Capitolo Tredici - US Route 66


⛽️Touring Arizona

"Buongiorno, Hay. Sul tavolo ti ho lasciato il caffé e un panino per pranzo. Ci vediamo stasera al tuo ritorno"

Lessi l'ennesima letterina scritta da Stan e, dopo averla girata e rigirata fra le dita, la infilai nella biscottiera, dove risiedevano il centinaio di altre. Era una delle sue tante abitudini: ogni mattina, Stan non lasciava casa se non prima avesse scritto un piccolo biglietto che testimoniasse il fatto che fossi nei suoi pensieri.

Eravamo così simili e complementari. Nessuno ci aveva mai visti bene insieme, né al liceo né al college. Chiunque lo scoprisse, mi pugnalava con la propria disapprovazione. Ma la verità era che ci legava un invisibile filo di profondo affetto reciproco. Stan era perso senza Haylee. Haylee era persa senza Stan, nonostante gli sbagli reciproci. Non riuscivamo a lasciarci andare, ma in fondo sentii che qualcosa fosse cambiato. E si dia il caso la causa fosse un passeggero irriverente che, passo dopo passo, si faceva spazio nella mia vita. Le sensazioni che quel bacio in Australia fu capace di farmi provare riaffioravano prepotentemente ogni minuto della mia vita. Neels era un uomo che non lasciava scampo.

I miei pensieri erano stati in grado di far volare il tempo, tanto da essere già arrivata in aeroporto. Anche quel giorno l'usuale tran tran di passeggeri scorrazzava da un gate all'altro mentre io facevo attenzione a non rovesciarmi addosso il caffè che avevo in mano. Stavo affondando le labbra sul bordo del bicchiere quando il telefono squillò dalla tasca posteriore. Lo portai all'orecchio, coprendo l'altro con un dito allo scopo di attutire il rombo dei motori in accensione.

«Buondì, ragazza», furono le uniche due parole che passarono dalla cornetta dell'interlocutore alla mia. E bastarono affinché il mio corpo venisse attraversato con prepotenza da quel fulmine che si rivelava essere la voce di Neels. Profonda, diversa, familiare. Era la prima volta che una nostra conversazione attraversava una linea telefonica: poco prima della mia partenza da Sydney, era riuscito ad aggiudicarsi il mio cellulare con la promessa che gli avrei scritto un SMS una volta atterrata a casa. Promessa che mantenni, seppur con qualche timore nei confronti di Stan. In quella settimana che seguì il soggiorno a Sydney mi limitai a rispondere a uno o due messaggi che lui mi aveva inviato.

«È la prima volta che parliamo al telefono», mi bloccai su due piedi, «eppure la tua voce è così... familiare».

La linea telefonica fu attraversata solo dal suono che provenivano dalla mia sponda.
«Aerei in sottofondo, sento bene?»

Annuii, mentre riprendevo i miei passi verso l'imbarco del mio 737. Era una semplice conversazione telefonica, eppure il cuore mi batteva così forte da sentirlo in gola.

«Qual è la sua meta di oggi, ufficiale Haylee Lang?»

«Oggi gioco quasi in casa», asserii, pensando al programma della giornata, «decollo da San Francisco alle otto», abbassai lo sguardo sul polso, «ovvero fra mezz'ora, e atterro alle dieci all'aeroporto internazionale di Phoenix. Lì ci resto per dodici ore in attesa del volo di ritorno, programmato per l'esattezza alle dieci di sera. Niente di entusiasmante, mi toccherà stare tutto il tempo in sala d'attesa a ingurgitare patatine e guardare i passeggeri scorrazzare dietro gli aerei in partenza».

Per un istante la linea telefonica crollò in un religioso silenzio.
«A Phoenix fra due ore e mezzo, dici?»

Mi limitai ad annuire ancora una volta.

«Non dire nient'altro. Ciao, Haylee».

Non ebbi il tempo di replicare, che il suo saluto fu seguito da tre beep consecutivi, che indicavano la fine della chiamata.

«Che cafone», pensai ad alta voce, guadagnando due occhiatacce stranite da parte degli steward che stavano allestendo le scale d'ingresso del mio Boeing, pronto alla partenza.

