Ricochet
Si consiglia la visione del video prima della lettura.
Poggiai il mio anello sulla ringhiera mentre la casa ardeva al mio fianco. Osservavo il vuoto come se riuscissi a vedere la mia amata, in quell'oscurità accesa da lingue di fuoco.
Amavo la mia ragazza alla follia, ci saremmo sposati il prima possibile. Era tutto ciò che avevo e tutto ciò che contava. Dopo di lei, veniva solo il mio lavoro. Adoravo essere uno scienziato. Lavoravo in un laboratorio di ricerca per delle malattie che erano risultate inguaribili nel corso dei secoli. A breve saremmo arrivati ad una cura e questo mi rendeva profondamente soddisfatto della mia vita, anche se dovevo tutto a Melody, la mia ragazza.
«Buon pomeriggio, piccola» entrai in casa dopo un'estenuante mattina di lavoro che aveva portato però alla conclusione della cura. Era un pomeriggio molto freddo e Melody era accoccolata sotto un plaid sul divano. Con il passare dei secoli, la Terra si era riscaldata sempre di più, ma da noi faceva ancora molto freddo e forse non eravamo abituati a temperature più basse di quelle.
«Buon pomeriggio, amore» amavo quel suo modo dolce di fare. Poteva bastarmi una sua parola per farmi fare tutto ciò che voleva. Mi avvicinai a lei e la abbracciai da dietro. Alzò il volto verso di me e mi baciò delicatamente.
«Melody, sai, oggi abbiamo terminato una cura e verrà annunciata al mondo questo sabato. Il nostro capo ha detto che proprio sabato ci sarà un gran galà per l'annunciazione» mentre mi guardava, i suoi occhi si illuminarono. Amavo quei suoi occhi. Verdi come una fitta foresta di pini, le cambiavano colore, divenivano verdissimi, di un colore del mare, quando sorrideva. Non avevo mai conosciuto ragazza più bella di lei.
«Saremo la coppia più bella di tutta la serata, amore mio!» mi abbracciò stringendomi forte tra le sue braccia. Adoravo vederla così felice, era tutto ciò che avevo bisogno per esserlo anche io.
«Lo saremo sicuramente, piccola» le risposi con un sorriso innocente sulla bocca. Dopo qualche giorno era arrivato sabato. La vita accanto a lei era scandita da giorni e questi erano pieni di momenti che mai avrei dimenticato. Nulla mi sfuggiva, nessuno dei nostri attimi.
«Come sono?» mi chiese entrando nell'ampio salone della nostra casa. Rimasi lì a guardarla con un sorriso dolce sul volto. Era stupenda, con un abito viola che faceva risaltare i suoi occhi verde del mare. Aveva uno scialle leggero, delicato - come lei, del resto - sulle spalle, di un colore candido come le perle che aveva sul vestito.
«Sei a dir poco stupenda» le sussurrai quando eravamo ormai a qualche centimetro di distanza e sentivo il suo respiro sul mio collo. Ci guardammo intensamente negli occhi, sembrava quasi che volesse leggermi l'anima, nonostante sapesse che io, un'anima, non la avevo. La mia amata conosceva il mio passato meglio di tutti gli altri, per questo avevamo un legame speciale. Misi la mia mano sotto il suo mento e le sollevai la testa di modo che potessimo baciarci. Non provavo mai emozione migliore dei suoi baci. Mi strinse forte e quasi ebbi un brivido. Non sapevo ciò che mi aspettava, di questo ero certo. E avrei preferito non scoprirlo mai... Quella sera fu perfetta in tutto, ballammo fino a che non ci fu l'annunciazione e fino a che non ci sentimmo sfiniti. Era stata una serata davvero stupenda e io e Melody ci affacciammo da una delle enormi terrazze. C'era una certa aria che dava una sensazione di vaga beatitudine. Le avrei chiesto lì di sposarci. Non ci avevo pensato molto, ma da mezz'ora quel pensiero mi tormentava, disturbando la mia pace interiore. Ero sul momento di inginocchiarmi davanti a lei - sapevo con certezza che avrebbe voluto che facessi così - in un castello immerso in una fitta foresta di pini, dello stesso colore dei suoi occhi. Era tutto perfetto. Le avevo poggiato un braccio sulle spalle, in modo che potessi abbracciarla, mentre si stringeva al suo petto. Forse sentiva freddo, pensai, così le diedi la mia giacca, che accettò con un sorriso.
