12. È l'ora della verità.
Mia madre è posta dietro di me: riesco a vederla con la coda dell'occhio destro. Si tortura le mani senza tregua, nell'attesa di una mia risposta. Una risposta che non so dare.
Quando è andata via, io e mio fratello ci siamo fatti in quattro per cercarla, mentre lei non ha fatto nulla. Ho un dolore che mi lacera il petto a pensare che sia stata lei ad aver pronunciato quella frase. Lo stomaco inizia a farmi male ed ho addirittura paura che potrei morire. L'ansia mi devasta. Da un lato vorrei dirle che non sono pronta; non sono pronta ad affrontarla, o ad affrontare un discorso così devastante per me. Perché, sì, già so che lo sarà. Dall'altro lato, invece, vorrei proprio ascoltare cosa ha da dirmi. Sono combattuta dentro me: il cuore mi dice di parlarle, la mente mi dice che forse non è il caso ora.
E, mentre il cuore e la mente lottano tra loro per vedere chi ha la meglio, con la coda dell'occhio vedo Ander che mi osserva attentamente, come se dovessi stare attenta alla risposta, come se dovessi star attenta a camminare tra i cocci di vetro senza rompere miliardi di vasi posti dinanzi a me. Odio l'effetto che ha su di me, perché, d'un tratto, è come se la testa e il cuore avessero smesso di litigare e di fare a botte, come se la risposta fosse nei suoi occhi che confermano ciò che penso. Rabbrividisco quando, come se avesse già capito cosa stessi pensando, va via chiudendo la porta dietro di sé.
Nonostante il rapporto tra noi due non sia tutto rose e fiori e, nonostante Ander sia un tipo così tanto misterioso e particolare quanto affascinante, sento che lui riesce a capirmi senza parlare. Di solito capita alle persone innamorate o che si vogliono un bene dell'anima, ma noi non siamo né l'uno né l'altro. Siamo corpi e anime vaganti in un destino già prescelto, impossibili da intrecciare, impossibili da capire. Dalla sera precedente, ho capito che tra noi non può funzionare. Non ha mai potuto funzionare. E va bene così. Non voglio forzare un qualcosa, né costruire un rapporto come se fossimo in due, quando in realtà sono una. Inconsciamente so che è tardi. So che mi sto affezionando, ma non voglio accertarlo. Non voglio rompermi in mille pezzi. Ho bisogno di me stessa e di essere intera.
Proprio per questo motivo, siccome ho dei pezzi dei puzzle che non quadrano, per terminarlo ho bisogno di risposte. Ora posso averle, una volta per tutte. Non lascerò sfuggirmi quest'occasione.
Non so esattamente quanti minuti siano passati prima che mia madre schiudesse le labbra per pronunciare qualcosa, ma mi sono girata nella sua direzione notando che siamo così simili e così diverse allo stesso tempo. Non sento più che c'è un legame che mi lega a lei. È sempre mia mamma, certo, ma non è la stessa di prima e non potrà tornare ad esserlo così facilmente. Sono passati ormai due anni, in cui a noi è successo di tutto. Sono sicura che sia successo qualcosa di terribile anche a lei. Sarebbe potuta andare diversamente.
Ed eccomi qui. In una casa quasi al di fuori dal mondo, con una delle persona che mi ha fatto più male in vita mia. Non chiedevo molto: avrei voluto un padre presente al momento del mio diploma, quando si mostrava esultante e fiero di me sulle sedie poste di fronte al palco del liceo. Avrei voluto un padre pronto a sorreggermi nel caso in cui stessi affogando nell'enorme vuoto che ha il mio cuore. Avrei, poi, voluto una mamma con cui parlare quando ne sentivo il bisogno, a cui poter dire qualsiasi cosa senza paura che mi giudicasse. L'avrei voluta accanto quando papà ha iniziato ad intraprendere quel giro che ha portato allo sfascio della nostra famiglia. L'avrei voluta accanto mentre mi mentiva dicendo che sarebbe andato tutto alla perfezione; l'avrei voluta accanto quando il mio ex ragazzo, quello che a lei piaceva da impazzire, mi ha violentata. Avrei voluto non essere un peso per mio fratello e che egli non si fosse spezzato la schiena per farmi da mamma, da padre, da fratello stesso, da amico e confidente. Avrei voluto esprimere la devozione nei suoi confronti prima che lui andasse via con papà. Avrei voluto dirgli che sono quello che sono grazie a lui e ai suoi sacrifici, ma ora non posso.
