SUMMER 8 - La tua casa, la tua famiglia, il tuo nome
A volte l'ignoranza può rendere felici. O, almeno, dare l'illusione di una vita senza affanni.
Se avesse giudicato se stesso e gli altri solo dagli scatti che stava scorrendo sul suo nuovissimo smartphone, Phoenix avrebbe visto solo un gruppo di ragazzi affiatati e sorridenti che stavano trascorrendo un week-end fuori dalla città senza nessuno a cui dover rispondere.
Si erano svegliati quando avevano voluto, ovvero quando le ragazze avevano tirato loro addosso dell'acqua fredda, scherzo del quale si erano immediatamente vendicati. Avevano mangiato quando avevano fame, saccheggiando la dispensa piena di dolciumi e patatine, ed erano andati a zonzo per la campagna come se fosse stata una magnifica avventura nella giungla.
Mentre il sole si stava lentamente spegnendo su quel sabato sera, Phoenix rimetteva insieme i pezzi di quella giornata. Si era sdraiato comodamente sulla veranda che guardava a ovest, le scarpe slacciate abbandonate al suo fianco, i pantaloni arrotolati sopra il ginocchio e gli occhi verdi socchiusi, a cercare l'ultimo spasimo di luce.
Diane uscì dalla casa e, senza una parola, si sedette accanto a lui, che subito si scostò per farle spazio al suo fianco. Rimasero in silenzio a guardare il tramonto. Nessuno dei due sentiva il bisogno di interrompere quel momento. L'aria era tiepida e affettuosa, e i pensieri del mondo, di qualunque natura fossero, sembravano più lontani della luna che proprio in quel momento stava facendo la sua apparizione nel cielo.
Dal vialetto centrale che curvava nel giardino, videro arrivare Eagle e Daisy che si tenevano per mano. Istintivamente Phoenix strinse il braccio di Diane, l'avvicinò a sé, le fece il solletico con un filo d'erba e le strappò un sorriso.
"Che avete tanto da ridere, voi due?", chiese Eagle rilassato appena mise piede nella veranda.
"Diane ha avuto un'idea grandiosa per stasera", proclamò Phoenix.
"Andiamo in riva al lago", proseguì la ragazza. "Possiamo accendere un fuoco e accamparci lì a guardare le stelle. Abbiamo marshmallow e birre fredde a volontà".
"È davvero un'idea fantastica, Di", confermò Daisy con un sorriso, dando un'occhiata ad alcuni borsoni che erano stati sistemati sull'impiantito di legno. "Hai pure pensato alle coperte!".
"Certo! Mi piace l'avventura, mica la scomodità".
Caroline venne fuori dalla porta d'ingresso in calzoncini corti, maglietta e Sneakers, e andò loro incontro mentre tentava di arrotolare i lunghi capelli castani per fissarli con un bastoncino di legno.
"Raven e Swan non vengono", comunicò. "Hanno detto che preferiscono restare al cottage".
"Ah, l'amour!", commentò Phoenix sarcastico.
Si levò in piedi e tirò su anche Diane, quindi passò un braccio e poi l'altro attorno alle spalle delle due amiche.
"Andiamo, ragazze!", esclamò imboccando il lungo vialetto. "Sono un mago ad accendere il fuoco".
Eagle, alle sue spalle, tossì come se si stesse strozzando.
"Quando ho gli strumenti giusti tra le mani", completò Phoenix con una risata.
"Lasci tutto il lavoro a me?", gli gridò l'altro, osservano le borse strapiene che ancora attendevano sulla soglia.
Quello rise senza neanche girarsi.
"Io ho due fanciulle a cui badare, Eaglet, tu solo una".
Eagle considerò la mole del carico per un istante.
"Va bene, allora dovremo rinunciare alla birra", esclamò afferrando tutto il resto.
"Smettila di bestemmiare di fronte alle signore, fratello!".
Tra le risate delle ragazze, Phoenix tornò sui suoi passi e, dopo essersi scolato la prima bottiglietta, diede ufficialmente inizio a quella serata.
⸩ↂ⸨
Raven guardò la notte fuori dalla finestra. Non c'era nessuno e il giardino era silenzioso. Avrebbero potuto esserci solo loro, in quel momento, per miglia e miglia di distanza. Per un istante immaginò che la terra fosse deserta e vuota, e che quella casa fosse l'unica rimasta in piedi. Quell'idea gli trasmise vertigine e paura allo stesso tempo.
Studiò i raggi di luna che gli disegnavano il petto nudo, che lo facevano quasi brillare, ancor più bianco in quell'oscurità dove governavano solo le stelle. Provò la tentazione di chiudere le imposte ma non lo fece, ché dentro ci sarebbe stato troppo buio. Si girò di scatto e tornò ad affondare sul materasso di piume d'oca accanto a Swan, cercando il suo contatto.