«Melody...» si girò scattante verso di me. Quei suoi occhi dallo sguardo felino incontrarono ed attraversarono i miei. Un sorriso enigmatico era comparso sul suo viso. «Vorrei chiederti una cosa» sentii i miei capelli morbidi sfiorati dal vento. Mi guardò sempre più incuriosita. «Melody, vorresti sposarmi?» mi guardò stupefatta, gli occhi ridenti e i capelli accarezzati da una lieve folata di vento fresco. Sentivo il cuore battermi veloce mentre aspettavo una sua reazione concreta. In un attimo vidi il suo sguardo guizzare, scrutando tutto il mio corpo in un solo istante, poco prima che si tuffasse verso di me e mi abbracciasse piangendo dalla gioia. La strinsi forte a me, come a volerla proteggere. Passò all'incirca un'ora prima che accadesse ciò che non sarebbe dovuto accadere. All'improvviso la vidi piegarsi in avanti, prima solo un po' poi sempre di più, con un'espressione di dolore in volto.
«Melody, cosa succede?» chiesi, ancora tenendola per mano. Aprì la bocca come a voler rispondere, ma non riusciva a far uscire la voce. Svenne qualche istante dopo. Chiamai un'ambulanza e subito arrivammo in ospedale. Dopo aver sottoposto la mia amata a quei giusti ma inquietanti esami, capimmo che aspettava un bambino. La gioia che provavo non era equiparabile a nulla. Inoltre i dottori dicevano che aveva uno dei valori un po' bassi, ma non approfondirono dal momento che era dovuto alla gravidanza. Se solo avessi saputo... Durante la notte, mentre ancora non si svegliava, ricordai i nostri primi momenti trascorsi insieme. Ero stranamente freddo con la Melody ancora liceale. All'alba del mattino successivo si svegliò.
«Melody! Finalmente ti sei svegliata!» le dissi felice. Lei, che non sapeva nulla, si scusò: «Mi dispiace di averti fatto stare in pensiero, Chris...» quando pronunciò il mio nome, ebbi un brivido e subito dopo decisi di rivelarle la buona notizia. Le sorrisi e parlai: «Non devi preoccuparti, ho una notizia bellissima da darti» mi guardò con occhi grandissimi «Tra meno di un anno io e te diventeremo genitori!» le scese una lacrima di gioia e mi abbracciò. Furono i tre mesi più belli della mia vita. Ci amavamo più che mai. Giorno dopo giorno la vedevo sempre più debole, ma credevo fosse normale. Un giorno però si addormentò tra le mie braccia, ma subito dopo capii che era svenuta. La portai in ospedale il più in fretta possibile e ciò che mai avrei voluto accadesse, si avverò davanti ai miei occhi. Un foglio con delle lettere stampate, tutte uguali, fredde a dirmi solo una cosa: Melody era malata e non c'era alcuna cura. Non ce l'avrebbe mai fatta. E non ce l'avrei mai fatta neppure io: infatti quella era la malattia sulla quale il nostro laboratorio stava lavorando. Ma mai saremmo riusciti a completare la cura in tempo. Non sapevo in che modo dividermi: la mattina andavo in laboratorio, con la speranza di trovare la soluzione a tutto, la cura alla mia disperazione, ad un dolore che mai avevo provato prima di allora, al vuoto che si nutriva delle mie pene. La cura che mi avrebbe riportato la gioia. Ma ero in pensiero, avevo paura che Melody si sentisse male mentre io non ero a casa. Non me lo sarei mai perdonato. Per fortuna aveva un anello al dito collegato ad un dispositivo che mi portavo sempre dietro così che avrei potuto tenerla sotto controllo, ma temevo di non riuscire a ritornare in tempo. Mi sentivo terribilmente male ma lavoravo sodo, eccome se lavoravo, per la mia amata, per il bambino che avremmo dovuto avere e per me stesso. Era tutto ciò che contava, erano la mia unica famiglia, erano la mia vita. Il pomeriggio ritornavo a casa, le stavo vicino, ridevamo insieme, come ai vecchi tempi, nonostante sapessimo entrambi che quelli non erano più i vecchi tempi, che tutto stava per finire così come era iniziato, che avremmo perso l'un l'altra a breve, che insieme alla sua, sarebbe finita anche la mia vita. Quando si addormentava, meditavo silenziosamente la sua bellezza ormai sfiorita, ma che ancora amavo con tutto me stesso, e piangevo. Piangevo tanto, ma non glielo avrei fatto vedere mai. Non perché volessi sembrare irremovibile, ma perché avrei voluto che i suoi ultimi momenti di vita fossero i migliori. Nonostante lottassi senza mai fermarmi, sapevo bene che non c'era più nulla da fare e questo mi faceva male.
