Capitolo 1- Cuore rotto

Qualcosa si era rotto.

Inevitabilmente, pensai che fosse proprio il mio cuore. Quel muscolo che pompa sangue in tutto il resto del corpo, lo stesso che ci dona la vita ed è, al contempo, lo stesso che può togliercela con la velocità di un soffio.

Lo sentivo danneggiato, quel muscolo autonomo che risiedeva nella mia cassa toracica, tanto che a volte sentivo l'esigenza di prenderlo in un pugno e di strapparlo via con ferocia, in modo rapido e indolore.

Forse, pensavo, sarei stata meglio se il mio cuore se ne fosse andato.

Lo sentivo rotto, marchiato, lercio, rovinato. Come se vi fosse stata una crepa indissolubile, che pompava attraverso le mie vene e mi toglieva l'ossigeno che avrebbero dovuto avere i miei polmoni, facendomi morire il fiato in gola, incastrato in qualche meandro recondito di cui non sapevo l'esistenza.

Il problema è che, quando non funziona quel muscolo così importante, allora neanche il resto del corpo riesce ad agire con correttezza. Infatti, avvertivo anche un cappio stretto alla gola con violenza. Un nodo fatto di paranoie e di tristezza che mi bloccava costantemente il respiro, impigliandolo chissà dove pur di non farlo uscire.

Vivevo in una gabbia lucente, laccata in oro, con pareti bellissime ed una visuale che mozzava il fiato, eppure io ero rinchiusa. Guardavo all'esterno come se, un giorno, avessi potuto liberarmi e ammirare ciò che mi circondava. Lo osservavo con devozione, nella speranza che qualcuno mi avrebbe salvata. Volevo uscire, volevo vivere, ma c'era qualcosa dentro di me, una spina incastrata tra le pieghe del cervello, oppure incastrata tra le valvole del cuore, che mi impediva di oltrepassare la barriera immaginaria che, forse, io stessa avevo innalzato, per farmi finalmente vivere la vita che tanto agognavo.

Eppure, le paranoie mi tenevano bloccata al pavimento d'oro di quella gabbia, perché se solo avessi osato uscire, non sarei più stata in grado di tornare indietro. E se, quello che tanto desideravo, fosse soltanto un'illusione e costringessi il mio cuore ad andarsene per sempre?

Come sarei tornata indietro, una volta rinchiuse le sbarre alle mie spalle?

Cherophobia.

La Cherophobia è quando si soffre di una forma d'ansia anticipatoria che nasce dalla paura che la serenità possa, in qualche modo, renderci vulnerabili.

Ed era così che mi sentivo: ingabbiata, rinchiusa, eppure timorosa di varcare i cancelli della mia anima per migliorare la vita che, come un nodo stretto alla gola, mi impediva di prendere respiro.

Però, quel giorno, qualcosa si era rotto.

Ad interrompere il flusso dei miei pensieri fu Scarlett, la mia coinquilina, che piombò nella mia stanza con l'irruenza di una bufera di neve e iniziò a urlarmi contro con la stessa voracità con cui si incolpa una persona di omicidio.

«Nives, ti rendi conto di che diavolo di ore sono? Faremo tardi, porca miseria!» imprecò mentre la sua piccola mano si arpionò al mio braccio e mi strattonò con foga.

«Adesso mi alzo, calmati» risposi con noncuranza, sapendo già che per lei 'ritardo' significava semplicemente 'non siamo in anticipo come vorrei essere'.

«Sono le sette e mezza, Nives! Le sette e mezza! E dobbiamo essere al Gulliver alle otto e mezza» continuò ad urlare come impazzita.

Sbuffai e mi alzai dal letto, abbandonando il tepore delle coperte che mi scaldava il corpo freddo. Ormai l'estate era passata e io non ero ancora pronta ad affrontare il gelo dell'inverno che ne sarebbe derivato.

Osservai la mia amica fuori di testa che raccoglieva i miei vestiti da terra e li posava sul letto, pronti per essere indossati.

Lei era già pronta, con i suoi abiti presi a caso dall'armadio, i capelli biondi legati in una crocchia disordinata, con qualche ciuffo che cadeva sulla fronte corrucciata, e gli occhi castani che mi fissavano indispettiti.

