11. Solo per lavoro.

Resto lì impalata con gli occhi spalancati, incapace di parlare. Quando è successo tutto quel casino tra il ragazzo che ho ora di fronte a me e quello che ho amato più di me stessa, sono stata soggetta a numerosi attacchi di panico e notti insonni a guardare le stelle per smettere di pensare. Avevo davanti agli occhi sempre la stessa scena. Nell'arco di queste due settimane, non nego di aver pensato di raggiungerle. Ho pensato che forse sarebbe stato meglio, che forse avrei messo fine alle mie sofferenze. Ma, poi, ho pensato a Kyle: ho pensato a quanto fosse dura la battaglia che stava combattendo contro papà; ho pensato che, inconsciamente, entrambi sappiamo che lo stava facendo per me. Non era un tipo da grandi parole, mio fratello, ma sapeva dimostrarmi quanto mi amava.

Non riuscivo a guardarmi per troppo tempo allo specchio, perché sentivo le sue mani addosso, quelle che mi sfioravano e mi palpeggiavano senza il mio consenso. Mi sono chiusa in un silenzio disastroso, quasi assordante. A volte è capitato che sia stata irritante con i miei ''coinquilini'': non volevo parlare con nessuno, neanche con Leila, che mi incitava a rialzarmi per andare avanti. Io pensavo a quanto fosse semplice giudicare per chi era al di fuori, per chi non le vive in prima persona queste cose. È capitato succedesse anche a me, non lo nego, ma solo quando succede a te, in prima persona, capisci gli altri come si sentano in momenti così.

Quando non volevo parlare con la mia migliore amica, c'era Ander a starmi vicino in silenzio. Non mi pressava. E a me andava bene così. Mi diceva che stare in silenzio e tenermi tutto dentro non era la cosa giusta e che lui ci sarebbe stato qualora mi fossi decisa a sfogarmi. Inutile dire che non è successo: non vorrei che i miei problemi fossero accollati ad altri. Quando volevo farlo, quindi, mi chiudevo in me stessa dicendomi che era tutto passato, che il meglio doveva ancora arrivare...ma solo Dio sa che ogni volta che lo ripetevo, non riuscivo a capacitarmene, perché mi sentivo le sue mani addosso, impresse sulla pelle come un tatuaggio, ormai indelebile.

Ho scritto il messaggio a Taylor una sera in cui Leila era in bagno, ignara di ciò che mi stesse succedendo, ed Ander non era ancora rientrato. Ero reduce da un attacco d'ansia che sto imparando a gestire ora come ora, per cui la prima cosa che mi è venuta in mente è stata scrivergli, chiedergli come stesse. Stupida mossa, senza dubbio, ma ho questa parte di me così empatica da farmi fare scelte sbagliate, senza che lo pensi.

Gli occhi iniettati di sangue di Ander mi fissano, mentre sta seduto sul letto e ha un pugno chiuso alla destra del mio cellulare. Vorrei potergli raccontare che so che era uno sbaglio, ma ho voluto farlo per me. Oltretutto, anche lui mi ha nascosto delle cose e chissà quante ancora me ne stia nascondendo. Serro i pugni. È l'ultima persona sulla faccia della Terra che potrebbe dirmi come e cosa fare in questo momento. Sono passate due settimane ed ancora non so nulla di lui!

Mi avvicino al letto chiudendo gli occhi in due fessure e gli punto un indice contro. Lui aggrotta ancora di più le sopracciglia, con aria minacciosa.

«Tu vorresti dirmi cosa non devo fare?» come se fosse un fulmine si alza, prendendomi per i polsi e sbattendomi vicino al legno della parete della stanza. Digrigna i denti, poi mi lascia andare. Ha la giugulare che gli pulsa, insieme a quella vena posta al centro della sua fronte liscia. Mi guarda negli occhi, senza mai distogliere lo sguardo. Un brivido percorre la mia spina dorsale.

«Non fare la stupida. Sono qui per questo.» rido amaramente a questo contrattacco. Mi passo una mano tra i capelli e distolgo lo sguardo da lui per un secondo, per poi tornarvici con uno più prepotente.

«No! Tu sei qui per proteggermi. Lasciami respirare! Sei tu che mi hai messo in questo enorme casino del cazzo.» gli appoggio un dito sul petto muscoloso privo di qualsiasi indumento. Solo dopo mi accorgo di ciò che ho fatto. Non ho mai toccato Ander. Ma, nonostante ciò, non tolgo il dito da dov'è posizionato. I suoi occhi diventano più scuri, come se assumesse un'espressione delusa ed incredula allo stesso tempo.

«Ti devo lasciar respirare, Breanna? Porca miseria, sono sempre dietro a te per sorvegliarti e guarda che cazzo combini. Cosa ti passa in quel cazzo di cervello? Mi stai ostacolando nello svolgimento del mio lavoro!» si strattona i capelli ormai quasi asciutti, allontanandosi da me così velocemente che sembra che abbia l'ebola. Mi gratto la nuca, senza abbassare però lo sguardo verso il pavimento. So che sto sbagliando, so che sono testarda, ma non mi va di dargli ragione. Ormai lui si trova dall'altra parte della stanza e, nel frattempo, stringe tra le dita il suo labbro inferiore. Lo fa spesso quando pensa o quando è arrabbiato.

