il metallo e un formicolio risalì su per le gambe, la porta s'aprì e delle dita mi afferrarono. Fui trascinata dentro. Un'accecante luce bianca mi disorientò maggiormente. Sentii una pressione sulla spalla destra che mi spinse a terra. La schiena s'appiattì contro il muro e le gambe s'avvicinarono al petto.
La luce bianca scomparve, udii il lamento di mia madre ed ebbi la sensazione d'esser tornata al ritrovo del corpo. Battito cardiaco irregolare. Respiro pesante. Gocce di sudore colare dalla fronte. Tremore. Non ebbi più controllo. È morto. Caso archiviato. Lasciami perdere. È colpa tua. Brusii su brusii si sovrapposero fra loro; si fecero strada in tutto il corpo e m'aspirarono la voce, sentii l'aria mancare, la gola chiudersi. Dilatai le pupille e portai entrambe le mani sulla gola. Andrà tutto bene. Non sta bene. Sei mia sorella. Palpitazioni al torace e brividi presero possesso del mio corpo. Un calore m'investì e risalì lungo la trachea per restituirmi la voce rubata. La pressione aumentò ed io esplosi in un urlo assordante che lacerò gli spazi circostanti. Luce bianca. Un vortice attorno a me tentò d'inghiottirmi. L'energia m'abbandonò progressivamente arto dopo arto. Le palpebre si chiusero e il torace scivolò a terra. Una mano si porse per sorreggermi, ma al contatto con essa io persi sensibilità e non vidi più nulla.
****
Una quiete naturale m'avvolgeva dolcemente, brusii dissipati e dolori scomparsi. Schiusi gradualmente le palpebre e l'ambiente riprese colore. Una parete color crema si palesò d'innanzi a me, rivestita di locandine mediche e poster ritraenti il corpo umano. Mi ci volle un po' per rendermi conto che i miei arti erano stesi. Roteai il collo e intravidi due figure accanto a me voltate di schiena. La sagoma a destra indossava un camicie azzurro e quella a sinistra un completo nero. Rimasi ancora in silenzio perché udii le due avviare una conversazione.
- Miss. Jamil potrebbe spiegarmi come ha trovato la ragazza? Devo compilare il modulo per registrare la sua presenza in infermeria. - Compresi che a esplicitare la richiesta fu l'infermiera della nostra scuola e che a trovarmi dovesse essere stata una delle mie professoresse.
- Ero nel bagno degli insegnanti quando ho sentito qualcuno attaccarsi alla maniglia e forzarla per entrare, mi sono preoccupata perché la persona al di dietro non sembrava ricevere le mie risposte. Così ho aperto velocemente e ho trovato la signorina Amirson nel panico. L'ho portata all'interno della stanza e l'ho fatta sedere a terra, ho tentato di parlarle, ma non recepiva alcun segnale. Credo abbia avuto un attacco di panico, mi perdoni Miss Farin, non so dire con esattezza cosa le sia successo. Era davvero spaventata e assorta in un mondo a parte. Poi ha perso i sensi e l'ho portata subito qui. –
La mia professoressa concluse il racconto ed io iniziai ad innervosirmi all'idea delle numerose domande che m'avrebbero potuto porre. Sollevai il busto e il lettino scricchiolò attirando l'attenzione di entrambe le donne. Si voltarono verso di me e i nostri sguardi s'incrociarono. Miss. Jamil venne verso di me e avvolse le braccia intorno al mio corpo. M'irrigidii all'istante e non contraccambiai il gesto. La mia professoressa se ne accorse e si distaccò immediatamente.
- Rachel, come stai? Mi sono preoccupata tanto. Cos'è successo? - Miss Jamil è sempre stata gentile con me negli anni precedenti, l'unica professoressa che teneva davvero ai suoi studenti. In passato anche per me lei era un punto di riferimento, ma dopo gli avvenimenti a seguire avevo capito che nessuno poteva rendere il destino meno doloroso, neanche la persona più amorevole dell'universo. La osservai qualche secondo prima di risponderle, aveva i soliti tratti delicati sul volto contornato da un caschetto bruno che le donava un'area sofisticata e sbarazzina allo stesso tempo. Mi schiarii la gola e mi decisi a risponderle.
- Senta Miss Jamil grazie per avermi soccorsa, ma non ho nessuna voglia di parlare di quello che è successo. - La donna di fronte a me assunse un'espressione di stupore per la mia risposta fredda, ma intravidi nel suo sguardo anche compassione. Sicuramente era a conoscenza di ciò che era successo alla mia famiglia e avrebbe voluto pormi le sue condoglianze. Era intelligente ed empatica, in grado di capire che non era ciò che mi serviva e che mi avrebbe solo infastidito. Mi porse un sorriso delicato che non mi sentii di ricambiare.