«Chris...» mi chiamò un pomeriggio assolato. La nostra camera da letto era diventata il luogo delle nostre pene, era diventata il nostro inferno. Mi guardava appena, aveva perso per sempre lo sguardo felino e acceso che adoravo, era ormai senza forze e la sua carnagione, già chiara, era divenuta di un bianco pallido. Mi avvicinai al suo letto con il cuore pesante. Avrei voluto dirle che la amavo, ma non aprii bocca. Mi sentivo un macigno sullo stomaco. Con le forze che le restavano, alzò il braccio con la mano protesa verso di me e io gliela strinsi debolmente per evitare di farle del male. Mi guardò con uno sguardo perso nel vuoto, probabilmente ancora innamorato, ma appariva ormai spento, consumato. Li socchiuse impercettibilmente nel momento in cui la sentii allentare la debole presa alla mano. Era andata via ed io ero ancora lì, mi sentivo in colpa per questo. L'unica donna che avrei mai potuto amare era appena andata via. Mi sentii improvvisamente vuoto, nonostante il peso sullo stomaco fosse insopportabile. Non sbattei le palpebre, continuai a fissarla immobile per qualche secondo prima di muovere un muscolo. Non respirai più, persi qualche battito, morii dentro. Una lacrima cominciò a scorrermi sulla guancia molto più arrossata del solito, caldissima. Avevo immaginato spesso quel momento negli ultimi tempi, ma in nessuno scenario ero riuscito a provare quel che davvero si provava. Mi sentivo perso, abbandonato in quel mare agitato, costretto a navigarlo da solo. Poi ricordai: avevo visto, molto tempo prima, che si poteva prelevare il DNA di una persona per riportarla indietro nel corpo di qualcun altro. Era la mia unica speranza di riaverla indietro. Nonostante non volessi nemmeno sfiorare quel corpo, che fino a qualche attimo prima era appartenuto all'unica donna che potesse donarmi la felicità, dovevo voltarlo per prelevare il suo DNA dalla schiena. Nonostante fossi abituato a tale strumentazione, mi risultò macabro utilizzarla su quella ragazza così innocente, troppo giovane per andarsene via. Con un profondo respiro, le sfilai l'anello dal dito. Qualche giorno dopo - il tempo che avevo impiegato per riprendermi almeno in parte da quella perdita così prematura e ingiusta - mi avvicinai alla sua tomba, sfiorandola con le dita, come se fosse ancora lì, a rabbrividire al nostro delicato contatto. Cominciai a cercare una ragazza da portare a casa mia per poter riportare Melody indietro. Avevo quattro provette, ma sarebbe bastato, pensai. Scelsi la prima che mi capitò a tiro, non importava molto, lei sarebbe diventata Melody, era questo ciò che mi importava. Sentii bussare, aprii sapendo già che si trattava di quell'ignara ragazza, e la vidi. Era giovane, probabilmente appena maggiorenne. Aveva i capelli neri come la pece e gli occhi dello stesso colore, cerchiati da una matita molto scura. Mi fece pena, ma non sopportavo l'idea di non rivedere più l'amore della mia vita. Restai immobile, non sapevo come avrei potuto iniettarle il DNA nel corpo. Per apparire normale, la invitai a sedersi. Fece male vedere un'altra donna seduta nel posto in cui di solito Melody sedeva. Stavo ancora riflettendo, quando la vidi togliersi la giacca e sbottonarsi la camicia. Subito la fermai, mi avvicinai al suo volto come se volessi abbracciarla e le iniettai il DNA nella schiena. Vidi il dolore nei suoi occhi sgranati, mi sentii in colpa, ma il desiderio mi conduceva a compiere azioni che mai avrei pensato di fare normalmente. Sentivo che di lì a poco l'avrei avuta lì, tra le mie braccia, e questo bastava. In quel momento avevo quella ragazza tra le mie braccia e mi sentii profondamente inorridito. Le infilai l'anello al dito, la misi nella vasca, aspettai qualche ora e finalmente il DNA di Melody era riuscito a scorrere completamente nelle sue vene. Era ricoperta da un sottile telo di uno strano materiale. Le scoprii il volto ed era lì, la mia Melody era di nuovo lì, di fronte a me. Sorrisi, ma capii di averlo fatto troppo presto quando la vidi vomitare sangue, denso e scurissimo. Poi cadde nella