«Vorresti dirmi che lo starmi accanto quando ne ho bisogno oppure il fare il cretino quando mi vedi più giù di morale, lo fai solo per lavoro?» urlo, con gli occhi che mi pizzicano. Gira il volto nella mia direzione e proprio in quel momento mi chiedo come abbia fatto ad essere così sfacciata. Il suo sguardo è così intenso che sembra non ci sia più nulla intorno a noi. Mi guarda per un secondo, poi prende un pacchetto di sigarette dal comodino. Ne sfila una e se la accende, aprendo la finestra.

Se ve lo state chiedendo...sì, Ander fuma, ma solo quando è al limite della sopportazione. È come una valvola di sfogo per lui. Quando due settimane fa è successo quel che è successo, si è fumato un pacchetto di sigarette in non so quanto tempo. So solo che quando mi sono svegliata, poi, c'era una puzza di fumo così forte da occupare tutta la sala pranzo.

«Perché dovrei farlo altrimenti?» fissa il cielo ormai diventato blu scuro. Scuro come il mio umore; scuro come il suo. «Vai a dormire.» mi ordina, mentre aspira il fumo per poi inspirarlo. Non mi piace questa sua lontananza, ma non mi arrendo. Mi avvicino a lui, bloccandomi a due passi di distanza. Lui mi guarda con la coda dell'occhio, ma non si gira verso di me. Ormai, lacrime solitarie scendono sul mio viso come fiumi in piena, senza che io possa controllarle. È la prima volta che mi mostro così fragile davanti a qualcuno che non sia Leila. Deglutisco, cercando di prendere fiato.

«Rispondimi, Ander. Rispondimi guardandomi negli occhi.» i miei occhi colmi di lacrime appannano la mia vista. Me li strofino, velocemente. Riaprendo gli occhi, lo colgo a fissarmi con uno sguardo più vuoto di me in questo momento. Mi guarda negli occhi, così come gli ho chiesto, senza alcuna espressione o sentimento.

«Lo faccio solo per lavoro.» mi conferma. Non so perché, ma quella frase mi ferisce più di ogni altra cosa. Anche se non voglio, inizio a singhiozzare di fronte a lui che guarda il cielo dalla finestra con la sigaretta tra le labbra. Non mi rivolge un singolo sguardo. Nemmeno uno.

Mi sento come se mi fossi umiliata dinanzi ad una persona che non merita gli dia tutta questa importanza. La situazione è degenerata in pochi secondi e questa stanza sembra mi stia soffocando, nonostante ci sia la finestra aperta. Ho sentito il cuore spezzarsi in trecentomila pezzi dopo che lui ha pronunciato quelle parole, così ricche di significato per me. Non so esattamente cosa mi aspettavo. Non so perché ci speri ancora in un qualcosa che non può mai e poi mai esistere. Mi sento messa in ridicolo da me stessa. Mi sono fatta vedere in questo stato davanti a lui.

Così, senza dire una parola, tra i miei singhiozzi e il silenzio assordante che circonda la stanza, prendo il mio telefono e mi reco nella mia, mentre mi trovo alle prese con un cuore rotto da un ragazzo che vive nello stesso luogo in cui vivo io. Non immagino come sarà domani.

***

Oggi è una pessima giornata perché farò colazione con le due persone che non sopporto di più al mondo in questo momento: mia madre e una specie di babysitter che mi è stato assegnato circa due settimane fa di cui non voglio pronunciare neanche il nome. Per quanto riguarda mia madre, sicuramente avrà sentito tutto il casino che abbiamo fatto io e quel semisconosciuto. Non mi meraviglierei se la trovassi a guardarmi con l'aria interrogativa di chi vorrebbe fare il quarto grado a prima mattina. Non mi capacito come sia tornata qui senza un briciolo di senso di colpa, di come si sia presentata in modo così spavaldo. Io non l'avrei mai fatto. Sembra essere tornata per darmi la coltellata finale a tutto ciò che mi sta succedendo in questo periodo.

Ieri sera, dopo la discussione con Ander, mi sarei aspettata un suo messaggio. Un messaggio che non è mai arrivato. Mi sono svegliata più volte quella notte per controllare se ci fosse un messaggio da leggere, ma niente. In altre occasioni, ci avrei scherzato su dicendo che magari era stato un messaggio che si era perso per strada, ma ora non ho nemmeno la voglia di vederlo. Chissà se non l'ha fatto a causa del suo orgoglio, o perché non ci ha minimamente pensato di farlo. Io direi la seconda.

