17. Il tempo scorre.
Arriva un momento nella vita in cui ti sembra che tutto stia andando a gonfie vele, in cui le bellezze che prima ti eri persa mentre scorrevano per la strada della vita e ignoravi girata dalla parte opposta di queste ultime, ti si presentano improvvisamente tutte davanti. Non ne manca nessuna. Lo splendore della natura, i piccoli gesti, le carezze di cui tanto avevi bisogno nei momenti peggiori e che, ora, ti porti dentro e conservi con gelosia. I baci, quelli veri, dati su un amaca o tra le pareti di una vecchia stanza ormai spoglia. Anche quelli te li porti dentro, nel cuore, come se fossero pezzi di esso. Pezzi di te. I pensieri sembrano ormai così lontani anni luce finché poi non accade qualcosa che ti sconvolge, ti rende piccola dinanzi ad esso.
La paura prende il sopravvento, diventando più forte di tutte le altre emozioni e, in un nanosecondo, tutto ciò che ti è capitato di bello passa in secondo piano. Cosa si fa quando si ha paura? È la domanda che mi chiedevo più spesso quando, a seguito di un litigio, le urla dei miei genitori attraversavano tutto il quartiere.
Kyle cercava di proteggermi, di abbracciarmi forte e di far piombare nelle mie piccole orecchie quella musica metallara così martellante da non farmi riuscire nemmeno a pensare. Lui mi abbracciava, mi stringeva forte fino a quando la tempesta che invadeva la nostra casa non si placava. Le lacrime di Kyle, le urla di mamma, gli schiaffi di papà...la paura che provavo e che non riuscivo a togliermi da testa.
«Cosa si fa quando si ha paura?» chiesi, all'età di sei anni a mio fratello. Lui mi guardò, con i suoi occhi chiari, mentre le urla diventavano sempre più forti. Eravamo rintanati nella sua camera, dalle pareti color cappuccino, mentre mi guardava stordito. Probabilmente, non si aspettava una domanda del genere da una bambina di quell'età. Continuava a scrutarmi con gli occhi azzurri. Io attendevo la sua risposta, mentre lui prese le grandi cuffie da gaming che gli aveva regalato papà a Natale. Tremava, per la paura. Sentivo che non riusciva a formulare una risposta concreta, finché mi accarezzò i capelli a caschetto castano scuro. Mi posizionò le cuffie sulle orecchie e mi sorrise. I suoi grandi occhi diventavano sempre più scuri, a causa di quella brutta emozione che gli divorava lo stomaco e lo impediva di parlare. Ci pensò su un'ultima volta.
«Non pensare. Agire istintivamente. Ecco cosa si fa quando si ha paura.» mise play all'mp3 bianco che mi aveva nascosto per così tanto tempo per il timore che potessi romperglielo. Questa scena della mia vita mi si para davanti ogni volta che la paura mi blocca lo stomaco, riducendolo in poltiglia.
«Non pensare. Agire istintivamente.» continuo a ripetermi, mentre nella mia testa riprendo per la milionesima volta a rileggere quella frase tanto breve quanto intensa. Non finisce qui. Cosa può stare a significare una frase del genere? E chi è stato a scriverla?
Vado di corsa in cucina, evitando di farmi vedere da Ander nel mio stato di confusione totale mista al timore di essere in pericolo. Non mi è mai successo, da quando lo conosco, di essermi sentita così. Cosa sta succedendo? Siamo davvero in pericolo anche qui?
Noto che in cucina non c'è nessuno e il silenzio di questo piccolo cottage sta diventando sempre più pesante. Il panico mi blocca il respiro, rendendo difficile per me anche respirare. Le orecchie mi fischiano all'impazzata e mi sento come se fossi perennemente osservata. Guardo le finestre prive di tende riflettere la luce di quella bella giornata. Apparentemente bella, direi.
Non ho sentito neanche Ander andare via. Non so se è ancora qui. Mi dirigo verso camera di mia madre prendendo dal cassetto delle posate, un coltello. Non si sa mai che possa succedere qualcosa. Voglio dire, cazzo. Qualcuno è entrato in questo benedetto cottage e nessuno se n'è accorto? Ritrovo mia madre tranquilla, sul letto, con alla vista degli occhiali da lettura intenta a leggere un libro giallo.
La porta della sua camera è aperta, ma lei è troppo concentrata per accorgersi di me. Improvvisamente, alza lo sguardo su di me. Ho il coltello ancora tra le mani, mentre continuo a fissare le finestre. Urla, così forte da far ricadere l'arma che avevo prelevato dalla stanza in cui mi trovato prima, ai miei piedi. Mi tappo le orecchie con le mani e, pochi secondi dopo, anche Ander è al mio fianco.
«Cosa sta succedendo?» abbassa lo sguardo sul coltello riposto ai miei piedi. «Cosa cazzo è quello, Bree?» mi chiede, ma decido di ignorarlo completamente. «Sei impazzita?» si dirige verso mia madre, oltrepassandomi, cercando di tranquillizzarla. Gli toglie tra le mani il libro che stava leggendo, mentre man mano riesce a calmarsi. Il coltello è ancora sul pavimento, mentre lei mi guarda incredula.