- Signorina Amirson, le ho somministrato dei medicinali leggeri per reintegrarle alcune sostanze energetiche. Nonostante sia il primo giorno di scuola, e deduco che lei non abbia seguito alcuna lezione, credo sia il caso che se ne vada a casa. È rimasta priva di sensi per circa due ore e ormai è quasi ora di pranzo. Non so cosa le sia successo, ma la professoressa mi ha riferito di averla trovata in una specie di assortimento. Deve andare a riposare, qualcuno può venire a prenderla? - Intervenne l'infermiera Farin. Scossi il capo non appena pronunciò l'ultima frase e saltai giù dal lettino.
- No assolutamente no, non può venire nessuno. Me la caverò, grazie. - Entrambe mi seguirono con lo sguardo mentre m'incamminai verso l'uscita. Stavo per abbassare la maniglia quando la voce dell'infermiera m'interruppe.
- Signorina. - Congelai il movimento e rimasi immobile. Temetti che volesse insistere nel sapere cosa fosse successo o nel farmi accompagnare a casa, iniziai ad avvertire la gola chiudersi, ma scossi il capo per cacciare via quella sensazione opprimente.
- Deve prendere il permesso o non la faranno uscire. - Espirai l'aria che avevo trattenuto e roteai il corpo all'indietro. L'infermiera puntò il braccio verso di me con il foglio in mano e mi sollecitò a prenderlo, spostai lo sguardo sulla professoressa che mi osservava apprensiva. Allungai una mano e afferrai il permesso senza proferire parola. Non osai guardare negli occhi nessuna delle due e uscii finalmente dalla stanza. L'infermeria era dall'altro lato della scuola e dovetti percorrere il lungo corridoio prima di trovarmi all'ingresso, sbattere violentemente il foglio sotto gli occhi di Darsy e attraversare il più rapidamente possibile il cortile.
Non appena attraversai il cancello lo stomaco s'attorcigliò, percepii una sensazione indefinibile e qualcosa nell'aria cambiò, ma non seppi dire cosa. Continuai a girovagare per le strade di Littleton finché non mi ritrovai per le vie colorate del centro come quella mattina. Ebbi modo di riflettere su ciò che era successo poche ore prima. Gli attacchi di rabbia erano all'ordine del giorno da quando Thomas se ne era andato. Vivevo ogni secondo con un assiduo peso sul petto o col formicolio fra le dita, col rischio d'esplodere da un momento all'altro, ma non mi avevano mai colpito sintomi del genere. Mi ero sentita tirare all'indietro, come se qualcuno avesse voluto trascinarmi chissà dove.
Non ebbi neanche modo di pensare ad una spiegazione, la mente mi giocò un brutto scherzo. L'immagine di Kendall a terra si fece chiara nuovamente e mi chiesi se qualcuno lo avesse trovato. La nostra scuola era talmente grande che ci si sarebbe potuti nascondere per anni. Forse ne avrei tratto giovamento, il suo volto non faceva altro che ricordami il passato. Kendall mi aveva abbandonata, aveva lasciato andare quel che eravamo ed io non sarei stata disposta a perdonarlo. Il modo in cui si era lasciato colpire m'aveva schifato talmente tanto che non riuscii a provare per lui alcuna compassione. Nel tentativo d'arrancare verso casa, con ancora il lieve effetto dei medicinali in corpo, udii una dolce melodia provenire da una delle stradine del centro.
Erano anni che non la sentivo. Le gambe la seguirono senza alcuna direttiva da parte mia, svoltarono un paio di curve e poi giunsero alla via principale. All'angolo era posizionato un pianoforte bianco, in perfetta sintonia col celestino della parete su cui poggiava. Misi una mano sullo stipite d'una porta e mi tenni a debita distanza. La melodia proveniva da alcuni tasti sui quali una donna posava le sue dita. Ebbi un mancamento e ai miei occhi quella donna prese un'altra forma, quella di mia madre.
Le note proseguirono e dinnanzi a lei apparvero tre piccole sagome. Osservavano le veloci e sottili mani che fluttuavano sui tasti. L'immagine si fece via via più chiara e m'accorsi che eravamo io e i miei due fratelli da bambini. Kendall aveva appena tre anni e teneva Thomas per mano, fissavano entrambi la mamma e ondeggiavano il corpo seguendo la melodia. Indossavano entrambi un paio di jeans chiaro e una camicetta celestina abbinata. La mamma li aveva vestiti in modo molto simile. Scorsi poi la piccola me, ammiravo i miei due fratellini dolcemente.
