NOCTURNE OP. 9 NO. 2

Era martedì. Di uscire non se ne parlava. Per pranzo aveva ordinato una pizza e aveva in programma di guardare Arancia Meccanica. Aveva preso anche le birre e un pacco di sigarette. Non fumava più da anni ormai. Il film scorreva mentre sorseggiava la sua terza birra. Il cartone della pizza, con metà del contenuto all'interno e dalla forma e consistenza di un boomerang, sostava a terra. Il posacenere sul tavolino, quello vicino al divano, era strapieno di cicche di sigarette spente. Tra le dita una ancora fumante. La casa era avvolta nella nebbia che aveva creato e la finestra aperta non aiutava molto la fuoriuscita della coltre bianca. Guardava la sigaretta consumarsi e si sentiva un po' come lei, accesa dagli eventi e consumata dal proprio fumo. Avrebbe voluto cercare di alzarsi, ma non riusciva a farlo. E si addormentò così, mentre i pensieri consumavano la sua mente e i mostri divoravano le sue membra.

Passeggiava sempre lungo tutto il parco. Cercava le zone meno frequentate o chiassose. Non sedeva mai o sostava, preferiva camminare. Quando sentiva intorpidirsi le dita dei piedi, si dirigeva verso casa. Quel giorno, rientrando, si perse. Non sapeva bene dove andare e stava già tirando fuori il cellulare per accedere alle mappe quando delle note deviarono la sua azione. Era un pianoforte e suonava un brano molto famoso, non sapeva dire per certo quale fosse, ma era famoso, forse Chopin o Beethoven. La litania era lenta, infelice, dolorosa. Era suonata divinamente. Non poté fare a meno di seguire quelle note fino a che non giunse sotto un palazzo. La musica attraversava una finestra aperta, forse al secondo piano, e si depositava per la strada, tra le vie, rubata dalle orecchie dei più attenti. Rimase in ascolto per tutto il tempo in cui il suo esecutore decise di riproporre lo stesso brano. Rimase ad ascoltare il profondo dolore attraversare quei tasti e disperdersi attraverso le note. Era passata un'ora, forse due, non sapeva dirlo, quando il brano cessò per l'ennesima volta e la luce della stanza venne spenta. Era sera ormai. Sentiva il suo cuore sanguinare.

Era stato inevitabile. Era l'unica cosa che permettesse alla sua anima di manifestarsi e parlare. Aveva suonato per ore, ininterrottamente. Sempre lo stesso brano. Quel brano. Gli occhi gonfi e stanchi, le dita rosse e screpolate, la bocca arsa, il cuore meno pesante di qualche ora prima. Si fermò, guardò i tasti bianchi e neri alternarsi con quasi illogica armonia e si alzò dallo sgabello. Spense la luce della stanza e si diresse alla porta. Doveva uscire, non poteva restare lì, doveva raggiungerli.

Passò qualche minuto, immobile. Poi si mosse, voleva tornare a casa, ma ci ripensò. Dopo quello che era successo un'ulteriore passeggiata avrebbe potuto sciogliere la matassa che si era ancorata al suo petto. Camminava lentamente, voleva dirigersi verso il fiume e costeggiare le sue sponde. A quell'ora non ci sarebbe stato nessuno. Poi sentì alle sue spalle un rumore. Nel silenzio di quella notte disperata sembrò assordante. Si voltò.

Aprì con forza il pesante portone della decadente palazzina in cui abitava. Voleva dirigersi verso il fiume, magari gettarcisi dentro, annegare o farsi semplicemente trasportare dalla sua corrente fino a che il suo corso non sarebbe sfociato in mare. Lì poteva diventare qualcosa di utile almeno, cibo per pesci. Era diventato tutto sterile ormai, anche la sua vita. Per una tragica e fatale coincidenza, il vile e astioso fato, a quell'unico superstite, stava permettendo di uccidersi con le sue mani. Ma che senso aveva vivere? Non riusciva a sopportare più il dolore ormai.
Camminava con decisione verso il fiume, poco lontano, quando notò una figura alla fine della strada, inerte, che voltata nella sua direzione guardava il suo procedere. Si bloccò.

Qualcuno uscì da quel pesante portone e avanzò. Quando si accorse dell'attenzione che aveva prodotto, si fermò. Non poteva che essere l'esecutore del brano. Se lo sentiva. Inaspettatamente però, dopo qualche secondo, ricominciò a camminare.

Non aveva senso fermarsi, tanto valeva procedere. Se avesse dovuto perdere la vita per mano di un decerebrato o tra le braccia del fiume ormai importava poco.

Spedita quella figura avanzava inesorabile. Sorpassò la sua postazione senza lanciare nessuno sguardo e veloce si diresse verso il fiume. Aveva una brutta sensazione e dopo un attimo di esitazione iniziò a seguire quei passi affannati.