«Chi è entrato in casa?» chiedo in preda all'ansia con un tono che, dall'esterno, so bene possa sembrare accusatorio, ma ciò che ricevo è solo uno sguardo sconcertato da parte di entrambi. So cosa può sembrare, magari, al di fuori...ma perché avrei dovuto fare del male a mia madre? Non l'avrei mai fatto. Io. Che non faccio del male neanche ad una mosca, neanche ad una formica. Io. Già il fatto di pensarlo, fa ridere.
«Cosa cazzo ci facevi con quel coltello?» continua a chiedermi Ander, in preda alla rabbia e alla confusione. Il suo tono è molto autoritario, ma anche privo di calma. È su tutte le furie e sta cercando di controllarsi, ma ciò che fa infuriare me è la facilità con cui entrambi possano pensare male senza chiedermi prima cosa sia successo.
«Pensi che avrei voluto fare del male a mia madre?» mia madre trema senza spiaccicare una parola. Una singola parola. Né per difendermi, né per accusarmi. Niente. Scossa, resta a guardare un punto fisso sul muro mentre il ragazzo al suo fianco mi lancia un'occhiataccia.
«Forse è meglio che tu vada a riposare.» strabuzzo gli occhi all'udire della sua ultima frase. Non ho voglia di battermi per farmi comprendere. Non ho voglia di avere intorno a me persone che non fanno altro che mettermi in dubbio senza darmi la possibilità di spiegare. Così, ciò che faccio è sbattere la porta lasciandoli nella stanza di mamma. La sbatto così forte senza rendermene conto e, onestamente, senza fregarmene. In questo momento non posso occuparmi di loro. Devo pensare a difendermi.
Chiudo a chiave la porta della mia stanza, per evitare che qualcuno possa disturbarmi, per evitare che loro possano venire da me. Mi reco, nuovamente in bagno. La scritta è ancora lì e sembra mi stia fissando. O forse sono ancora una volta io a sentirmi osservata. Passo uno strofinaccio bagnato sullo specchio, con la paura che mi ribolle nel sangue e la rabbia che attraversa il mio corpo dandomi la sensazione di voler spaccare tutto. Non sopporto il fatto che non mi abbiano dato neanche la possibilità di dire la mia. Sono arrivati subito ad una conclusione infondata, insensata e senza un briciolo di razionalità.
Per quanto sarebbe potuta essere una giornata speciale, questa, si è trasformata in una completamente assurda. Mi sento come se fossi in un film psicologicamente agghiacciante. Il respiro si fa sempre più pesante, per cui decido di raffreddare il mio viso con lo scorrere della fresca acqua corrente. Fortunatamente, tende a calmarmi. Ora come ora, vorrei solo uscire da qui, ma non posso. Come posso spiegare ad Ander che siamo in pericolo anche qui se ora mi guarda con gli occhi di una pazza psicopatica che voleva uccidere sua madre con un coltello da cucina? Credo che le abbia revocato dei ricordi di come si comportava papà nei suoi confronti, ma ciò non significa che io sia come lui o che farebbe tutto ciò lui le ha fatto.
I pugni dall'altro lato della stanza si scontrano sulla porta in legno. Ecco che ritorna, la paura. Forse non se n'è andata, in quel frangente di secondo in cui mi sono sentita così sollevata. Ma è questo che è stato. Un frangente. Il telefono, nel frattempo, inizia a squillare.
«Breanna, apri questa porta.» la voce ovattata di Ander attraversa la mia stanza, come se fosse qui. «Bree, ti prego.» il suo tono insistente, mi urta ancora di più il sistema nervoso.
Il telefono trilla, appoggiato sul letto, e leggo la dicitura che compare sullo schermo: Numero privato. I suoi pugni si fanno sempre più forti, mentre decido di rispondere per capire chi sia. Deglutisco, portandomi un indice sull'orecchio sinistro, per sentire meglio.
«Pronto?» non metto il vivavoce per paura che la persona all'esterno possa sentirmi. Rabbrividisco, fissando l'enorme finestra che ho nella camera, al lato sinistro del letto. Solo ora noto che è aperta e solo ora mi ricordo che non sono io ad averla lasciata così. Decido di nascondere le foto mie e di Ander nel cassetto del mio comodino, ma quando mi dirigo in bagno per prenderle da dov'erano prima, la voce dall'altro capo del telefono mi lascia senza fiato.
«Da quanto non ci si sente, eh Bree?» stringo i denti e serro i pugni. Prendo un respiro profondo, inutilmente. Mi aspettavo succedesse, l'ho sempre pensato. Non mi aspettavo succedesse in questo momento. Mi sono preparata più volte psicologicamente a quest'eventualità, a quanto avrei voluto dirgli. Ma ora tutte le parole sembrano superflue e il suo atteggiamento sta iniziando a farmi davvero paura. Troppa paura.
