My mommy, my love

Os,
Bakudeku

Parole: 2200

💣

Mamma e papà m'hanno cresciuto scambiandosi il bacio del buongiorno e della buonanotte. La strega non faceva che guardarlo, il vecchio non faceva che sorriderle. Un tipo d'amore come il loro non si può spiegare. Quando cresci con un esempio come questo è difficile tenere gli standard bassi. Capirai perché sono così, o almeno lo spero. Loro mi hanno trasmesso tutto. Sai quelle cazzate sui bambini e la loro mente assorbente, la spugna dei primi anni, no? Ecco, tutto quello. Mio padre mi ha insegnato a fare torce con il legno e a picconare sui grilletti della tenda, mamma mi ha insegnato a giocare con i cuori, a farcirli di adorazione. Credimi quando ti dico che non c'è donna che io ami - e che amerò mai - più di lei. Non lo ammetterei neppure sotto tortura, ma quella vecchia è la ragione di ogni mia vittoria, di ogni mio traguardo. Se vuoi scoprire qualcosa di me, guarda mia madre. Quella donna mi ha reso ciò che sono, nel bene, soprattutto nel bene. Da lei ho strappato ogni pezzo necessario, da mio padre ogni pezzo utile.

La vecchia mi ha insegnato a resistere.

"Non importa quale tempesta ti travolge, tu resisti Katsuki. Con la forza di mille querce, tu resisti. In piedi. Dillo" mi diceva da bambino. Mi prendeva le mani e m'inchiodava addosso quegli occhi rossi rossi.

Piccolo ma già tremendo, ripetevo tutto quello che le usciva dalla bocca.

Per me, lei era Dio. Quando sei così piccolo e qualcuno di così grande, di così istruito, di così perbene, ti dice determinate cose poi cresci in quel determinato modo. Mia madre mi ha piantato davanti ad una via fatta di spine, ma che alla fine portava al Sole stesso. Non ci sono mai state mezze misure per lei, lo stesso è stato per me. Lei sfidava la sorte, io sfidavo la sorte. Lei usciva la sera, io l'aspettavo alla finestra finché i fari della sua auto non proiettavano le luci sul vialetto di casa. E poi mamma ha tutto quello che manca alle donne con le quali sono stato. Mamma è bella. Bella di una bellezza eterea, diabolica. Ha le labbra piene, rosse, il viso bianco, gli occhi lunghi come quelli dei gatti. Ha tratti spigolosi, taglienti come pietra. Me li ha trasmessi. Ha le mani lisce, piene di venuzze verdi, eleganti nei gesti, sia quando taglia le cipolle, sia quando sfoglia i libri contabili della sua azienda.

Lei mi metteva a letto, mi dava un bacio sulla fronte, mi lisciava la coperta. Prima di spegnere la luce, si fermava in mezzo alla stanza, si chinava verso di me, sussurrava parole che mi sono rimaste impresse a fuoco nella testa.

"Non ti dimenticare mai che cosa vuoi. Che cosa stai cercando dalla vita."

Ancora oggi, la notte, quando vado a dormire ripenso alle sue parole. Al modo in cui muoveva la bocca e soffiava fuori il fiato necessario a marchiarmele per bene. Mamma era la collana di perle che portava al collo, le unghie corte e pulite, sempre lucide di smalto, i tacchi che sbattevano sul pavimento, la macchina che sapeva di pulito, di pelle nuova, di motore. Una donna come lei non l'ho più trovata. Era nei gesti, nelle azioni, nelle operazioni più semplici che mi colpiva. Non l'ho mai vista crollare, non l'ho mai vista piangere.

È mia madre, mi dicevo da bambino, è la mia mamma. Una forza della natura.

A volte mi chiedevo come facesse mio padre a starle dietro. Una come lei che si lasciava trainare dal vento e trainava gli altri. Mio padre sembrava afferrare fumo. Eppure, lui le stava accanto e sorrideva. Se c'era mia madre in stanza, lui pareva vedere il Sole in persona. Sorrideva come uno scemo, la mostrava a tutti. Mia moglie, diceva, la mia bellissima moglie. E lo stesso faceva con me. Non ho mai saputo perché io gli piacessi tanto. Si svegliava la mattina e mi lasciava cioccolatini a forma di coccodrillo sul comodino. Quando ho fatto dodici anni ha guidato fino a Tokyo, mi ha portato in un locale pieno zeppo di giochi per la PlayStation e mi ha detto di prendere tutto quello che volevo. A sedici mi ha comprato un'azienda e c'ha messo il mio nome. A venti un appartamento.

Non è mai stato assente neppure dal lato sentimentale. Mi ha sempre supportato, mi raccoglieva quando cadevo a pezzi, mi stringeva forte quando piangevo, puliva tutto quello che rompevo quando ero arrabbiato. Non strillava mai, non spaccava le cose, non mi picchiava. Mi baciava la fronte, mi portava a fare le scalate, mi ha insegnato ad accendere il fuoco.