Misi un piede fuori dall'edificio, sfilando il cellulare dalla tasca della divisa. Attesi la sua l'accensione, dopo aver premuto a lungo sul tasto di blocco. Mi stavo preparando mentalmente a una lunga, tediosa sessione di giochi trivial che mi avrebbero tenuto compagnia per le dodici ore successive presso l'aeroporto di Phoenix. Il sole brillava sul cielo cristallino della città, mentre a pochi passi da me si alternavano decolli e atterraggi al ritmo di pochi minuti. Taxi e navette scorrazzavano dentro e fuori il parcheggio anteriore all'ingresso dell'edificio.
Chiusi gli occhi, sgranchendo le braccia. Poi, la mia concentrazione fu interrotta dal rombo assordante di una moto. Maledissi mentalmente l'idiota che girasse per il mondo con uno scarico così rumoroso, per poi accorgermi che la moto azionò i freni a un paio di passi dalla panchina che avevo occupato da pochi minuti.

Il motore si spense con uno scatto. La carenatura super sportiva di una Kawasaki brillava sotto i raggi del sole. Interamente nera, in tinta con la pelle del giubbotto che il pilota indossava. Nero come il tessuto di jeans che fasciavano le gambe robuste a cavallo del bolide. E come il casco integrale, che copriva interamente l'identità del motociclista. Il suo pollice fece il gesto di salire.

«Capisco di essere un dolcetto molto appetibile», dissi a tono affinché il pilota mi sentisse fin dentro il casco, «ma se pensi che salga in sella a una moto con un estraneo... sei fuori strada».

Con un gesto annoiato si sfilò uno dei guanti. Poi, sollevò la visiera. E due occhi blu come l'oceano, tutto all'infuori che estranei, mi abbagliarono anima e corpo.
«Sei uno stupido cretino», sospirai. Osservai i suoi occhi incresparsi. Nonostante fosse coperto dal casco, sapevo stesse facendo quell'espressione. Quella sua, tipica e caratteristica espressione autorevole e consapevole della mia volontà di farlo arrabbiare. Le labbra arricciate in un mezzo sorriso, le piccole rughe evidenziate sulle tempie, gli occhi che abbassano la loro tonalità fino ad acquisire il colore d'oltreoceano.

Poggiò il pugno sul serbatoio lucido della moto su cui era ancora a cavallo. La reggeva con un piede mentre l'altro stazionava sulla pedalina delle marce.
«Prego, Haylee, per essere venuto fino a Phoenix al fine di non farmi ammuffire su una panchina come una barbona».

«Mi spieghi secondo quale legge della fisica ti sei fatto San Francisco-Phoenix in meno di due ore?»

Allentò la fibbia che chiudeva il colletto del giubbotto.
«Sono uno scienziato pazzo e ho la formula del teletrasporto».
«Vaffanculo, Neels».
«Haylee, non costringermi a togliermi il casco per baciarti».

Arricciai le labbra, prima di dare un'occhiata intorno. «Vaffanculo, Neels».

Con un rapido movimento dell'indice slacciò la sicurezza alla base del collo. Portò l'avambraccio dietro la mia schiena, attirandomi a sé, seduto sulla sella. Pochi centimetri intercorrevano fra le nostre figure. La presa del palmo si fece più leggera progredendo verso il fondoschiena, dove arrivò con una delicatezza disarmante. Milioni, miliardi di farfalle erano ormai abituate a riconoscere la presenza di Neels. La sua mano risalì lentamente lungo tutta la colonna vertebrale, scatenando una marasma di brividi fin dentro le ossa. Le sue labbra si fermarono a un sospiro di distanza dalle mie.

«Devo pregarti di salire o preferisci», sussurrò sulle mie labbra, «stare tutto il giorno a guardare passeggeri scorrazzare dietro gli aerei in partenza?»

«Vaffanculo, Neels», misi un piede sulla staffa, facendo leva per accomodarmi sulla sella posta dietro il conducente, «e stavolta intendo su serio».

Mi passò un casco uguale al suo, che infilai di riflesso. «Quindi le altre volte mi prendevi in giro?»