Vorrei che il dolore che provavo due anni fa, che a volte mi distrugge l'anima, la provassi ora. Ma, purtroppo, la osservo e non provo nulla se non indifferenza.
Le rughe le contornano gli occhi ormai sorridenti in quando capisce la risposta alla sua domanda. Le sue iridi racchiudono speranza. Quella che ho avuto io quando lei è andata via, quella che ho avuto fino ad un anno prima, quando mi sono arresa alla speranza che sarebbe tornata. Piccole ciocche di capelli bianchi le contornano il viso, dandole più luce. Quando ero bambina, mia madre era in fissa col fatto che dovesse essere sempre in ordine per evitare che i vicini parlassero male di lei. Lo faceva anche quando le veniva fatto del male. Nascondeva i lividi col trucco, ma quando tornava a casa, non era la stessa persona che osservavano i vicini: si lasciava prendere dallo sconforto e, spesso, restava senza mangiare per uno o due giorni. Le si legge sul viso tutto il dolore e tutta la stanchezza che ha provato nella vita. Mi chiedo cosa le sia successo in quest'arco di tempo.
Mi prepara una tazza di the verde, poi ci dirigiamo sulla parte posteriore della casa: ha una base in legno al di sopra del quale vi è un piccolo tavolo rotondo dello stesso materiale di almeno sessanta centimetri e due sedie coperte da cuscini bianchi. Le stesse sedie su cui io e Ander ci sedavamo quando non avevo nemmeno la voglia di parlare, ed il silenzio faceva sembrare le stelle più belle.
Mi siedo, girando col cucchiaio il the che non berrò perché ci sono circa trentasei gradi. Mia mamma amava bere il the caldo anche in piena estate, ed io amavo berlo con lei perché ero convinta che potesse avvicinarci di più. Ma ora tutto è cambiato così tanto, che lei sa nemmeno come sia ora il mio carattere. Stringo la tazza quasi come se volessi romperla, poi la poso sul tavolo in legno, incrociando le braccia al petto e aspettando che inizi il discorso.
«È tutto così...complicato.» alzo gli occhi al cielo cercando di trattenermi dall'urlarle contro che è stata lei a chiedere di parlare. Sto raccogliendo tutta la pazienza dell'universo e non mi riesce molto bene.
«Ho tutto il tempo del mondo.» rispondo aspra come un limone. Mi stringo nelle spalle, appoggiando la schiena sullo schienale della sedia. Lei sospira, affranta. Alzo un sopracciglio: cosa si sarebbe aspettata? Non capisco.
«Prima che io e tuo padre ci conoscessimo, io conobbi un altro uomo. Si chiamava Mark.» la fisso, incuriosita da ciò che mi dirà. «Lui era bellissimo, dalla pelle scura con gli occhi castani e i capelli rasati. Aveva un sorriso così bello che tutti si giravano a guardarlo. Era l'opposto di tuo padre: premuroso, dolce, mi riempiva di attenzioni... Era come se vivessi in una favola. Ai tuoi nonni, Mark piaceva tantissimo.» si ferma accarezzando il bordo della tazza di porcellana bianca, mentre sorride come una bambina a quel ricordo. Prende un lungo respiro e continua evitando di guardarmi negli occhi.
«Poi avemmo un brutto litigio a causa della sua ex: eravamo ad una festa, io mi allontanai e quando tornai da lui, notai che la sua ex, Shyla, lo stava baciando. Era come se si fosse fermato tutto. Lui mi notò e mi corse incontro cercando di darmi spiegazioni. Non volli ascoltarlo. Così, fummo distanti per un po', fino a quando scoprii da una lettera che mi inviò la sua famiglia...» prende una pausa per respirare, mentre gli occhi le si riempiono di lacrime. «...che lui era partito per la marina militare.»
Arriccio il naso cercando di capire il senso di questo discorso, ma non lo trovo per niente. La donna che mi ha partorito, inizia a piangere e quasi mi spezza in due vederla così...ma non riesco a muovere un dito. Non riesco a darle un conforto. Se qualcuno vedesse questa scena al di fuori, penserebbe che io sia senza cuore.