Mi sono sempre chiesto perché mamma abbia voluto lui. Lei che poteva scegliere tra miliardi di maschi; belli, brutti, alti, bassi, magri, in carne, ha scelto proprio mio padre. Non che sia brutto, non che sia basso, non che sia stronzo. Ma è normale. Non bellissimo, non atletico, non straordinario. Tuttavia, lui per lei è il mondo.

Non li ho mai visti litigare. Discutevano come ogni altra coppia, ma lui l'ha sempre trattata come una principessa e lei ha sempre trovato un accordo per far valere le ragioni di entrambi.

Mamma e papà.

Mi veniva naturale pensare che tutte le famiglie fossero come la mia. Ancora adesso sono condizionato al pensiero che mia madre viva in te. Quando ti guardo, me la ricordi. Mia madre non ti somiglia neanche un po', non condividete la grinta o la rabbia dolorosa con la quale lei porta avanti le sue battaglie, però, rivedo in te tratti che da bambino erano solo di lei. Quando sorridi, quando fai la spesa, quando mi prendi la mano se camminiamo in strada. Devo girarmi a guardarti perché improvvisamente mi dimentico quale dei due sia lì con me. Mamma o Izuku? Ti guardo, riscopro i tuoi tratti. Izuku, dico a voce alta, come a voler rassicurare il bambino che ha rivisto sua madre.

Mi ha sempre fatto paura questo, specie quando siamo cresciuti. Alle medie eri diventato così distante da me che per avvicinarti non potevo fare altro che scacciarti. Pensavo che sarebbe stato meglio così.

Meno sofferenza tu, più dolore io.

Io sono bravo a reggere, te l'ho detto, ma a te non è mai piaciuto affibbiare dolore agli altri. Sei uno di quegli stronzi che si trascinano sulle spalle le colpe sue, del prossimo e del suo stesso nemico. Quanto ti ho odiato, Izuku, quanto mi sono odiato. Trattarti male non è mai rientrato nei piani del mio cuore. Vederti piangere, col tempo, ha fatto sempre più male. Se prima era una crepa, ora è una vera e propria tortura. Mi sento squagliare ogni volta che ti si fanno gli occhi lucidi. Ho rivisto in te, i tratti che prima erano di mia madre.

Quando sono cresciuto ho iniziato a vedere anche i suoi difetti, le cose che lasciava incomplete, i problemi che mi aveva lasciato da risolvere. Non era una santa. L'ho vista fare a pezzi uomini con la sola forza della lingua, ma vacillare davanti a una donna che l'accusava di tradimento. Mamma cedeva. L'ho vista. Ho visto i cardini rompersi, il telaio venir giù. Mamma non era invincibile, era umana. Fatta di sangue e ossa. E sbagliava.

Anche mio padre sbagliava. Sbagliava nel rientrare tardi, nell'essere sempre disponibile, nel chiudere gli occhi davanti ai tradimenti delle persone. Lui mi ha insegnato, innanzitutto, che per quanto buono puoi essere, le persone se potranno ti fotteranno sempre. Ho perso il conto di quante volte l'ho visto disperarsi per l'aiuto che non è riuscito a dare, per l'amico che non è riuscito a vedere, per i progressi che non riusciva a portare avanti. Io e mia madre siamo fatti di una scorza più dura, siamo rocce inscalfibili. Eppure, ci corrodiamo. Mio padre è come l'erba, un soffio silente nel prato, accorciabile, modellabile, indulgente, resistente a modo suo.

La vecchia dice che quando sono nato lui mi ha preso tra le braccia ed è scoppiato a piangere. Dice che tra i singhiozzi è riuscito a mormorare solo tre parole: "La mia vita." Me lo hanno sempre fatto presente. L'unico figlio che avevano voluto, l'unico bambino a cui hanno cambiato i pannolini, a cui hanno dato il bacio della buonanotte, a cui hanno visto muovere i primi passi.

Oggi, quando sei andato via, ho visto una foto. Ho frugato nei cassetti alla ricerca delle tue dannate cuffie col filo, - quante volte ti ho detto di comprare quelle bluetooth - e le mani mi si sono fermate su quell'istantanea. Ho sempre detestato le polaroid, tu le ami. L'ho presa, l'ho stretta con entrambe le mani, ho osservato le tre figure al centro. Capelli biondissimi, occhi rivolti al cielo, sorrisi. Mia madre, mio padre, io. Eravamo nella mia cameretta, c'erano le tende che aveva scelto mamma, i muri che aveva pitturato papà. Dovevo avere poco più di tre anni, mio padre mi teneva sospeso sulle sue braccia, in alto, come un aereoplano. Stupido, considerato quanto lui - e io - odi gli aereoplani. Sorridevamo tutti. Non rivolti all'obiettivo, ma con lo sguardo puntato al cielo, al soffitto. Chissà cosa ci avevamo visto su quel bianco perla. Chissà quanti sogni c'erano a mollo negli occhi dei miei. Un solo raggio filtrava nella camera. Illuminava le figure, le distorceva a seconda delle ombre.

