Prologo
📍San Francisco, California
«Stia attento con quei bagagli!»
Era questa la frase che le mie labbra tuonavano rabbiose con regolare cadenza. Le mie gambe non ne potevano più di incassare valigiate sugli stinchi ogni giorno. Erano talmente costellate da lividi da farmi sembrare una lottatrice di chissà quale violenta arte marziale giapponese.
«Buongiorno, Haylee!» Al mio passaggio, i due militari di guardia si sciolsero dall'innaturale posizione sull'attenti per rivolgermi un caloroso saluto.
«Questi sono per voi», gli porsi al volo un sacchetto con all'interno dei donut fatti dalle mie stesse mani, «mi scrollo di dosso ogni responsabilità da indigestioni o enterocoliti».
Percepì loro ridacchiare, mentre avevo già compiuto alcune falcate fino a raggiungere il bancone del mio fedele bistrot. Era l'unico presente nell'ala est dell'aeroporto e, sebbene il cibo non fosse a prova di assaggio da parte di Gordon Ramsey, era sul tragitto che conduceva alle piste che mi toccava usare la maggior parte delle volte.
«'Giorno, Lexie. Mi fai un sandwich doppio? Se non erro tocco l'Europa oggi».
Non si sa mai che l'alta quota mi faccia venire un languore.
Nel frattempo che la gentile cuoca preparasse il mio pranzo, mi allontanai di qualche passo. Volsi lo sguardo all'enorme tabellone affisso sulla parete, su cui migliaia di piccole luci lampeggiavano; alcune rosse, alcune verdi, altre arancio segnavano in modo analitico ogni informazione sui velivoli in transito: codici identificativi, linee aeree, orari, destinazioni, ritardi.
Decine di migliaia di occhi finivano per fissare quel pannello ogni giorno, perché quello era il San Francisco International Airport: un esorbitante tran tran di passeggeri che rincorrevano i propri aerei in decollo, bambini che schiamazzavano, bagagli partiti e mai più trovati. E, perché no, altoparlanti metallici che annunciavano le partenze, contribuendo ad alimentare il pandemonio più totale.
Mentre ero immersa nel mio flusso di pensieri, una ben conosciuta presenza - di quasi mezzo metro più alta di me - si fece spazio alla mia destra, spazzando via anche il più esiguo granello di positività di quella mite mattinata settembrina.
«Ti ha per caso investita un treno? Sembri uno degli zombie spaventosi di The Walking Dead», mi si rivolse Ryan, con la sua tipica faccia da schiaffi.
Qualche giorno finirò in carcere con l'accusa di omicidio, me lo sento.
Mi dava sui nervi, troppo. Quell'ostinato sarcasmo era in grado di far saltare ogni mio singolo neurone, e il suo sex appeal era solo la goccia che bastava per far traboccare il vaso. Sembrava essere stato sfornato direttamente dagli anni quaranta quel tipo: quei suoi occhi cerulei erano in grado di sedurre anche le suore. Si sposavano alla perfezione con i capelli biondi, che ricadevano un poco sulla fronte. Per non parlare del fascino che quella divisa blu navy da pilota gli donava. Avevo avuto una volta l'occasione di pilotare con lui in cabina. In quelle poche ore di volo produssi una quantità talmente abbondante di ormoni che credo di non averli ancora smaltiti del tutto. Era bello Ryan, ma così dannatamente irraggiungibile. Il profondo contrasto che caratterizzava le nostre personalità mi impediva di porre anche il più piccolo mattoncino per la costruzione di qualcosa che si allontanasse da una semplice amicizia. Ma poi ricordavo chi fossi. E, forse, era proprio la consapevolezza di non poterlo avere che mi faceva andare su di giri all'istante quando lui era nei paraggi.
«Attenzione signori, è arrivata al binario la cazzata delle...», alzai il polso, facendo finta di controllare l'ora, «sette e tre quarti». Mi rinchiudevo nella sfrontatezza per reprimere la breccia che lui aveva fatto nel mio cuore.
«Idiota, ti sembra il modo di rivolgerti alla nostra unica pilota donna?» Fu Easton a prendere le mie difese, fiondandosi alla mia sinistra e lanciando uno sguardo carico di risentimento al collega. Capì al volo la mossa che aveva programmato, così stetti al gioco. Amavamo sentire gli insulti mattutini che Ryan ci rivolgeva, per poi impacchettare delle frasi ad hoc e farlo sentire in colpa.
