La Vedova Nera
Una figura esile, coperta da un mantello blu notte, avanzava silenziosa lungo le vie di Kerdan. Il capo si voltava a destra e a sinistra con insistenza, studiando gli edifici che le sfilavano accanto.
La zona periferica era contraddistinta da palazzi un tempo regali, ora segnati dal tempo e dall’incuria, che si stagliavano nell’oscurità della notte come vecchi spettri, intrappolati e ghermiti dai rami spogli dei giardini e dagli alti cancelli in ferro battuto, mangiati dalla ruggine.
D’un tratto, si fermò proprio innanzi a uno di questi, che cigolava smosso dal vento. Lo straniero sistemo l’arco lungo sulla propria schiena, poi sollevo lo sguardo sulla volta, adornata da uno scudo recante l’effige di un’armatura dietro un martello; spiccava, rilucendo sotto i raggi della Luna, tirato a lucido come nuovo. Senza ulteriore indugio, aprì il cancello e s’incammino lungo il viale ciottolato, infestato d’erbacce. Giunto alla porta della villa, afferrò il piccolo battente ottonato e bussò tre volte.
Qualche istante e un ometto minuto, che a stento rasentava il metro e mezzo, gli si parò innanzi con sguardo truce. Lo straniero non trattenne un ghigno divertito.
«Buonasera, buon uomo. Cerco la vedova del compianto Kerish», si premurò di dire, per non apparire del tutto sgarbato, seppur il tono lasciasse trasparire fin troppa superbia.
«Avevate forse un appuntamento?», replicò il servitore, con tono sicuro e gutturale, che contrastava con l’aria attempata che gli conferivano i capelli grigi e le profonde rughe che gli solcavano il viso.
«Sì, la signora dovrebbe avere qualcosa per me».
«E voi sareste, di grazia?», gli sorrise amabile.
«Thorin Aiwass», replico seccato.
«Prego», lo invitò dunque a entrare l’ometto, scostandosi di lato e indicandogli la via con la mano.
Lo accompagnò senza aggiungere altro in un modesto salottino, illuminato da una calda luce soffusa. Di fronte all’ingresso, una grande finestra dava sul giardino, lugubre, mentre sulle pareti ai lati campeggiavano librerie colme di libri. Due divanetti, uno davanti all’altro, erano divisi da un tavolino di cristallo, su cui era posata un’ampolla nera.
«Mia signora, l’ospite è giunto», lo annunciò.
Thorin si guardò attorno stranito, non scorgendo nessuno, ma un istante dopo una mano gli si posò sulla spalla sinistra. Sobbalzò e, voltatosi di scatto, vide una donna sulla quarantina con lunghi capelli neri, la pelle diafana e splendidi occhi verdi, da cui rimase incantato. Come un perfetto idiota, se ne restò a bocca aperta, rimirando quel viso perfetto, soffermandosi infine sulle morbide labbra. Deglutì a fatica.
«Ben giunto, accomodatevi».
Thorin si ridestò e, con un misero cenno d’assenso, prese posto. Calò il cappuccio e scoprì il volto dalla carnagione olivastra, segnato da una profonda cicatrice sulla parte destra e una benda a nascondere l’occhio ceco. Corti capelli ramati, spettinati, palesavano i diversi giorni di cammino di cui si era fatto carico per giungere fino a lì.
«Posso offrirvi qualcosa?», gli chiese con voce melodiosa lei.
«N-no, vi ringrazio», rispose impacciato, memore degli avvertimenti ricevuti da vecchio ramingo.
Posò sul tavolo un borsello, carico di monete tintinnanti.
«Questo è quanto pattuito per lo scambio».
Lei sorrise con dolcezza e spinse avanti la boccetta.
«E questo è quanto mi avete ordinato. Fate però attenzione», lo ammonì, facendosi seria. «È la misura a fare il veleno».
Thorin contrasse i muscoli, ancor più a disagio.
«Cosa intendete?»
«Tre gocce cureranno il vostro corpo, cinque vi ridaranno ciò che avete perso, ma sette vi toglieranno tutto».
«Capisco», rispose, con la gola arsa.
«Siete sicuro di non volere nemmeno un po’ d’acqua?».
Thorin si tastò il collo, conscio della strada che lo separava dalla prima fonte e dei giorni di viaggio che lo attendevano.
«Beh, magari un bicchiere d’acqua».
La vedova gli sorrise e si alzò, raggiungendo una piccola credenza accanto alla porta, che Thorin osservò inclinando il capo. Non ricordava di averla notata prima.
«Ecco a voi», gli disse porgendogli il bicchiere.
L’uomo lo scolò d’un fiato, a disagio, poi prese l’ampolla e la infilò sotto il mantello.
«Vi ringrazio per i vostri servigi, signora».
«Dovere».
In fretta si congedò, cercando di allontanarsi il più in fretta possibile da quel luogo. Non c’era un perché, eppure, tutte le voci sulla vedova Kerish, la Vedova Nera come l’avevano soprannominata, lo dovevano aver suggestionato.
“È la misura a fare il veleno”.
Quella frase gli riecheggiava nella testa, ma non capiva quale stupido avrebbe versato sette gocce, quando ne bastavano tre per guarire. Ma mentre ci pensava, ricordò l’occhio, la fatica che ormai faceva a usare l’arco e decise che cinque fosse l’unica scelta per lui.
Si fermò ed estrasse la boccettina, la fissò e aprì il tappo. Iniziò a contare le gocce che vi lascò cadere, con estrema attenzione, fermandosi a cinque.
Sorrise.
Butto giù il liquido verdognolo e amaro, chiuse gli occhi, pervaso da una piacevole sensazione di calore. Un abbraccio accogliente, materno, una voce che sussurrava e pareva chiamarlo.
Dopo un minuto, il corpo di Thorin stramazzò a terra.
“È la misura a fare il veleno” ripeteva la voce. “Non essere ingordo, non desiderare troppo”.
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