Oggi era il nostro primo giorno di lavoro al Sacramento Gulliver Hospital, e potevo capire la sua ansia e il suo nervosismo, ma non potevo di certo farmi contagiare. Da quando ne avevo memoria, ero sempre stata una persona tranquilla, una che si entusiasma solo se succede qualcosa di estremamente grande, e non di sicuro per il primo giorno di specializzazione.

In fondo, era la vita. Doveva succedere prima o poi.

Eravamo chirurghi, per questo potevo comprendere la smania che fosse tutto perfetto per lei.

Io e Scarlett avevamo affittato questo piccolo appartamento a Sacramento appena avevamo iniziato il primo anno di Medicina, ci eravamo incontrate a lezione e avevamo capito che convivere sarebbe stata la scelta migliore, seppur quella più azzardata. Da allora lei era la mia confidente, la mia anima gemella per quanto questo concetto possa significare tutto e niente allo stesso tempo. Lei era la mia migliore amica, anche se eravamo un tipo di amiche molto diverse dalla norma.

«Infilati quella gonna di merda e smuovi il culo, Nives!»

Appunto, eravamo un tipo di amiche differente.

«Non ti piace la mia gonna?» Ammirai, allo specchio, il tessuto di cashmere color cammello che scendeva morbido sulle mie cosce. Non mi stava così male, dopotutto.

Ma la sua espressione disgustata mi fece riflettere. «Non ti metti mai le gonne e, oltretutto, te la leverai subito appena metterai la divisa».

«Lo so, ma volevo provare qualcosa di diverso» mi difesi e allacciai l'ultimo bottone della mia camicetta bianca, prima di raccogliere i capelli ramati in una crocchia uguale alla sua.

Lei sbuffò. «Va bene ma muoviti. Facciamo tardi». Corse al piano di sotto e io la raggiunsi in un batter d'occhio, mentre Kevin spalancò la porta della sua camera e si palesò di fronte a noi, con i capelli scuri arruffati e uno sbadiglio così rumoroso che mi fece sussultare.

Arrivammo al piano di sotto in un batter d'occhio e Scarlett si premurò di porgermi una tazza di caffè raffreddato che bevvi in un sorso.

«A me non l'hai fatto il caffè?» si lamentò Kevin con uno sbuffo, per poi posizionarsi di fronte alla macchinetta del caffè per rimediare.

Kevin viveva con noi da due anni, era l'ultimo arrivato e gli volevamo bene, inoltre, il fatto che fosse maschio non ci infastidiva come credevamo.

Si era presentato fuori dalla nostra porta e aveva insistito per avere una camera, perciò non potevamo di certo negargliela.

Scarlett scrollò le spalle. «Su di te non ci speravo, che facessi in tempo».

Ridacchiai quando mi resi conto che, in effetti, lui indossava ancora la maglietta bianca del pigiama, con un enorme macchia di caffè che gli colorava il tessuto sul petto.

Lui ci guardò torvo. «Guardate che ce la faccio benissimo, devo solo vestirmi». Il suo tono era infastidito, il che mi fece sorridere ancora di più.

«E i denti non te li lavi?» Feci una smorfia di disgusto.

«Me li laverò prima di entrare in reparto».

«Che schifo, Kevin!» strillò Scarlett. «Se ti vesti in trenta secondi ti aspettiamo, altrimenti partiamo. Nives, in macchina, ora» ordinò perentoria ed io scattai a lavarmi i denti prima di correre nella sua auto.

Una volta raggiunta, mi sedetti sul sedile del passeggero e attesi che arrivasse anche il nostro amico che, fortunatamente, dopo un minuto si presentò in auto e partimmo.

Il tragitto non sarebbe stato lungo, per questo iniziai ad avvertire un po' di oppressione sul petto, forse a causa dell'ansia.

Inoltre, era una giornata particolarmente soleggiata, come sempre a Sacramento, ma c'era qualcosa nell'aria che la faceva apparire ancora più luminosa e calda. I raggi solari mi scaldavano la pelle del viso e la leggera brezza mi scompigliava le ciocche ribelle dei miei capelli, attraverso il finestrino che avevo lasciato aperto.

«Io non ce la faccio» confessò ad un tratto Scarlett, completamente presa dall'ansia. Gli occhi erano sgranati e le labbra serrate in una linea retta.