Sentiva dei passi echeggiare dietro i suoi. L'ombra sconosciuta stava rincorrendo la sua. Ma aveva smesso di avere paura. Voleva farla finita, con o senza spettatori. Accelerò il passo per aumentare la distanza con il suo inseguitore. Quando parve arrivato il momento adatto salì sul muretto del ponte e si sedette con le gambe a penzoloni nel vuoto. Guardò giù. Sarebbe stato un bel salto. Era gennaio, l'acqua doveva essere gelida, probabilmente la sua anima avrebbe abbandonato il suo corpo prima di quanto pensasse. Non doveva volgere il suo pensiero a nessuno. Non doveva pregare affinché le anime dei suoi cari venissero protette sulla Terra. Forse, proprio ora, stavano guardando e non aspettavano altro che ricongiungersi.

Aveva rallentato il passo, magari stava immaginando cose che non esistevano. Ma l'angoscia non l'abbandonava. Rimase in disparte e osservò la figura accelerare, guardarsi intorno e salire sul muretto. Doveva intervenire, le sue sensazioni erano giuste. Iniziò a correre.

Chiuse gli occhi e inspirò forte, più volte. Le mani poggiate ai lati delle cosce avrebbero dato la spinta per la caduta nel vuoto. C'era serenità nel suo cuore in quel momento, era la cosa giusta da fare. Aprì di scatto gli occhi, guardò il cielo e si spinse lasciandosi librare nell'aria.

Correva, stava correndo fino a sentirsi bruciare i polmoni. Gli occhi appannati dallo sforzo e dal pianto. Piangeva. Stava piangendo per quell'anima in pena che stava per fare una cosa simile. Quanto dolore poteva esserci nel suo cuore, quanto ne aveva sopportato, perché non aveva ricevuto aiuto. Attimi che durarono millenni. Distanze che sembrarono allungarsi. Aveva appena raggiunto il suo obiettivo quando vide che si diede una spinta, facendo leva con le mani, per liberarsi nel vuoto.

Pochi secondi in caduta quando qualcuno prese la sua mano sinistra. Andò a sbattere violentemente con il corpo contro il muretto e alzò gli occhi verso chi aveva interrotto la sua danza verso la morte.

«Ehi, stai bene? Cazzo, non riuscirò a tenerti per molto, trova un appiglio e tirati su. Aiuto, qualcuno mi sente? Aiuto!»

«Lasciami andare.»

«Aiuto! C-cosa? Non esiste che ti lasci andare. Andiamo, tirati su. Ti prego!»

«Lasciami andare.»

«Io, io non p-posso farlo. A-andiamo, ti prego. Lasciati a-aiutare.»

«Come ti chiami?»

«M-maurice...»

«Ciao Maurice, io sono Vivienne.»

La sua voce era delicata, quasi un sussurro, il tono gentile, ma fermo. La situazione non era delle più semplici. Maurice teneva con la mano destra quella sinistra della donna e con l'altra cercava di tenersi meglio che poteva ad una crepa del muretto di cemento. Vivienne si trovava ad ondeggiare, a causa del vento, nel vuoto. Sotto di lei la morte certa, ma la donna non dava l'idea di aver capito quello che stesse succedendo o comunque non se ne preoccupava. Maurice nel frattempo stava faticando non poco, non per il peso piuma della donna, ma per il suo completo abbandono che la stava rendendo un macigno quasi insostenibile da tenere. Senza la sua collaborazione non ce l'avrebbe fatta a tirarla su. Forse sentendo i suoi pensieri Vivienne alzò il suo sguardo per incatenarlo a quello dell'uomo. In quegli attimi a Maurice sembrò di scorgere in quelle iridi ghiaccio tutte le motivazioni che l'avevano spinta a compiere un gesto così estremo. Le occhiaie profonde, il viso scavato, le labbra rotte e sanguinanti, i lunghi capelli che volavano nel vento freddo e che fungevano da sipario sul palcoscenico di cui loro due erano i protagonisti disgraziati. Nonostante la situazione, all'uomo sembrò di avere davanti una meravigliosa creatura, infelice e distrutta, ma meravigliosa. Fu mosso da una nuova forza, la doveva salvare.

Ma Vivienne non voleva essere salvata. Voleva solo che i pezzi del suo cuore tornassero a ricongiungersi. Voleva smettere di soffrire, di sognare i loro volti, di sentire le loro urla di dolore, di vedere il loro sangue sulle sue mani. Doveva morire quel giorno, con loro, ma li avrebbe raggiunti e Maurice non l'avrebbe intralciata. E fece appunto quello che doveva essere fatto perché potesse riuscirci. La sua mano gelida e schiacciata in quella dell'uomo era quasi impossibilitata a muoversi, ma riuscì di poco a liberarsi dalla presa.

Maurice spalancò gli occhi quando vide cosa Vivienne stava cercando di fare e capì che non ce l'avrebbe fatta. Stava combattendo una battaglia impossibile da poter vincere da solo.

E infatti Maurice non ce la fece.