Mi sono ritrovato in ginocchio, la schiena premuta al muro freddo del nostro appartamento. La fotografia si è rovinata ai bordi, ho stretto troppo forte la carta. Ho cercato di lisciarla, di farla tornare come prima, ma i segni restano. I segni restano. Mi siedo, aspetto il tuo ritorno. La porta non cigola, la serratura non scatta. Ad un certo punto alzo gli occhi sulla fotografia. L'ho messa a qualche piede di distanza. La riafferro. Me la stringo tra le dita, la giro. Sul retro, col pennarello nero, c'è una scritta. In inglese. Riconosco la tua grafia stentata, le curve alte delle o, la t storta.

Hai imparato l'inglese per me, perché volevi che fossi felice qui in America. Non ti è mai piaciuto. Dicevi che parlarlo non era naturale come col francese o il giapponese. Ma sei un nerd, sei diventato bravissimo in pochi mesi. Hai studiato, hai fatto pratica, hai chiesto aiuto a tutti tranne che me. Siamo uguali, Izuku, questo non lo puoi proprio negare. Ci faremmo ammazzare piuttosto che darla vinta all'altro.

Gli occhi mi cadono sulla scritta, si muovono veloci mentre cerco di decifrare la calligrafia.

"Quel sorriso, è quello che ancora oggi voglio baciare."

- I.

Il mio cuore è crudele. Batte quando vuole, accelera quando non è necessario. Stavolta sembra che qualcuno l'abbia caricato a batterie. La tua capacità di trucidarmi con la sola lingua, mi stupisce sempre. Getto via la foto, mi porto la testa tra le mani, strillo qualcosa. Poi ci ripenso. Mi alzo, navigo per la stanza a lunghe falcate, riacciuffo la foto. Nello stesso istante, in cui me la porto sotto gli occhi, la serratura scatta. Faccio in tempo a formulare un pensiero, quello che più mi ammazza; avrei voluto averti con me già da bambino. Volevo che fossi in quella foto con me.

Alzo gli occhi, il portoncino si richiude. Converse rosse entrano nella mia visuale, si fanno sempre più vicine. Le buste della spesa tintinnano quando le appoggi a terra.

«Kacchan?» mi chiami. Ti chini sulle ginocchia. Hai lo sguardo dolce, ma confuso. «Che fai a terra, tesoro?»

«Eh? Niente.» mormoro. «Ora mi alzo.»

Annuisci, riprendi le buste, vai in cucina. Ti sento canticchiare mentre le svuoti, una canzone che hai sentito al pub dove siamo andati la scorsa sera. Dicevi di odiarla, però sorrido.

Dicevi di odiare anche me.

Mi appoggio alla colonna, ti guardo rimettere a posto la spesa, disporre le cose negli scaffali, in quella tua maniera metodica, senza fretta. Ti sei messo la mia felpa, quella blu con la zip. Mi avvicino, affondo il naso tra i tuoi ricci. Ti ho intrappolato tra il bancone e me. Non protesti. Allunghi le mani, mi accarezzi.

«Che succede? Che guardavi?»

«Te.» soffio. «A proposito, ti ho mai detto che assomigli a mia madre?»

Scoppi a ridere.

«Davvero.»
«Davvero?»

Ti giri a guardarmi, sei divertito e un po' gratificato. Faccio segno di sì con la testa.

«Siete due stronzetti impertinenti e testardi.»

Inarci un sopracciglio. «Quello sei tu, Kacchan.»

«Sì, anche.»

Restiamo abbracciati per un altro po'. Non mi chiedi niente, alla fine mi prendi per mano, vuoi che ti guardi e io ti accontento.

«Hai letto la scritta dietro la foto che era nel cassetto?»

Annuisco.

«Se solo-»

M'interrompi con un bacio così veloce che penso di essermelo immaginato. Ma è reale. Reale, perché sei sulle punte dei piedi e sorridi, un po' rosso in viso e sulle orecchie.

«Eri un bel bambino.»

«Perché, ora sono brutto?»

Ridi ancora, di quella tua risata gutturale, profonda. Ti guardo, mi guardi. Mamma, Izuku. Ti circondo i fianchi, ti attiro verso di me mentre mi sciolgo in un sorrisetto, non so resisterti. Va bene così, penso. Va bene anche se gli somigli.




Spazio autrice:

Incredibile come una piccola immagine riesca a scatenare così grandi sentimenti. Eccoci qui, ho sempre pensato che Katsuki avesse mommy issues, qui ci sono andata leggera X)

Spero che la One Shot vi sia piaciuta, se vi va lasciate una stellina, è sempre bello ricevere supporto, grazie💛💛

Alla prossima,

- Lilla

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