«I-io...Ero incinta.» annuncia con voce incrinata, scioccandomi. Spalanco gli occhi per lo stupore: ho un fratello o una sorella e non ne sapevo nulla? Mi chiedo se Kyle lo sapesse e se mi avesse tenuto nascosto anche questo.
«Cosa?» lei annuisce, come se si sentisse colpevole. Vorrei dirle che non lo è, che è stato il frutto di un amore. Vorrei chiederle dov'è andato Mark e dove sia il bimbo o la bimba che ha portato in grembo in quel periodo. Ma non ci riesco. Ho così tante domande, ma non riesco a pronunciarne nemmeno una.
«Quando lo seppi, avrei voluto inviargli una lettera per dirgli di chiamarmi...Il destino, però, è stato più veloce di noi.» sorride in modo nostalgico, mentre le lacrime continuano a scorrerle lungo le guance. Le sue labbra carnose si curvano verso il basso. Prosegue, singhiozzando: «Mi arrivarono due lettere: una scritta da Mark e l'altra scritta dalla sua famiglia. Quella scritta da Mark fu l'ultima che ricevetti perché...lui morì in missione.» quasi urla per il dolore ed, istintivamente, mi tappo la bocca con le mani con espressione incredula. Non avrei mai potuto credere che avesse vissuto tutto ciò.
«I-io avevo c-così p-paura...» continua a balbettare, mentre le lacrime sono come un fiume in piena sul suo volto. «...ero da sola. Non c'era Mark, non potevo contare su nessuno. E, una volta nato il bambino, ho deciso di abbandonarlo fuori ad una chiesa abbandonata. All'epoca alcuni si recavano lì per pregare, ma c'era il rischio non si presentasse nessuno.» quasi provo ribrezzo per questa donna, non la riconosco nemmeno. Come si fa ad abbandonare un bimbo che hai avuto in grembo per nove mesi? Come ha potuto vivere tutti questi anni senza cercarlo? Come ha potuto tenerci all'oscuro di tutto ciò?
«Poi ho conosciuto tuo padre. All'inizio anche lui era come Mark...con la sola differenza che lui non conosceva nulla di lui né del bambino. Una volta eravamo al parco insieme, io e tuo padre, e lo vidi: era lì, bello come il padre. La pelle era mulatta e aveva il mio sorriso. I capelli ricci gli ricadevano sulla fronte, rideva di gusto. Giocava con gli altri bimbi e aveva una vita migliore di quella che avrei potuto dargli io.» un groppo mi si ferma in gola facendomi quasi soffocare. La donna che una volta avrei potuto dire di conoscere con le mie tasche si sta rivelando una sconosciuta per me; l'opposto di quella che mi ha cresciuto.
«Quando è nato Kyle, andava ancora tutto bene. Poi nascesti tu e da lì le cose sono precipitate. Una sera avevo la febbre così alta da delirare e dissi il suo nome davanti a tuo padre. Ero in preda al delirio, non distinguevo più cos'era vero e cosa falso. Mi è sembrato di vedere Mark sorridermi: gli dissi che mi mancava come l'aria. Gli dissi anche che mi sentivo così in colpa di aver abbandonato nostro figlio.» abbassa lo sguardo sulle sue mani, torturandosele. Mi perdo in uno stato di trance, mentre lei pronuncia il suo discorso. Non avrei potuto immaginare tutto questo.
«Poi, sono iniziati gli atti di violenza che già conosci e che hai dovuto subire anche tu.» rivolge, finalmente, lo sguardo a me. Lo incrocio e lei mi prende la mano che ho posato delicatamente sul tavolo pochi secondi prima. La stringe, scrutando ogni mio movimento con gli occhi colmi di lacrime amare. ''La colpa è stata la mia dal principio per averlo tenuto all'oscuro di tutto, quando bastava semplicemente dirgli la verità dall'inizio... ma non ci sono riuscita. Non volevo che mi guardasse come mi stai guardando tu ora." abbasso lo sguardo per l'ultima frase pronunciata. Non posso spiegare a parole cosa provo perché sono la prima a non saperlo: provo un mix di emozioni, disgusto, rabbia, amarezza. Quest'ultima e forse la parola più giusta. Amarezza. Forse sarebbero andate diversamente se solo lei avesse parlato. Forse nessun ragazzo sarebbe stato abbandonato. Forse saremmo andati a vivere noi tre insieme a lui per fargli capire che ci saremo stati per lui.
