La penombra della stanza.
La luce soffusa di una candela.
La cera che si scioglie, continua.
Cade, lenta.
Come una lacrima.
Si consuma.

Un urlo.

Poi un altro.

Sul pavimento i resti della cena.
I piatti in frantumi.
Le posate sparse nel salotto.
Lo stereo ancora acceso.
Le note di un valzer che risuonano, stanche, nel silenzio.

Coprono i miei lamenti.

Poco più che sussurri.

Parole che si perdono nel cuore della notte.
Vagano, alla ricerca di qualcuno che le ascolti.

Sul caminetto una mia foto.
Un primo piano.
Era il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
Soffiavo le candeline.

Secoli fa.

Sorridevo.
Ero felice.
O almeno è quello che adesso mi aspetto che fossi.
I ricordi tendono a mentire.

Avevo tutto, allora.

Tutto...

Eppure non lo capivo.
Non me ne rendevo conto.

E adesso...
Cosa dovrei fare adesso?

Continuare a chiamarti?
Strillare il tuo nome, nell'illusione che torni indietro?

O forse dovrei andare avanti?
Inseguirti?
Correrti incontro?

Ma come?

Come mai potrei riuscirci?
Come potrei muovermi?
Come potrei anche solo alzarmi da questa sedia?

Sono intrappolata.

Da anni, ormai.

Mi sento così piccola.
Così impotente.
Così indifesa.

Vittima di me stessa.

Schiava della mia malattia.
Schiacciata dal peso di una diagnosi, che il medico di turno ha scarabocchiato sul referto di una risonanza.

Un peso.
Un peso per gli altri e per me stessa.

Quante volte avrei voluto farla finita...
Porre fine a questo continuo e incessante dolore...
Lasciami andare...
Ma mi è mancato il coraggio.

Chiudo gli occhi.
Ti sto correndo incontro.
Le luci accecanti dei lampioni.
L'arcobaleno di colori dei semafori.
Lo strombazzare dei clacson delle automobili.
Un lampo.
Poi un tuono.
Gocce di pioggia.

Corro.

Corro via, lontano.
Senza sapere dove.
Lontano da casa.
Ti vengo incontro.
Ti ho quasi raggiunto.
Vedo la sagoma delle tue spalle.

Eccoti.

Ti volti.
Mi guardi.
Sorrido.

È così vano il piacere dell'illusione.
Così effimero.
Ma come potremmo mai farne a meno?

Apro gli occhi.

Sei lì.