«L'educazione è di chi la usa, caro mio. Non stupirti», sospirai, afferrando il suo braccio muscoloso. Easton poteva benissimo competere come l'uomo perfetto, quello che ogni donna avrebbe voluto al suo fianco. Era la perfetta definizione di connubio tra un eccesso e l'altro; romantico in certe circostanze, bad boy in altre. Per non parlare del testosterone che emanava costantemente: muscoli pompati, geni sudamericani, pelle scura, iridi verdi. Il tutto ovviamente accompagnato - anche in questo caso - dal fascino che la divisa gli donava. In parole povere: gli bastava respirare per far sbavare donne di tutte le età, dalle adolescenti alle milf.
«Dai ragazzi, lo sapete che amo scherzare», la voce pentita di Ryan non tardò ad arrivare, destandomi dal film che la mia mente stava registrando. Allo stesso tempo, anche una quarta voce si aggiunse al gruppo. Era quella seriosa dell'ultimo membro della nostra stretta cerchia di svitati.
«Mi chiedo quando ti deciderai a toglierti quel palo dal culo». Fu sempre Ryan a parlare, rivolgendosi a Theodore. «Non ti stanchi a essere sempre così imbronciato? Sembra che tu stia odiando il fatto di poter respirare».
«Qualcuno mi faccia una flebo di caffè», sbadigliò lui, appena tornato da Mosca e pronto a ripartire per l'Australia. Era incredibile come quell'uomo potesse sempre avere stampata in volto una maschera di serietà.
«Almeno, hai mai usato i muscoli facciali? O ce li hai atrofizzati?» Ryan continuò a provocarlo, ma sapeva che sarebbe stato più soddisfacente parlare con un muro.
Mi venne da ridere, ma per decenza mi morsi la lingua. Era sconvolgente il modo in cui quel palo restasse così indifferente alle battute di quell'idiota patentato.
«Questo è l'apprendista nuovo, tutto per te», Theo si rivolse nella mia direzione. Indicò il pullo in piedi al suo fianco, un giovanissimo ragazzo poco più che ventenne.
Lo squadrai nella sua posizione eretta. «Questo sarebbe... il pulcino?» Riflettei un attimo prima di formulare quel nickname.
L'espressione stranita che assunse fu la testimonianza di non aver capito il perché di quel beffardo soprannome.
«Mi chiamate pulcino?»
«Sì, perché», alzai in modo cadenzato le dita, «punto uno, sei un piccolo, spaesato, indifeso passerotto nel mega aeroporto internazionale di San Francisco. Punto due, sei biondo e sembri un pulcino».
«Mi perdoni, ufficiale Lang...» si rivolse a me, scrutando prima la medaglietta sulla mia camicia, «ma sembra che anche lei sia bionda».
La sua risposta generò all'istante un coro di stupore nei miei tre colleghi, in piedi a formare un semicerchio. Uno dei tre ebeti ebbe anche il genio di far partire la canzoncina di Thug Life. Loro mi conoscevano bene. Sapevano che se avessi voluto, avrei potuto distruggere quel povero ragazzo con le mie doti da arpia.
«Caro pulcino, mettiti contro la regina d'Inghilterra ma non contro Haylee Lang». Fu Ryan a metterlo in guardia, dandomi una pacca sulla schiena. Il suo contatto era sempre una coltellata per i miei sentimenti, ma quella volta non ci diedi troppo peso.
«Non avevo mai visto un pulcino così intrepido», mi inasprì, giusto per marcare la mia ufficialità. Non ero arrabbiata. Anzi, quel giovane mi stese sin da subito simpatico. Credevo fosse davvero in gamba. I suoi occhi castani non lasciavano trasparire neanche un accenno di soggezione. In parole povere, non si lasciava intimorire da niente e da nessuno.
«Haylee», catturò la mia attenzione Easton mentre addentava una mela, «non vedo la tua migliore amica. Sono quasi le otto».
Capii all'istante di cosa parlasse, così indicai lo zaino di pelle a penzoloni sulla spalla destra. Al pulcino andò qualche boccone del suo croissant di traverso, dato che iniziò a tossire rumorosamente. A dire dai suoi occhi sbigottiti, probabilmente era scioccato dal fatto che avessi la mia "migliore amica" ficcata dentro uno zaino.