«Ho sbagliato e lo so Bree, ma non ho potuto fare diversamente.» alza il tono della sua voce un po' in più. La mia espressione credo sia glaciale e senza un'emozione ben precisa, perché lei mi guarda con un'espressione ferita allontanandosi da me.
«Due anni e mezzo fa, ho raccontato tutta la verità a Kyle, che mi ha consigliato di andar via, ma non avevo soldi. Per questo mi ha dato la maggior parte di quelli che aveva messo da parte per il college per sé e l'altra parte l'aveva conservata per te.» mi volto verso di lei, fulminandola con lo sguardo mentre le mie iridi si riempiono di lacrime grandi quanto una casa. Mio fratello non è potuto andare al college per far scappare mia madre. Aveva inventato di non volerci andare perché aveva perso la voglia di studiare...erano tutte cazzate.
«Tuo padre era d'accordo sul fatto che andassi via, ma gli unici risparmi a disposizione erano quelli di Kyle. Era all'inizio di...» lascia la frase in sospeso, facendo intendere che si riferisse al giro di papà. Prende fiato.
«Perciò ha accettato che prendessi i soldi di tuo fratello, con la promessa che glieli avrebbe restituiti lui. Ora mi corrisponde un assegno mensile per le spese...ma mi sento così sporca e subdola.» in un'altra circostanza, le avrei detto che in realtà fa bene a sentirsi così, perché lo è. Subdola. La gola mi pizzica così tanto che una lacrima solitaria percorre il mio viso, lasciando un segno su di esso pronto a scomparire quando la scaccio via. Mi dispiace per la vita che ha dovuto passare mia madre, ma mi dispiace ancor di più per quella che ha dovuto passare mio fratello. Per le rinunce che ha dovuto subire, per le grida, per i litigi, per aver preso questa decisione così matura e dolorosa a soli ventuno anni, per essere stato forte per così tanto tempo senza chiedere un briciolo di aiuto. E mi maledico per non essermi accorta di niente. Avrei potuto aiutarlo, ma non l'ho fatto perché non l'ho capito quanto stesse male affrontando tutto ciò e quanto fosse difficile per lui. Le sue parole mi sembrano ormai troppo, ma quando penso sia terminato il suo discorso, è lì che prosegue.
«Nel periodo in cui sono stata fuori vi ho mandato lettere, messaggi, a cui non ho mai ricevuto risposta. Per questo ho chiesto a tuo padre e ho saputo che bruciava tutto per farvi credere vi avessi abbandonato, per paura che potessi dirvi la verità. Proprio per questo sono venuta a cercarvi personalmente. Ho trovato Kyle un mese fa a Scottsdale, mi ha chiesto un favore in cambio dei soldi che dovevo restituirgli: di essere reperibile in qualsiasi momento, nel caso in cui ne avesse avuto bisogno...per te.» non è più capace di sostenere il mio sguardo, infatti non lo fa.
«Quando è successo quello che tutti noi abbiamo visto in tv, mi ha chiamato chiedendomi di proteggerti insieme ad Ander, di cui non si fida al cento per cento dopo...tutto ciò.» sto in silenzio perché non so cosa dire esattamente. Lo stomaco mi fa male dal nervosismo. Vorrei dirle tutto ciò che penso, ma il dolore mi impedisce di parlare. «Ho provato a cercare anche mio figlio, ma sembra sparito dalla circolazione.» aggrotto le sopracciglia. Com'è possibile?
«Come si chiama?» chiedo. Forse è qualcuno che ho visto al college, o che Leila conosce.
«Ethan. Ethan Harris.» Harris. È un cognome che ho già sentito. Ad un certo punto spalanco gli occhi coprendomi le labbra con le mani, incredula di ciò che ho appena sentito. Mi torna in mente quella frase:
«Lui è Ander Harris. Devi stare assolutamente lontana da lui.»
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