Déjà Vu

Ecco. Un altro giorno in questo posto repellente è trascorso. E con esso si consuma un altro frammento della mia anima, che risente ormai della monotonia della vita che si è scelta ad affrontare. Scelta! Come se ci fossero alternative, per un figlio del sobborgo. Ma ora è inutile che stia ancora a pensarci, l'aria qui è terribilmente asfissiante, e il frastuono dei macchinari mi ha già procurato un'emicrania più che sufficiente. Posso solo sperare che ora il sole sia più magnanimo, là fuori. Eccolo che inizia a nascondersi, sommesso, dietro alle cime non più innevate. Con un tale auspicio impresso, m'infilo con impazienza la felpa vermiglia scura, e mi avvio ad uscire.

La strada che percorro al ritorno è sempre uguale. Spenta, consunta e odora di putrefazione. Non è diversa dallo strizzacervelli in cui sono condannato a lavorare, se non fosse per il suo sorprendente silenzio. Ma che dico, esposto a gli strilli incessanti di quelle diavolerie umane non ci sento più; non fa alcuna differenza ormai. E spesso la quiete lascia spazio al più assordante dei rumori...

Quello interiore.

Oh, quanto mi sbagliavo. Il sole si fa ancora spietato; posso chiaramente visionare l'afa che aleggia tutt'intorno, penetrando nelle mie viscere come uno spirito maligno. Ah beh, si avvicina l'estate...le montagne che fungono da serra, poi, di certo non aiutano. Intanto penso a come sopravviverò per i giorni che verranno, senza qualcosa che possa darmi un po' di respiro, che so, un bel campeggio in montagna. Non lavoro qui da tantissimo, eppure mi sembra che sia stata un'eternità...il bello è che la cosa durerà ancora per molto, forse tra decenni mi ritroverò nello stesso posto, in attesa che la morte sopraggiunga a questa agonia; forse morirò prematuramente, in preda alla disperazione di chi esiste senza vivere...oh, merda, non voglio pensarci. Evitiamo di ritornare a quei pensieri, l'ultima volta non è finita bene, e la strada è talmente desolata che non vi sarà nessuno a soccorrermi. Quel cane che se ne sta disteso sul ciglio opposto non può farlo di certo. Povero, è ridotto anche peggio di me, tutto striminzito. Ora che ci penso, c'è un bar nei dintorni, alla prossima traversa, svoltando a sinistra...ho bisogno di un rinfresco, un buon drink magari, e di lì procurerò qualcosa anche per questo disgraziato.
Proseguo a camminare, avvertendo che i miei passi si fanno sempre meno risoluti. Inizio a percepire una stretta al petto. Calmo, sta' calmo, mi ripeto con un filo di voce. Manca ancora poca strada. Vedi la veranda su cui sono esposti quei panni variopinti? Ecco, gira intorno alla casa e ti trovi sulla via del bar.

Mi sfugge una risata anomala, cosciente di quanto abbia alzato la voce. Sarà follia? Poco importa. Nulla di questo angolo di periferia segnala la presenza di vita, a parte dei suoni metallici provenienti da un garage sul lato sinistro, e un motore che pare emettere flatulenze intermittenti. Quasi quasi, sembra volermi comunicare qualcosa. Mi sembra di essere più affine alle macchine che agli uomini, ormai. E' la Metamorfosi dell'uomo moderno.
Mi guardo intorno, in cerca di qualche particolare che possa distrarmi dal presagio. Sul muro di cemento, a destra, noto dei graffiti a cui non ho mai prestato attenzione. Dichiarazioni d'amore, manifestazioni di rabbia, scarabocchi poco ortodossi...certo, quelli ci sono sempre. A quelli l'occhio si è adattato ormai. Ciò che mi cattura l'attenzione, invece, è un'incisione che recita: "La ricerca della felicità".
E l'illustrazione di un omino in borghese pestato da una trappola per topi, attratto dall'effluvio di una banconota.

Eccolo che arriva. Il presagio si è avverato. Mi sento di soffocare, perdendo fiato tutto all'improvviso. Cerco di sbloccarmi dalla situazione di stasi in cui mi sono improvvisamente ritrovato, nella speranza di ricevere soccorsi; il bar è ormai a qualche decina di metri...ma invano. S'intensifica il sudore e, con il senso di oppressione al petto, sale pure la nausea. Intanto il frastuono del motore guastato riecheggia nella testa già disturbata, questa volta tracotante, più insistente, privo di simmetria, come un concerto di suoni discordanti e fuori tempo. Il cuore batte all'impazzata, quasi sfondando il petto. Nella mia mente scorrono, repentine e sempre più sfocate, un mucchio di immagini già vissute; dalle serate inebriate, in compagnia o in solitudine, ai logoranti e scoloriti turni in fabbrica, tutte assumono ora un tono decisamente cupo, quasi palpabile, tradendo la presenza di un'ombra perniciosa: quella di una futile mortalità. A un certo punto, vedo una donna trasportare, in tutta fretta, qualcosa che sembra essere un giaciglio.

E poi, il nulla.


...

Sbatto le palpebre, stupito di essere ancora in grado di farlo. Inizio a intravedere una sagoma, ancora appannata. Mi rendo subito conto di trovarmi in una stanza ospedaliera, potendo udire i suoni acuti dei macchinari medici, e il brusio dei passanti. La sagoma ora si fa più nitida. Un'infermiera che mi pare sulla cinquantina mi sorride e, con un'espressione mite, m'invita a mangiare, indicando il piccolo vassoio che ha posato proprio vicino al mio capo. E in un attimo è già sparita.

Mi volto a osservare la finestra: di quel furioso tramonto non rimane più nulla, se non una striscia sottilissima e inerme, inghiottito da un blu refrigerante e...spazioso

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