«Tyler.» cerco di pronunciare il suo nome con tutta la calma possibile, ma la voce mi tradisce ed inizia a tremare.
«Già. Sono io. Lo stesso di sempre, con una gamba metà andata a causa del colpo del tuo ragazzo. So tanto su di te, tanto su ciò che fai...e forse anche ora ti sto osservando, chi lo sa.» il mio cuore sembra bloccarsi per un attimo, mentre la mia voce si fa sempre più flebile. Ander sbatte i pugni sulla porta, nuovamente. Sempre più forte. Mi ripete di aprirla, ma io sono bloccata accanto al letto, con il telefono sull'orecchio destro. Mi accovaccio a terra al mobile vicino alla quale mi trovavo poco fa, appoggiando la schiena ai suoi piedi.
«Che cosa diavolo vuoi?» urlo, con gli occhi lucidi. Il cuore mi martella nel petto, ma non è una bella sensazione. Non è la stessa che provo quando sono con Ander. Lo sterno inizia a bruciarmi per la voglia che ho di urlare; la gola è in fiamme e tutt'intorno a me sembra ci sia silenzio. Non ascolto più i pugni del ragazzo dall'altra parte della porta. Non ascolto più le sue urla, mentre mi dice di aprire, mentre mi dice che è urgente.
«Cosa voglio?» ride amaramente. «Voglio la mia vendetta. Ti consiglio di stare lontana da Ander, altrimenti tuo fratello sarà nei guai.» mi strattono i capelli con le mani. Che uomo di merda è uno che si comporta così, uno che, per evitare che la sua ex sia felice, dice che vuole vendicarsi per mettere in pericolo il fratello. E se davvero fosse così? E se davvero Kyle fosse in pericolo? Il cervello si rifiuta di elaborare quest'informazione che, per quanto impossibile sia, potrebbe davvero succedere.
«No, no, no. Non ti credo.» mi alzo di scatto dalla posizione in cui mi trovo. La paura diventa sempre più prepotente, sempre più forte, al pensiero che mio fratello sia davvero in pericolo, al pensiero che possa essergli accaduto qualcosa di brutto o al pensiero che potrà accadergli di lì a pochi minuti. Il pensiero di dover perdere Kyle mi uccide psicologicamente e mentalmente. Devo fare qualcosa.
«Ah, sì? Prova a renderti conto di quanto tempo fa è il suo ultimo messaggio, cara Breanna. Fossi in te, chiamerei la polizia. Il tempo scorre. Tic tac. Tic tac.» la chiamata viene interrotta da Tyler stesso. Controllo ciò che ha detto il mio ex, per togliermi il dubbio che non sia effettivamente così. Non sento Kyle da un giorno e mezzo.
«Se non mi senti per un paio di giorni, chiama la polizia.» mi aveva detto, ma io, troppo presa dalle situazioni della mamma e di Ander, non ho prestato attenzione ai giorni che passavano e ai suoi messaggi. All'inizio, mi ero ripromessa non dovesse succedere. Mi ero ripromessa di controllare ogni singolo messaggio, di stare sull'attenti...ma ho fallito. Ho fallito come sorella, perché mi sono fatta distrarre dalle situazioni che sono successe qui. Ho fallito come sua amica e confidente, per non essermi accorta della sua mancanza. Ho fallito come persona. Ma ora devo rimediare. Gli invio un messaggio:
BREE: Kyle, ci sei? Come stai? Ti prego, rispondimi.
Nel frattempo, la serratura della porta in camera mia, si gira. So che è Ander, per cui non ho paura. Mi guarda, senza fiato e dietro di lui c'è mia madre. Date le loro facce confuse, credo di avere un aspetto orripilante. Singhiozzo ancora, cercando di prendere fiato, quando loro entrano all'interno della stanza. Ho gli occhi talmente gonfi di lacrime amare che potrei riempire un oceano intero. Il cuore mi fa male, per quanto sia diventato un macigno.
«Da quanto tempo non senti Kyle?» chiede il ragazzo dagli abiti scuri come la notte, con un telefono vecchissimo tra le mani. Non ho nemmeno la forza di risponderlo, né la voglia, ma, mentre sto per farlo, ecco il mio telefono risuona nuovamente riempiendo la stanza. Tutti sono in silenzio, incapaci di parlare. Non rivolgo nemmeno uno sguardo a mia madre. Mi sento tutta intontita e incredula, mentre fisso il cellulare. È Kyle.
«Kyle.» sussurro, rispondendo alla chiamata e mettendo il vivavoce per far sentire la sua voce anche alle persone che sono qui con me.
La giornata non può andare peggio di così, perché dall'altro capo del telefono c'è l'uomo che mi ha reso la vita un inferno che ride divertito, come se ci fosse qualche motivo in particolare per cui farlo. Le lacrime continuano a scorrere lungo il mio viso e tutte le brutte parole che vorrei sputargli contro, mi muoiono in gola, lasciando la mia mente vuota. Solo rabbia e frustrazione provo in questo preciso istante.
«Ciao, figlia mia.»
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