C'era qualcosa di consolante in quelle carezze scambiate nell'ombra e nel silenzio, in quello spazio che non gli apparteneva, cui non avevano legato nessuna memoria. Sembravano sospesi senza tempo, senza fretta.
Il corpo di Raven era una poesia per Swan. Da quando avevano varcato l'ultima soglia della loro intimità, non aveva fatto altro che perdere il contatto con se stessa per ritrovarsi in lui, studiando ogni suo punto segreto, imparando le linee a occhi chiusi, assuefacendosi al suo profumo. E lui, dopo averla adorata come una dea, si era lasciato a sua volta adorare. Era padrone del suo desiderio, mai avaro di insegnarle nuovi modi per sperimentare il piacere, mai pago delle sue carezze. Così si era disteso sulla schiena, con il corpo nudo di Swan avvinghiato al fianco. Lasciandola libera di esplorarlo a proprio piacimento, gustava a occhi chiusi la promessa di ciò che li attendeva.
"Tu non hai ricordi, Raven?".
La voce sottile di Swan, languida come se si fosse mescolata al dolce abbandono di quella notte, tranciò di netto il silenzio della stanza.
"La tua casa, la tua famiglia... il tuo nome".
Il ragazzo si irrigidì. Si sforzò di non darlo a vedere, ma era una precauzione abbastanza inutile, dal momento che il corpo di Swan era praticamente fuso con il suo ed era impossibile che lei non percepisse quel mutamento.
"Lo sai che non dobbiamo mai parlare di queste cose", rispose con distacco, come se quelle parole fossero sufficienti per chiudere la faccenda.
"Sì, va bene, le regole", brontolò la ragazza, puntellandosi con le mani sul suo petto e sollevando il capo per guardarlo. "Ma quando siamo soli, che male c'è?".
Lui non rispose, ma sollevò le ciglia. Non si leggeva nulla nei suoi occhi strani. Se fosse d'accordo o meno con lei, se lo avesse mai almeno pensato o desiderato non era intellegibile nella sua espressione seria, perfetta e muta come quella di una statua greca.
"Non potremmo, ogni tanto, fare come tutti gli altri?", proseguì Swan con una strana nostalgia nella voce. "Parlare di noi, liberamente, come una qualsiasi coppia. Tu non parli mai di te".
C'era un velato rimprovero in quella frase. Raven schivò i suoi occhi e rivolse uno sguardo obliquo altrove, lontano da lei.
"Non mi piace parlare di me".
Lei lo studiò per un istante, un po' contrariata. Un tempo la piccola Swan gli avrebbe obbedito senza protestare. Si faceva sempre come diceva lui. Ma dopo avergli donato il cuore e aver messo in gioco tutto di sé, dopo che il loro legame era diventato per lei tanto speciale, quasi fondamentale, non era più disposta ad arrendersi. Avrebbe passato con Raven tutta la sua vita, non le era sufficiente conoscere a memoria il suo corpo, voleva conoscere anche la sua anima. Perché le apparteneva, così come lei gli aveva concesso la custodia della propria. E se avesse fatto resistenza, lei non avrebbe esitato a prendersela a ogni costo. Sapeva essere ostinata.
"Eppure l'altra mattina l'hai fatto", insistette. "Con Phoenix. Gli hai detto qualcosa che non hai mai detto a nessuno. Che non hai mai detto a me".
Raven sbuffò lievemente. Allontanò le mani di Swan dal corpo, intrecciandovi le dita. Il suo viso, inespressivo fino a un istante prima, si colorò di quella odiosa noncuranza che mostrava sempre, e il suo sorrisetto ironico si accese nella penombra della stanza.
"Sono rimasto qui perché ho voglia di fare l'amore con te, non perché ho voglia di parlare".
Lei rispose a quell'affermazione con una smorfia di disappunto.
"Adesso non metterti a fare il prepotente".
Lui rise lievemente. La spinse indietro e la fece rotolare al suo fianco, senza smettere di tenerle le mani. La costrinse con la schiena contro il materasso morbido, bloccandola con il suo peso, e le distese le braccia sopra la testa, inchiodandola in quella stretta.
"Perché?", sussurrò suadente, sfiorandole il profilo con le labbra. "A te piacciono gli uomini prepotenti".
Swan si agitò contro il suo corpo, come se volesse liberarsi, ma sapeva di non desiderarlo davvero. Non riusciva a sfuggire alla seduzione dei giochi di Raven, nei quali lo scettro del potere veniva passato tra loro di mano in mano in un equilibrio pericoloso ed eccitante. Il suo movimento, lo sfregamento incendiario tra pelle e pelle, non fece altro che scaldarli ancor più. Raven si fece strada tra le sue gambe serrate, obbligandola a fargli spazio, e cominciò a stuzzicarla con il suo sesso.
"E adesso facciamo l'amore", disse, senza concederle più nessuna replica.
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