Lei era così, moriva dall'ansia ogni volta che doveva fare qualcosa.

«A fare cosa?» domandò Kevin, che invece sembrava esageratamente sereno e tranquillo.

Lei lo guardò torvo. «Secondo te, Kevin?» rispose ilare, con una risatina aspra che riecheggiò nell'abitacolo.

«Si che ce la fai, Scar. Sei bravissima e andrà tutto bene» m'intromisi, posando una mano sulla spalla esile della mia amica.

L'auto si fermò fuori dall'ospedale, ma i miei occhi erano puntati su Scarlett per cercare di captare ciò che sentiva.

«Sono eccitata ma ho l'ansia, Nives» disse lei con il tono di voce basso e malinconico.

«Oh, sei eccitata?» La risata di Kevin ci fece venire i nervi a fior di pelle. Mi limitai a lanciargli un'occhiata in tralice e intimargli di tenere quella boccaccia chiusa.

«Anche io ho l'ansia» confessai con un filo di voce. Non ero solita ad ammettere i miei punti deboli, ma ora la mia amica aveva bisogno di me e io avrei fatto tutto il possibile per farla stare bene.

«Davvero?» Mi osservò con i suoi occhi dolci, speranzosa.

«Certo». Annuii con convinzione.

«Okay, siamo in ritardo, possiamo andare o dovete mettervi a limonare qui dentro?» s'intromise nuovamente Kevin.

«Ti piacerebbe» risposi con una risata, prima di scendere dall'auto e recarmi, insieme ai miei amici, all'interno del Gulliver Hospital.

L'interno dell'ospedale era tetro e cupo, per gli altri, eppure per me era qualcosa di diverso. Appena varcai la porta d'ingresso, il cuore mi sembrò sul punto di scoppiare.

La maggior parte del tempo mi sentivo vuota, come se dentro di me non avessi nemmeno più il cuore che riempiva la mia cassa toracica e pompava il sangue nelle mie vene. Sentivo come se non avessi nulla sotto lo strato di epidermide che mi ricopriva. E se sentivo di averlo, quel muscolo autonomo che mi permetteva di vivere, lo percepivo macchiato, dolorante e sofferente. Ma quando entravo in un ospedale, quando varcavo la soglia della porta e sentivo l'odore pungente di alcol che aleggiava nell'aria, allora mi sentivo piena. Piena di gioia, di soddisfazione, di benessere.

Mi sentivo, di nuovo e inevitabilmente, viva.

Ora, non ero più solo un involucro vuoto.

Percorremmo rapidamente le scale che ci portarono fino al reparto di Chirurgia, dove ci avrebbero spiegato bene ogni singola cosa e ci avrebbero divisi nei vari reparti per permetterci di scegliere con consapevolezza la nostra specializzazione.

Appena arrivammo, ci cambiammo rapidamente e indossammo la divisa celeste, orribile e scomodissima, che però la sentii addosso come una seconda pelle, capace di ridarmi quella strana emozione chiamata felicità.

«Prima di andare devo assolutamente bere un caffè» avvisai Kevin e Scarlett che ancora si stavano vestendo, perlomeno il primo, mentre l'altra era intenta a fissarsi allo specchio per vedere quanto fosse carina.

Scarlett era così, per lei l'apparenza andava di pari passo con l'intelligenza. Non poteva essere sveglia, se non era al massimo della sua forma.

«Non farai in tempo, Nives» replicò lei mentre prese a sistemarsi le sopracciglia.

«Tu fai in tempo a truccarti e io non posso passare a prendere un caffè?» Inarcai un sopracciglio.

Lei sospirò. «Va bene, però muoviti. Ti aspettiamo insieme agli altri e, ti prego, non fare tardi» si raccomandò.

«Croce sul cuore» ridacchiai e corsi fuori dallo spogliatoio per incamminarmi verso la sala pause. Era poco distante dal punto di incontro e ci misi davvero poco.

Presi la bevanda e iniziai a sorseggiarla, peccato che fosse bollente e per poco non mi ustionai la lingua. Così, dato che ci stavo mettendo davvero troppo, iniziai a camminare per raggiungere gli altri, mentre soffiavo sopra il caffè per farlo raffreddare.

