V - Divenire

Mi sbatto la porta alle spalle.
Serrato il confine con il mondo, d'improvviso le gambe sembrano cedere, come se solo adesso abbiano acquisito contezza del peso che sostengono.
Mi piego sulle ginocchia, esausta.
Dinnanzi a me si staglia il familiare e trito panorama di una stanza.
Né troppo piccola, né troppo grande.
Accogliente, ma non troppo.
Le tendine blu scuro che oscurano la finestra semiaperta danno l'impressione di sospirare a intervalli regolari, animate dalla leggera brezza mattutina.
Un'esigua quantità di luce si fa strada attraverso esse, evidenziando la stanca danza di microscopiche particelle di pulviscolo.
Poca luce, sì.
Ma sufficiente.
Il sole è sorto da un'ora, o forse poco più.
Mi metto in piedi.
Lascio cadere  su una sedia la borsa a tracolla che penzola, inerte, dalla mia spalla.
Mi guardo intorno.
Come al solito, ad attrarre la mia attenzione è la maestosa biblioteca alla mia sinistra.
Mi ci avvicino con cautela, quasi temendo di spezzare la quiete che regna, sovrana, tra quelle mura.

Quella quiete che è eco di migliaia di parole, spesso urlate, talvolta sussurrate con vergogna...

Le mie dita si muovono, agili, sulle copertine dei numerosi libri, sistemati con cura sugli scaffali.
Sono voluminosi trattati, perlopiù.
Testi didattici, che paiono rabbrividire per effetto del mio rapido tocco.
Li sfioro a malapena, quasi temendo di ferirli.

Non scorgo nessuna foto in giro.
Nessun ritratto.
Neppure un orologio.
È tutto così... asettico.
Nulla trasuda informazioni sull'abitante abituale di quella stanza.

Depersonalizzazione: è questa la prima regola, la più importante, in casi come quello.

Mi scuote l'improvvisa sensazione di essere osservata.

Mi volto.
Non c'è nessuno.

La poltrona dietro la scrivania è ancora vuota.

Sospiro, il respiro sincrono con quello, tenue, delle tendine blu alle mie spalle.
L'aria calda esce dai miei polmoni, in un climax ascendente di disillusioni.

Mi lascio sprofondare sul lettino al centro della stanza, maledicendo l'ennesimo ritardo della persona che attendo.

Ho un disperato bisogno di parlargli.

Non ho ancora assimilato ciò che è accaduto.

Fatico a crederci.
Fatico a credere.

Mi chiedo se abbia ancora senso sperare.

Sperare, confidare in qualcosa o qualcuno. Cullarsi nell'infondata e fragile illusione che tutto abbia un senso, anche ciò che di più turpe accade.
Mi sembra tutto così infantile, adesso...

Non è forse la nostra l'unica specie che lo fa?
La sola che ha messo in scena, sin dal principio (esiste un principio, poi?), questo teatrino popolato da maschere di divinità, santi e miracoli?
Questa rappresentazione (non delle più riuscite) in cui persino l'idea di essere nient'altro che burattini, pedine nelle mani di un architetto più grande è preferibile, quasi un sollievo, se raffrontata al nulla che le si contrappone?

Ma la sete di eternità non è nostra.
Non unicamente, almeno.
È questa sete, questa brama che ci spinge, per istinto, a procreare.
Nessuno, dal più piccolo degli insetti al più maestoso dei mammiferi, accetta di essere finito.

È come avere sete nel bel mezzo del deserto.

E come potremmo non averne, d'altronde?

Come potremmo chinare la testa di fronte a una verità tanto deprimente, quanto devastante?
Che senso avrebbero tutte le nostre scoperte, i nostri sforzi?
Il progresso... il progresso...
Che senso avrebbero il sudore versato, i sacrifici compiuti nell'attesa (o speranza) di qualcosa?

Cosa, poi, è da capire.

È un grosso punto interrogativo, quel cosa.
Uno di quelli che ti sovrastano, impetuosi, e ti schiacciano.
E ti sconvolgono.
E ti mozzano il fiato, lasciandoti addosso un terribile senso di disperata impotenza.

È come un tuffo nel vuoto.

Non è il vuoto che ti si staglia dinanzi, no. Non è quello che ti spaventa.
È il lancio che ti fa tremare.
L'abbandono cosciente di ogni certezza, a partire da quella tangibile del terreno sotto i tuoi piedi.

E se non ci fosse niente?
Se questa vita, che spesso maltrattiamo con brutalità, calpestandola senza remore alcuna, fosse la sola e unica?

È tutto finito?

Deprimente, a pensarci.

Difficile, forse impossibile, da accettare.

Si cadrebbe nella tentazione di un edonismo sterile, se così fosse.
Sarebbe inevitabile.

Ogni nostra azione, dalla più semplice e innocua, sarebbe guidata solo dall'istinto.
Dalla necessità.

La tendenza al male.
Quella diverrebbe dominante, in assenza di una minaccia, reale o meno che sia.

Tutto perderebbe di senso, di consistenza.
Ogni cosa sarebbe sterile, svuotata di qualsiasi sorta di significato, se ridotta a mero fenomeno fisico studiabile.

La vita diverrebbe un viaggio senza meta.

E io...

La porta si spalanca, restituendomi la familiare immagine di una donna di mezza età.

"Dottoressa, è arrivato il primo paziente".

Un cenno della testa come risposta.

Sospiro, stavolta silenziosamente, e afferro gli occhiali sulla scrivania.

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