Non risposi, perchè le farfalle che svolazzavano nel mio stomaco me lo impedirono. Le mie braccia si strinsero attorno al suo torace, sentendomi terribilmente piccola e, all'istante, quell'amarognolo e caratteristico odore di pelle del suo giubbotto di insinuò dentro le mie narici.

«Che rapporto hai con la velocità, piccola?»
«Volo ogni giorno a mille chilometri orari», asserii nel suo orecchio, «non puoi battermi».

«Temo di no, in aria. Ma su strada?», precisò per poi poggiare la mano sulla mia coscia, stretta attorno ai suoi fianchi. Deglutii, sentendo un calore irradiarsi nel basso ventre.

«Non saprei. A dire da come stai su questa bestia, sembra che tu abbia particolare confidenza».

«Per la cronaca», si voltò fino a mostrarmi i suoi occhi, «è la stessa moto che Tom Cruise guida nel sequel di Top Gun».

Deglutii rumorosamente. Quella su cui ero a cavallo era una delle moto più potenti mai costruite. Un bolide giapponese di marchio Kawasaki, quattro cilindri e duecentotrenta cavalli di potenza. Avevo sempre avuto filia per le moto, tramandatami per induzione da mio padre e dai viaggi che non di rado compievamo insieme in sella.

«Tu sai che il limite di velocità vigente negli Stati Uniti sia di centododici chilometri orari in autostrada, non è così?»
«Non costringermi a mostrarti la patente, Haylee. Certo che lo so».

Incrociai le braccia davanti al petto. «Allora perché hai il culo su un bolide che arriva a trecento chilometri orari?»

Le sue dita possenti si strinsero ancor di più attorno alla coscia, aumentando a dismisura il calore che, oramai, stazionava nel basso ventre dal secondo in cui i miei occhi riconobbero i suoi. I miei neuroni rimossero del tutto la stoffa dei pantaloni che avevo addosso, facendomi percepire la sua mano a diretto contatto con la pelle.

«Ho detto che conosco il limite vigente, non che lo rispetti, Haylee», disse con tono serio, autorevole e ben consapevole che mi avrebbe zittita.

Con la mano che per tutto il tempo reggeva il manubrio girò la chiave nel quadro. Il motore iniziò a rombare sotto di noi. Come se una forza superiore avesse impartito un comando ai miei muscoli, la mia mano fuggì sulla sua, ancora stretta attorno alla coscia. Si voltò verso di me, guardandomi con la coda dell'occhio. Poi, accompagnandomi con la sua, portò la mano fino al suo addome, stringendola contro il giubbotto di pelle. Anche in questo caso i miei neuroni rimossero con prepotenza lo strato di tessuto, facendomi sentire sotto le dita gli addominali ben scolpiti.

Viaggiammo per circa un'ora, passando per i panorami estasianti dell'Arizona. Centinaia di Grand Canyon ci abbracciavano da ogni direzione mentre Neels guidava con sicurezza sulle tipiche routes solitarie. Fra gli arancioni complessi rocciosi con le braccia avvolte sul suo corpo, era quello il luogo che non sapevo di aver bisogno.

La moto si fermò all'ombra di un canyon, sul ciglio di una route poco trafficata. Mi sfilai la giacca della divisa, arrotolando sui gomiti le maniche della camicia che avevo addosso. «C'è molto caldo, eh?» asserii.

Neels era già sceso dalla moto, lasciandola sul cavalletto. Il cursore di metallo scorse lungo tutta la cerniera che decorreva dal collo fino al suo basso ventre. Neels sfilò di dosso il giubbotto, sotto il quale non c'era nient'altro che il suo fisico da scultura greca, che pareva essere scolpito direttamente dalla mano di Michelangelo. Un sottile strato di sudore brillava - sotto i raggi del sole - sui suoi muscoli. Davanti a bicipiti, spalle, pettorali e addominali di Neels Wayne, persi la capacità di controllare il mio sguardo. Niente e nessuno poteva distogliermi dal panorama che si estendeva davanti ai miei occhi. I pantaloni scuri fasciavano i suoi fianchi fino a metà della V ben in evidenza sul basso ventre.