Fu Ryan a dargli un sonoro colpo sulla schiena. «Sei ancora troppo novello per capire. Noi siamo le aquile della California».
«L-le aquile della California?» Ripeté lui confuso, ancora una volta.
Noi tre masterclass iniziammo a ridere, fin quando Easton prese la parola, mettendo ordine nella testa perplessa di quel povero apprendista, che quel giorno aveva avuto la sfiga di beccare noi come piloti ufficiali.
«Noi siamo le aquile della California», ripeté, indicando sé stesso, me, Ryan e Theodore, «e siamo una gang di piloti».
«Devi sapere che ogni membro ha un vizio, una scaramanzia», presi la parola, sentendomi un'esperta dell'argomento, «per esempio, l'idiota biondo alla tua destra non mette piede sull'aereo se non ha addosso un calzino rosso e uno blu».
«Perché non parliamo di te, Haylee?» Preso in causa, Ryan si trincerò nella difensiva, «Te non entri neanche in pista se non hai appresso la radio. Aka, la tua migliore amica».
«La radio?» Ripetè il giovane, marcando il suo forte accento francese.
«Già, non deve perdere neanche un appuntamento del suo programma radiofonico, gestito da un folle che viaggia in lungo e in largo per il mondo», disse Theo, svegliandosi dal coma in cui si trovava dalla nascita, «la entusiasma tanto da averle fatto dimenticare di portare le fedi all'altare di un nostro collega, una volta».
I deficienti iniziarono a sogghignare al ricordo di quell'imbarazzante evento.
«Direi che tra le vostre strane ossessioni, la mia è quella più vicina alla linea della normalità». Aprì le braccia, spiattellandogli la realtà in faccia.
«Non ha tutti i torti, voi siete dei pazzi».
«Anche tu lo sei, caro Easton, se pensiamo al fatto che la tua ossessione è quella di saltare otto volte sul piede destro prima di accendere il motore propulsore», fu Ryan a smascherare ad alti toni il trip mentale del collega, catturando l'attenzione di mezzo aeroporto.
Quei due iniziarono a blaterare, attaccando un tira e molla che si sarebbe protratto fino a quando sarebbero arrivati i loro velivoli. Non avrei tollerato le loro ciarle alle otto di un deprimente inizio settimana.
Mi incamminai a passo svelto lungo il groviglio di corridoi che conducevano alle piste degli aerei civili. Lì, una presenza verde fluorescente catturò la mia attenzione, comunicandomi di aver finito i classici controlli di routine a cui si sottopongono gli aerei dopo ogni volo.
Arrivai presto sotto la lunga ala di un Boeing della United Airlines. Lavoravo per questa compagnia sin dagli albori della mia carriera, cioè subito dopo aver preso la licenza di volo, a un quarto di secolo compiuto.
I rombi potenti dei motori che invadevano l'atmosfera erano - a dir poco - sinfonie di Beethoven per le mie orecchie. Aerei in arrivo, altri in partenza. Era sempre stato questo il mondo in cui volevo trascorrere il resto dei miei giorni.
Passeggiai parallelamente alla fiancata colossale del mio velivolo, fin quando misi piede sul primo scalino della rampa di bordo. L'apprendista mi seguì a ruota in ogni movimento.
«Prima i pulcini», mi rivolsi al ragazzo di cui non sapevo ancora il nome. Era così spiritoso quel nickname che mi era spontaneamente uscito dalla bocca qualche minuto prima, che non gli avrei mai chiesto il suo vero nome.
Mi scrutò con i suoi occhioni bruni attenti. «Dov'è che siamo diretti?»
«Decolliamo da San Francisco, atterriamo a Berlino. Decolliamo da Berlino, atterriamo a San Francisco», salii gli ultimi scalini della rampa, fiatando più aria dentro e fuori dai polmoni. Mi maledissi per aver rimandato gli ultimi diciotto allenamenti di aerobica. «Chiaro, Titti? Filerà tutto liscio come l'olio», aggiunsi.
Segnatevi questa citazione, e mettetevi davanti un'abbondante ciotola di pop corn. Furono queste le mie ultime parole famose. Perché è sempre quando meno te l'aspetti, che il destino architetta un piano per stravolgerti la vita da cima a fondo.
E perché sì, quel volo era proprio destinato a stravolgere l'incasinata vita di Haylee Lang.
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