La sua mano cedette. Si sciolse dalla presa da quella della donna. Era sudata, distrutta dallo sforzo, cementificata dal freddo. L'ultima cosa che vide furono gli occhi vitrei di Vivienne guardarlo mentre cadeva nel vuoto. Aveva il volto rilassato e sulle labbra un sorriso di gratitudine. La sua espressione non mutò nemmeno quando il suo sguardo volse al cielo. Durò un attimo prima che il fiume la inghiottisse e la trascinasse nei suoi artigli ghiacciati.

In gola gli morì un urlo disperato.

Maurice guardava allibito il letto d'acqua che aveva inghiottito la vita di quella donna. Si accorse tardi dei tremori e delle lacrime che gli rigavano la faccia e squassavano il petto in forti affanni. Si accorse tardi delle sirene che si avvicinavano sempre di più a lui, chiamati da qualche passante che aveva visto in lontananza la scena. Si accorse tardi che se fosse arrivato prima, forse, l'avrebbe salvata, l'avrebbe fatta ragionare. Si accorse tardi dei dottori che lo portavano via in ambulanza mentre gli somministravano dei tranquillanti.

Era passata una settimana e Maurice stava camminando per il cimitero della città. Aveva chiesto al custode della donna e non era stato difficile sapere dove giacesse. La notizia era rimbalzata sui diversi giornali e c'era rimasta per giorni. E con quella notizia era salito a galla anche il motivo che aveva spinto la donna a quel gesto estremo. Si avvicinò al punto che gli aveva indicato l'uomo e notò tre lapidi. Erano spoglie, vuote. Si fermò davanti ad esse e si inginocchiò. Posò il mazzo di margherite bianche sulla tomba di Vivienne e guardò la sua foto, con insistenza. Dedicò anche al marito e alla loro bambina una breve occhiata, quella che bastava per accorgersi che la piccola somigliava terribilmente alla madre. Non sapeva pregare, così rimase lì, assorto, a pensare.

Il marito e la figlia di Vivienne erano morti in un tragico incidente stradale, qualche mese prima. In quella macchina c'era anche lei, ma era miracolosamente sopravvissuta. Qualcuno aveva deciso che avrebbe dovuto salvarsi e provare il dolore più dilaniante che un essere umano potesse avere l'ardire di immaginare. E da quel giorno era iniziata la sua lenta agonia. Il dolore le aveva sviscerato l'anima e fatto scoppiare il cuore. Chissà che progetti aveva per la sua famiglia. Magari avrebbe voluto un altro figlio oppure prendere un cane. Ai bambini piacciono i cani. Emily, era questo il nome della figlia. Da brava mamma l'avrebbe aiutata a crescere indipendente e forte, guidandola nel prendere le decisioni importanti della vita. L'avrebbe consolata dopo una storia andata male e avrebbe gioito con lei delle promozioni al lavoro. L'avrebbe aiutata a presentare al padre l'uomo della sua vita e avrebbero organizzato insieme il suo matrimonio. Avrebbe visto Gilbert portare all'altare la loro principessa e avrebbe accudito e viziato con amore i nipoti che sarebbero arrivati. E poi, con il tempo, lei e il marito avrebbero dedicato la loro vecchiaia a qualche viaggetto. Doveva invecchiare e morire tra loro, felice. Ma non era andata così. Ed era per questo che il suo unico desiderio era diventato quello di ricongiungersi a loro. Adesso era in pace. Questo Maurice aveva letto negli occhi di Vivienne mentre lei abbandonava velocemente la vita. Pace.

Forse ora lo stava guardando. Forse ora era con loro. Forse ora era felice.

"Se ci si guarda intorno, se si osserva attentamente, si scorgerà sempre un po' di dolore. Ognuno porta con sé un po' di buio. Sono fortunati coloro che ricevono l'aiuto necessario per poter affrontare e combattere le tenebre, meno fortunato è chi al mondo rimane solo. Anche chi non chiede aiuto, ne ha bisogno. Semplicemente non sa farlo, ha paura o le sue tenebre lo hanno avvolto al punto tale da non riuscire a scorgerne il bisogno. C'è sempre un'alternativa, un modo per rialzarsi, ma non tutti riescono e sanno riconoscerlo. Dov'è possibile bisognerebbe aprire gli occhi, osservare e tendere una mano. Potremmo riuscire ad aiutare qualcuno a trovare la luce."

Vivienne


Nota autore: L'aneddoto del brano ascoltato dalla finestra di un palazzo, è vero. Mi è capitato e mi capita tutt'ora, quando alla sera, con il mio cane, percorro una stradina per ritornare a casa dalla passeggiata serale. Non ho mai incontrato gli occhi del suo esecutore, ma sono sempre rimasta fino alla fine dei suoi pezzi ad ascoltarlo. Io ed Argo siamo i suoi unici spettatori e se mai un giorno dovesse affacciarsi da quella finestra, non potrò che ringraziarlo per le forti e contrastanti emozioni che, ogni volta, mi fa provare.

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