Lasciò il giubbotto sulla sella della moto, parcheggiata a pochi passi di distanza. Poi uscì dalla tasca un paio di Ray-Ban scuri, indossandoli.
«Ancora caldo, darling

Mi morsi il labbro inferiore.
«Quale egocentrico indossa un giubbotto di pelle senza maglietta sotto?»

«Si dia il caso sia io», Neels si avvicinò pericolosamente con una lentezza disarmante, «ma ti ho fatto una domanda, Haylee. Senti ancora caldo?»

La mia altezza mi costrinse a sollevare la testa per raggiungere i suoi occhi. Lui aiutò il movimento poggiando due dita sotto il mio mento. «Più di prima» sussurrai.

«Good», si limitò a dire mentre annullava ogni millimetro di distanza che intercorreva fra le nostre labbra.

Neel(s)

Haylee... Haylee mi impediva di ancorare gli occhi altrove se non su di essa. Ci trovavamo in mezzo ai canyon patrimonio della natura, ma il panorama più bello restava lei.

«Hai fame?» Le chiesi mentre estraevo dal sottosella due sacchetti con dentro del cibo. Li comprai quella mattina non appena scoprii che la sua meta del giorno era Phoenix. In realtà non avevo guidato da San Francisco a lì in due ore come lei pensò. Non ero mai stato un asso in materia, ma secondo le leggi della fisica sarebbe stato impossibile percorrere quella tratta in così poco tempo. La verità era che, ironia della sorte, da un paio di giorni mi ero recato in Arizona per registrare una nuova puntata di OTOTW. Ero riuscito nel mio intento, girando in lungo e in largo in sella alla mia moto, e quella mattina sarei dovuto tornare in patria, ma dopo aver saputo che Haylee sarebbe stata un'intera giornata in solitudine in aeroporto, non ci pensai due volte a prendermi un giorno di soggiorno in più.

Le passai un sacchetto. «Avevi programmato accettassi?» Chiese mentre lo scartava.

Giocherellavo con la fibbia della cintura mentre prendevo posto accanto a lei. «Come avresti potuto rifiutare un giro in moto attraverso l'Arizona con me?»

Conoscevo quell'espressione. Proprio quella in cui Haylee abbassava lo sguardo e si mordeva il labbro inferiore, fingendo di non aver sentito per trattenere il sorriso quando la pizzicavo con una delle mie battute. Ma la verità era che osservarla sussultare a causa del mio carisma era la droga di cui non sapevo di aver bisogno.

Mi resi conto di essermi fissato a guardarla solo quando lei si voltò, fulminandomi con i suoi occhi verdi. «Perché guardi?»

Perché la guardavo? Le avrei risposto che il motivo era perché le cose belle erano state fatte per essere guardate.
«Ti dà fastidio, piccola?»

Scosse la testa in segno di dissenso. Dio, sembrava una bambina. «Fa ridere il fatto che finiamo sempre per stare insieme in giro per il mondo ma mai a San Francisco» tergiversò, smagliando uno dei suoi sorrisi. Sin da bambino avevo la passione per i viaggi. Ma c'era un limite, ed era quello di ostinarmi a viaggiare in solitudine. Totalmente solo per assaporare ogni minimo dettaglio del mondo, e ne era una prova la gestione del mio programma.

Ma con lei ci avevo preso gusto. Forse non era il mondo a essere bello. O forse lo era. Ma con lei era decisamente meglio.
«Rende tutto più bello, non trovi?»




Spazio autrice❤️‍🔥
Non ci credo, ce l'ho fatta🥹
Mi scuso immensamente per l'attesa, so di non aver aggiornato per parecchio ma il dovere mi ha chiamata ripetutamente, prima con gli esami di stato e subito dopo con lo studio per i test di medicina che oramai si avvicinano sempre di più.
Me a parte, che ve ne pare di questo legame fra i Neeylee che si fa sempre più forte? Andrà tutto liscio o ci sarà qualcosa a perturbare l'equilibrio che regna per ora?😈
E quale sarà la prossima meta?✈️
Alla prossima

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