Vorrei scappare da entrambi e non ho nemmeno Leila a sostenermi in questo momento. Quanto mi manca. Ah, a proposito di Ley, mi ha detto che ha conosciuto un ragazzo a Sedona, città in cui vivono i suoi genitori. Si chiama Ryan. Mi ha detto che è dolcissimo con lei e che la tratta come nessuno ha fatto mai. Spero davvero sia così. Sono felicissima per lei perché se lo merita, ma ammetto di essere un po' invidiosa per la vita normale che sta conducendo. Per me, oramai, sembra lontana anni luce. Sono segregata in una casa da due settimane e mezzo in cui è successo di tutto.

Mi siedo al tavolo posto nella stessa posizione in cui è rimasto la sera prima, con gli occhi incollati al cellulare per ignorare sia mia madre sia lui. Non ne ho voglia. Appena poso il cellulare sul tavolo bandito di waffle e pancake di tutti i tipi e gusti, eccolo che arriva.

«Buongiorno.» Ander in cucina con un'aria così allegra da essere irritante, come se non avessimo avuto un pessimo litigio ieri. Alza un sopracciglio quando nota tutta la roba che mamma ha preparato. «Signora Handerson, non doveva disturbarsi.» si gira verso mia madre, intenta a lavare le ultime padelle utilizzate. Gli sorride a trentadue denti, con un sorriso così luminoso da accecare il sole.

Alzo gli occhi al cielo, già stufa di tutti e due, e dalle mie labbra fuoriesce istintivamente un lieve mugolio. Noto il loro sguardo su di me, ma non m'importa minimamente. Ignoro entrambi, evitando di rivolgere uno sguardo neanche per sbaglio. Non voglio che inizino a tempestarmi di domande o, peggio ancora, che mi guardino con pietà per aver sbraitato ieri sera. La stanza sembra subito troppo stretta per noi tre. Bevo velocemente un bicchiere di latte e poi vado a cambiarmi nella mia camera, indossando un pantaloncino di jeans ed una canotta azzurra. Prendo il cappello bianco di mio fratello e mi dirigo verso la porta, aprendola per poter uscire.

«Dove vai?» con la coda dell'occhio sinistro vedo che ha le braccia incrociate al petto, posizione che mette in evidenza i suoi bicipiti. Indossa un pantalone nero lungo e una canotta dello stesso colore. Mi giro verso di lui. Ora che lo noto meglio, è vestito completamente di nero. Gli scocco un'occhiata perplessa, ma subito torno in me, utilizzando il mio tono arrogante.

«Non puoi saperlo.» mi giro verso la porta ed esco, senza aspettare una sua risposta. Mi fermo respirando l'aria pura del lago che è di fronte a noi, a pieni polmoni. Non vedevo l'ora di immergermi nella natura.

Abbiamo la natura proprio di fronte alla porta di ingresso, ma siccome sono state settimane molto caotiche, era meglio non farsi vedere. Nonostante sia una zona isolata quella in cui ci troviamo, non si sa mai sarebbe potuto succedere qualcosa di inaspettato. Per questo, Ander ha cercato di ''rinchiudermi'' per il mio bene. Gli uomini di papà sono così subdoli e spietati che potrebbero trovarci da un momento all'altro in qualsiasi posto. O almeno, così aveva detto lui. Non so come faccia a saperlo però. Pochi secondi dopo sento la porta dell'entrata che si chiude e la sua figura possente mi affianca.

«Bella giornata per passeggiare vero?» dice alzando lo sguardo verso il cielo chiaro, con le mani riposte nelle tasche dei pantaloni. Nell'aria si sentono gli uccellini cantare, ma non riesco a godermi bene ciò che mi circonda e a rilassarmi se c'è lui al mio fianco che non fa altro che irritarmi.

«Perfetta per non passeggiare con te.» lo sorpasso per qualche metro, raggiungendo la foce del lago dall'acqua perfettamente pulita su cui ci si può specchiare tranquillamente. Mi specchio in essa e mi accorgo che c'è una figura dietro di me. Mi giro nella sua direzione lanciandogli un'occhiataccia. Lui alza le mani in segno di resa, con un sorriso divertito che gli spunta sul viso. Quanto vorrei prenderlo a schiaffi.

«Lo faccio solo per lavoro.» ripete la frase della sera precedente, divertito. Sa che così mi fa incazzare ancora di più, ma non evita di farlo. Anzi, sembra lo faccia addirittura apposta. L'avevo detto che era bipolare: la sera prima mi dice una cosa ed ora mi sta incollato come una cozza. Se solo sapesse quanto mi ha fatto male... Sbuffo e mi dirigo nuovamente in casa. Siccome non posso star tranquilla qui, tanto vale che resto nella mia stanza. Almeno lì sono sicura che sarò da sola.

Lui mi segue come un cane segue il suo padrone, restando però in guardia. Appena metto piede in casa, la donna che mi ha partorito mi guarda con un'espressione stranita, come se volesse chiedermi il perché del nostro imminente ritorno. Ma non lo fa. E, onestamente, credo sia meglio così. Sto per dirigermi in camera, quando la sua voce mi fa bloccare:

«Bree...posso parlarti?»

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