*

Abbiamo un punto cieco nell'occhio. Le cellule nervose che costituiscono il nostro nervo ottico producono una specie di foro nella retina, una parte del campo visivo che non viene percepita a causa della mancanza di cellule fotorecettrici in grado di rilevare la luce.

A volte, può essere utile non vedere qualcosa. Può essere utile ignorare quel punto cieco per non osservare un qualcosa che potrebbe nuocerci. Altre volte, è proprio il non vedere a farci davvero male.

Così, mentre passeggiavo e soffiavo sulla mia tazzina bollente, non vidi che qualcuno stava camminando proprio di fronte a me e, come nei peggiori film comici, andai a sbattere contro un muro.

Un muro fatto di pelle e ossa.

Un muro che indossava un camice bianco e che ora si stava colorando di marrone proprio sul petto.

Un muro che iniziò a imprecare per la temperatura esagerata del mio caffè che entrò in collisione con il tessuto del suo camice, per poi entrare in contatto con la sua pelle.

Un muro dagli occhi dorati che prese a fissarmi come se volesse uccidermi.

«Merda, mi scusi» sibilai sul punto di svenire, ferma di fronte a questo medico che sembrava essere un adone, mentre io credevo di avere le sembianze di una dodicenne spaventata e mortificata. «Cioè...volevo dire...cavolo, mi scusi» rettificai grattandomi la nuca.

Lui, dall'alto del suo -probabile- metro e novanta, inarcò un sopracciglio folto e scuro e sembrò sul punto di volermi urlare contro.

Mi concessi qualche secondo per osservarlo. Aveva i capelli biondo cenere che scivolavano sulla sua fronte corrucciata, più corti ai lati e un po' più folti e lunghi verso il centro. Erano così lucenti che sembrava che una cascata di miele vi fosse scivolata sopra e li avesse resi così belli.

Gli occhi, sotto la luce che filtrava dalle finestre dell'ospedale, sembravano avere una vera e propria sfumatura dorata intorno alle pupille, oltre che essere affilati e incuriositi.

I lineamenti erano maschili e spigolosi. La mascella serrata e rigida era ricoperta da un accenno di barba più scura rispetto ai capelli, ma non trascurata, bensì ordinata e ben curata. Tipico di un medico.

Il camice bianco scorreva fino alle sue cosce ricoperte dai pantaloni della divisa celeste e il tessuto si stringeva sulle sue braccia muscolose incrociate al petto, mentre il suo sguardo mi trafiggeva come la più appuntita delle spade, prima di scivolare rapido sulla macchia che gli colorava ora anche l'addome.

«Dovresti guardare dove metti i piedi» disse con voce bassa e cupa, una voce graffiante che mi trafisse l'addome e mi ricoprì la pelle di brividi leggeri.

Non riuscii a fare a meno di notare quanto la sua presenza incombesse su di me, era inquietante e mi trasmetteva una strana angoscia.

Alzai un sopracciglio. «Ho detto che mi dispiace, dottor...»

«Le sue scuse non ripuliranno il mio camice bianco, dottoressa...» fece una breve pausa per leggere il nome che spiccava sulla mia targhetta. «...Miller». Le sue labbra si storsero in una smorfia di fastidio che mi fece irritare. «Specializzanda?» domandò poi, facendo scorrere le sue iridi su tutta la mia figura. Mi portai le braccia al petto per nascondermi dal suo sguardo curioso, che per qualche strana ragione mi faceva andare a fuoco lo sterno.

«Si».

«Ed è il suo primo giorno?»

Non capivo come questi potessero essere affari suoi, ma non era il caso di inimicarmi questo medico più di quanto già non avessi fatto.

«Si, è il mio primo giorno e dovrei andare» farfugliai facendo per mettermi in fuga, dato che avevo già combinato troppi guai per questo primo giorno di lavoro.

Lui si portò l'indice e il pollice sul mento, carezzandosi la lieve porzione di barba ispida che gli ricopriva la mascella spigolosa. «Buona fortuna, dottoressa Miller». Il suo tono di voce fu tagliente, come se la sua fosse una piccola minaccia velata che, in quel preciso istante, non colsi come avrei dovuto.

Non avevo ancora capito che, quelle sue parole, sarebbero state l'inizio del mio inferno personale.  

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