La mamma mi aveva detto che avrei dovuto controllarli mentre lei ci donava la musica. Indossavo una gonnellina bianca e una magliettina azzurra. I miei capelli erano legati con due codini fermati da fiocchi bianchi che contornavano il mio viso delicato. Ero così felice della mia famiglia da bambina. Il rintocco finale della musica suonò e le tre figure scomparvero. La donna si voltò e abbracciò sua figlia rannicchiata accanto a lei. Le persone ripreso a camminare dopo averle applaudito qualche minuto. Percepii la pelle inumidita e tolsi la mano dallo stipite per posarla sulla guancia.
Quando i polpastrelli entrarono in contatto con la pelle m'accorsi che l'umidità era causata da alcune goccioline; lacrime. Non volli fermarmi un secondo di più. Sfregai con la manica della felpa nera sotto gl'occhi e sorpassai velocemente il pianoforte. Proseguii rapida per la via principale, finché i muri costellati di scritte troppo vivide mi furono lontani. Mi lasciai alle spalle Main Street come m'ero lasciata il passato sepolto senza essere affrontato. Imboccai la via di Mapple Street e un susseguirsi di contorni verdi si fece testimone della mia corsa.
Se non avessi avuto la suola delle scarpe a far da scudo fra la pianta del piede e l'asfalto avrei sentito l'epidermide bruciare. I battiti si fecero celeri. Il cancello di casa si fece più vicino e quando m'accostai ad esso ebbi necessità di posare le mani sulle ginocchia per tentare di calmarmi. Inalai una gran quantità d'aria e lasciai che scorresse per le vie aeree più volte. Chiusi gl'occhi e sentii l'aria pungere i polmoni. La sensazione d'esser punta mi diede la forza di aprire la mano e frugare nelle tasche della felpa. Le dita tremolanti toccarono il tessuto morbido fino ad incontrare il gelido metallo appuntito.
Presi il mazzo e inserii la chiave nella serratura con fatica, corsi lungo il viale contornato da rocce e giunsi alla porta d'ingresso. Il tremore s'espanse per tutto il braccio, varcai la soglia di casa e la mano s'aprì all'improvviso lasciando cadere le chiavi. Un tonfo riempì l'androne. Restai inerme a fissare il tremito quando sentii le pareti umide della gola stringersi di colpo. Ebbi l'impressione che i medicinali somministrati l'ora precedente avessero già fatto il loro corso, dunque il veleno s'era nuovamente propagato dentro le vene. La debolezza che m'aveva investito qualche ora prima era tornata, la forza mi venne rubata ancora una volta dalla cavità nel petto. Le sagome dei mobili si fecero opache fin ad eclissarsi completamente. Tracollo. Atro.
***
Un tessuto morbido solleticava la cute, il palmo della mano destra posava sul cuscino in posizione obliqua. Era indolenzita. Tale dolore mi permise di svegliarmi e di prendere coscienza di cosa fosse successo nelle ore precedenti. Aprii gl'occhi e intravidi il nero nella stanza. S'era fatta sera. Sollevai il mio corpo dal materasso e mi misi a gambe incrociate. Un dolore pulsante colpì la parte superiore del capo, portai la mano destra sul punto dolente e inaugurai le nuove fitte con una serie di smorfie amare. Le palpebre serrate, le labbra compresse, il naso arricciato. Un panno stretto avvolgeva le cosce, m'accorsi di indossare ancora la felpa e i jeans neri di quella mattina. Tentai di alzarmi dal letto, stropicciai le lenzuola più di quanto già fossero e riuscii a mettermi in piedi. L'ultima cosa che ricordavo era la mia entrata in casa e uno dei miei soliti problemi. Come ero arrivata in camera mia? Mi mossi verso la porta, ma qualche passo dopo le punte dei piedi intrupparono in qualcosa e le ginocchia sbatterono a terra.
Non vedevo niente. Mi voltai e tastai il terreno con le mani, incontrai la tela delle scarpe. Le scaraventai lateralmente contro il comodino e mi rialzai. Cercai di recuperarle, le indossai e andai con passo svelto verso la porta. Mi ritrovai al centro d'un corridoio cupo e tacito. Nell'aria aleggiava un non so che d'oscuro. Roteai il capo in direzione della stanza di Kendall, non intravidi alcun tipo di luce, ipotizzai che fosse chiusa. Mi voltai e percorsi il sentiero di legno verso le scale, non mi curai di non fare rumore. A nessuno sarebbe importata alcuna cosa avrei fatto. L'ora mi era incognita, percorsi le scale e ad accogliermi all'ingresso ci fu altra oscurità.