vasca. Fu un ulteriore strazio vederla in quello stato, immersa in un bagno di sangue. Ero traumatizzato, ma mai avrei mollato. Portai un'altra ragazza, questa un po' più grande della prima. Feci lo stesso identico procedimento. Probabilmente qualcosa era andato storto la prima volta, ma ero molto sicuro che sarebbe andata meglio quella volta. O almeno era così che volevo convincermi. Neppure quella volta andò bene, in realtà: aveva la pelle del viso simile ad un deserto arido, crepata. Cadde anche lei, ma il suo corpo rigettava un liquido verdastro, poco denso. Mi sentivo perso: mi restavano le ultime due provette. Ero sempre più frustrato. La terza ragazza, una volta terminato il processo che durava qualche ora, aveva perso sangue dagli occhi: il telo era sporco nella zona degli occhi, non si era neppure alzata. Mi restava un solo tentativo. Mi sentivo più frustrato che mai. Trassi un profondo sospiro e iniettai l'ultima provetta nel corpo di quella povera ragazza. Mi sentivo un assassino, ma non potevo abbandonare la mia missione. Almeno non prima di avere provato tutto ciò che potevo. Dovevo riportarla indietro. Prima, però, avevo provato a trovare qualche errore nel DNA, motivo per cui nessuna delle prove precedenti era riuscita. Lo avevo trovato, il DNA era finalmente pronto per riportarla indietro, così glielo avevo iniettato. Finalmente era lì, davanti ai miei occhi, ma i suoi erano spenti. Pensai di farla ritornare come prima facendole fare delle passeggiate nella nostra immensa casa nel bosco, in cui tutti gli elementi della modernità che il nuovo secolo aveva portato, si mescolavano intrinsecamente alla foresta di pini che tanto mi ricordava lei... Sì, mi ricordava Melody perché non la avevo al mio fianco. Il suo corpo poteva essere lì, ma non la sua anima. E questo mi faceva male. Sapevo che non era un errore, avevo controllato bene per non sprecare la mia ultima possibilità. Le leggevo le poesie che più amava, ma il suo sguardo restava fisso, rivolto al vuoto. Ciò mi feriva molto, più di ogni altra cosa al mondo. Mi sentivo profondamente frustrato, il dolore aumentava ogni giorno di più. Quando andavamo a letto, non era molto diverso dall'avere un enorme giocattolo al mio fianco. Non chiedevo molto, magari anche solo una parola di affetto, di conforto. Ma mai più l'avrei sentita parlare, mai più avrei avuto tutto l'amore che Melody mi dava... La mia Melody...
Un giorno mentre eravamo seduti come eravamo soliti fare, le presi la mano così morbida e delicata e la portai al mio viso. Era il suo tocco, così lieve e soffice... Ma non era lo stesso. Mancava l'amore, la tenerezza che mai avrei potuto riportare indietro. Era una sofferenza enorme, ero disperato, non riuscivo ad andare avanti in quel modo. Questo pensiero mi balenò in mente, si era lentamente insidiato nei meandri più oscuri del mio cervello. Mi sentivo senza via d'uscita. Mai la avrei riavuta indietro, allora dovevo solamente andare via anche io, ritornare da lei. Un pomeriggio, in un attimo di disperazione, scrissi un biglietto e diedi fuoco alla casa. Ardeva come bruciava il dolore che avevo dentro, come l'amarezza che mi riempiva il cuore. Sentivo l'odore di bruciato, il trofeo del mio sconforto. Aveva il sapore di vittoria e sconfitta allo stesso tempo. Poggiai il mio anello sulla ringhiera mentre la casa ardeva al mio fianco. Osservavo il vuoto come se riuscissi a vedere la mia amata, in quell'oscurità accesa da lingue di fuoco. Con un'ultima ondata di coraggio, raccolsi tutte le forze che avevo in corpo e mi buttai da quel ponte. Mentre mi gettavo verso quell'infinito ignoto, feci cadere il biglietto che avevo tra le mani: «Mi dispiace Master. Ho fallito nel riportarti indietro. Perdonami». Era stata Melody a programmarmi, la ragazza che mi aveva sostenuto fin dall'inizio della mia vita, la donna che mi aveva reso umano, la amata che mi aveva amato fin da subito, la moglie che mi avevo reso tutto suo e di nessun'altra. Ero finalmente fuggito da quell'inferno.
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