Ero sul punto d'aprire, quando sentii una presenza retrostante. Restai una manciata di secondi con la mano in aria e un piede d'innanzi all'altro. Mi voltai e m'accorsi di una figura prestante sul divano.
- Sei stato tu a portarmi in camera? - Sibilai, silenzio.
- Kendall. Come sei tornato a casa? - Tentai ancora. Alla seconda risposta mancata il calore s'irradiò nei capillari. - KENDALL! - Strepitai. Lo sentii risalire lungo le vene, le fitte alla testa scomparvero, il bruciore correva ovunque causando pressione sul petto. Serrai i pugni e avvertii i muscoli tendersi. L'affanno iterato si fece tanto ampio che il collo si paralizzò, avvolto da vene sporgenti che alla luce sarebbero state ben visibili. Recisi l'agitazione voltandomi di scatto e spalancando la mano. Le cinque dita ben dischiuse colpirono il legno della porta tanto forte che un formicolio violento mi portò a gridare istericamente.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque.
Fremetti dalla necessità di scaraventare qualcosa contro Kendall, così premetti la mano attorno alla maniglia tanto forte da perdere sensibilità e la scagliai contro il muro precipitandomi fuori da quella fottuta casa. L'istinto fece il suo corso, permisi all'ira d'impadronirsi di me e persi la facoltà di scegliere. Ogni qualvolta Kendall mi ignorava, ogni volta che la sua lurida bocca rimaneva chiusa qualcosa dentro di me scattava. Una volta percorrevo quelle vie assaporando ogni elemento naturale potesse circondarmi. Avevo perso tutto. Ogni sensibilità, ogni capacità di vivere. La vista annebbiata non mi rese immediatamente chiara la meta, ma il subconscio sapeva che il mio corpo aveva bisogno di andare al Riverwalk Covered Bridge. Anzi, sotto il ponte.
Era lì che vagavo negli ultimi mesi a tarda notte, ove alcuna persona osava recarsi per paura dell'oscurità. Il luogo più remoto della cittadina, l'unico luogo dove l'atmosfera poteva essere agghiacciante. Ma io, non avevo paura di niente. Il silenzio tonante, l'angoscia della vita lì veniva un tantino risucchiata dalle tenebre. Uno strascico d'anima riesumava attraverso il brio dell'ignoto. Quella, era la tana del mio demone. Giunsi al ponte in legno e lo sorpassai, mettendo piede nella sponda del fiume popolata da poche case, per lo più abbandonate. Svoltai a destra del ponte e le suole delle scarpe incontrarono il terreno ripido della discesa che m'avrebbe portato alla soglia del flusso d'acqua.
La percorsi con facilità, come se le mie impronte fossero ormai incastonate nella terra. Un soffio secco fece da sottofondo al rumore dei sassolini caduti nell'acqua. Il riflesso della luna brillava sullo specchio d'acqua. Inalai ossigeno ed esalai dolore. Incominciai a seguire lentamente il corso d'acqua, avvolta da imponenti piante che avrebbero potuto inglobarmi. Non volli pensare a nulla, solo assaporare la solitudine. Quella che avrebbe reso il sangue gelido a chiunque, ma non a me. Ad uno dei miei passi seguì un rumore lontano che mi fece scattare il capo in avanti.
La natura m'impediva di scorgere cosa fosse, rimasi inerme per udire meglio. Non avevo paura. Ero solo lì, ferma. Tentai di valicare gli arbusti per osservare, ma se mi fossi sporta ancora un po' sarei precipitata nel fiume. Il rumore si fece più vicino e compresi che qualcuno stava camminando rapidamente nella mia direzione. Qui sotto non ci veniva mai nessuno. Una leggerissima stretta comparve allo stomaco. Mantenni il respiro regolare, i ciottoli iniziarono a cadere nell'acqua man a mano che l'individuo s'avvicinava. Il gorgoglio del flusso si fece improvvisamente più intenso, il buio cominciò a vibrare quando una sagoma nera e incappucciata si mosse verso di me. Il mento alto e il petto infuori. Un passo alla volta e giunse davanti a me. Si fermò.
La scrutai attentamente, ma il bagliore della luna mi permise di scorgere solo le mani inserite nelle tasche e un paio d'occhi accesi, tagliati perfettamente nell'ombra. Quando i miei e i suoi s'incrociarono, un fuoco s'accese nelle iridi di entrambi. Alcuno dei due s'azzardò a parlare. Gl'occhi restarono incastrati per un altro secondo, quando poi la figura nera spense la fiamma e scattò via d'un tratto. Ero nuovamente sola.
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