Capitolo Due - Pesce Rosso

📍San Francisco, California

Tic tac, tic tac. Dovevo ancora aprire le palpebre quando capì fosse l'ennesima della mia chilometrica collezione di giornate di merda. Fu in un flash che balzai fuori dal letto, consapevole di aver ignorato malamente i trilli di tutte le sveglie impostate. Sì, dico "sveglie" perché un solo allarme non bastava per destarmi dal coma in cui precipitavo ogni qualvolta mi tuffavo tra le mie coperte.

Porco schifo.

L'orologio analogico ticchettava rumorosamente mezzogiorno e mezzo. Ciò significava che avevo dormito come un ghiro per undici ore che, tuttavia, sembrava non fossero bastate a ricaricare la batteria. Sentivo ancora i postumi del jet lag che avevo accumulato il giorno prima nel continente dei canguri.

Ma non era quella la questione importante. Almeno, non importante quanto il volo che tre quarti d'ora dopo sarebbe dovuto partire - sotto il mio comando - da San Francisco alla volta di Houston.

Misi addosso la divisa nera, sistemando alla meno peggio il nodo della cravatta scura mentre scendevo di gran carriera le scale di casa.

La cucina regnava di un religioso silenzio, testimonianza che fossi sola. L'adiacente salotto era abbellito da un sofà color verde mela. Erano passate due settimane da quando lo acquistai in uno store Ikea a Stoccolma. Sì, adoravo comprare tradizionalismi di ogni paese che giravo, e quella volta tornai a casa con un vero e proprio divano. Che, tuttavia, non avevo avuto modo di testare per mancanza di tempo.

Avevo sempre adorato trascorrere del tempo a casa, il che può sembrare controproducente dato il mio mestiere, che mi tiene ovunque tranne che a casa. Ma forse era proprio quel desiderio che mi faceva sempre bramare di tornare nel mio casolare, e gustarmelo insieme a un buon bicchiere di vino.

Stavo per lasciare la dimora quando mi accorsi che sulla superficie vetrata del tavolo spiccava un bicchiere. La mia innata curiosità mi impose di tornare indietro. Così, tolsi il tappo di plastica, osservando il liquido scuro muoversi al suo interno. Il profumo che emanò fu la testimonianza si trattasse di caffè.

Amavo il caffè.

Se avessi avuto un ultimo dollaro da spendere prima di morire, ero pienamente convinta di averlo voluto spendere in una caffetteria. Vagando per il mondo avevo avuto modo di assaggiarne una moltitudine di tipologie, a partire da quello puro brasiliano fino ad arrivare all'espresso italiano. E, sì, per arredare il mio salone in stile industriale avevo installato una "mensola del caffè": una vera e propria collezione di gusti che aggiornavo periodicamente con cialde e bustine acquistate in giro per i continenti.

Sul cartoncino di cui era composto il bicchiere appariva una dicitura, firmata con una S.

Non era un diamante a rendermi felice. Né tantomeno un auto da centomila dollari. Erano i piccoli, banali gesti quelli che mi facevano battere il cuore, insediandosi fin dentro l'anima.

Per la mia dolce Hay. Tuo S.

Avete presente la sensazione amara di essere legati a una persona da talmente tanto tempo che, nonostante le difficoltà, non riuscite a immaginare la vostra vita senza la sua presenza?

Questo era quello che provavo. La mia mentalità annegava nella convinzione che gli errori potessero sempre essere corretti. Percepii quel piccolo gesto come un tentativo di ripresa, una sorta di "riproviamoci, perché non voglio perderti". E fu così che mi trovai a perdonarlo per la miliardesima volta.

«Riproviamoci», risposi nel vuoto, sicura che lui - per telepatia - conoscesse già la mia risposta.

Mentre ero imbottigliata nel dannato transito della città, avevo inviato un rapido SMS a Lexie, la proprietaria del bistrot, nel quale chiedevo di mettere da parte un sandwich al pollo e peperoni. Sì, la mia principale fonte di nutrimento derivava proprio dagli sbrigativi pasti che acquistavo lì, o in precarie bancarelle in giro per il mondo. Vista la mia attitudine al coma, non ricordo di una volta in cui sono riuscita a svegliarmi in tempo per prepararmi un normale pranzo al sacco, così come facevano tutte le persone sane di mente.

Tra passeggeri più veloci di Usain Bolt e trolley che continuavano a sbattermi sugli stinchi, ero ufficialmente entrata nella mia caotica routine quotidiana.

«Lexie», volsi lo sguardo all'esorbitante orologio visibile da tutti i poli aeroportuali, constatando di aver scampato il licenziamento per l'ennesima volta, «mi dai al volo il pranzo che ti ho ordinato?»

«Un momento che controllo», rispose lei indaffarata tra un piatto e l'altro . A volte mi chiedevo come una personcina così minuta riuscisse a gestire tutte quelle pressioni. «Non c'è nessun ordine, tesoro».

«Come sarebbe a dire? Ho inviato il messaggio», sfilai il telefono dalla tasca dei pantaloni, mostrandole la schermata.

«Haylee, il messaggio non è stato inviato. Sono desolata», fece spallucce lei, osservando dietro la mia figura, «l'ultimo l'ho venduto giusto un minuto fa».

Volsi lo sguardo nella direzione osservata, vagando tra i tavolini gremiti di passeggeri. Almeno fin quando le mie pupille si bloccarono su una figura di spalle che addentava i miei amati peperoni.

Avete presente quando qualcosa vi si fissa in testa e lì ci resta, anche a costo di fare una follia?

Con due falcate raggiunsi il luogo del delitto, strappando l'oggetto imputato dalle grinfie affamate del criminale, che restò fisso a scrutarmi come se avesse visto un fantasma materializzarsi.

La mia violenta irruzione aveva catturato su di sé decine di occhi indiscreti. Tuttavia, la colpa era solo mia, perché avrei dovuto ricordare fossi la preda preferita dell'universo.

Consapevolezza che arrivò a martellarmi solo quando il mio sguardo rabbioso si incatenò a un paio d'occhi blu, la cui profondità mi era già - purtroppo - conoscente.

«Hai intenzione di restituirmi il mio panino o devo chiedertelo via telegramma?»

Conoscevo quella dannata voce. Così come quello sguardo. Così come quel trasudato egocentrismo, che era riuscito a farmi andare su di giri in un impercettibile millisecondo.

Strinsi le dita attorno al cartoccio.
«Quello era il mio pranzo», sottolineai.

La sua espressione era un miscuglio indecifrabile tra l'essere divertito e l'essere incazzato nero.
«Io l'ho pagato, genia», sogghignò lui.

Se ve lo steste chiedendo: sì, proprio quel lui dell'aereo. Quel lui che non avrei mai più dovuto rivedere dopo l'inconveniente e imbarazzante volo di Berlino.

«Ma io l'avevo ordinato prima di te». La natura di sopravvivenza umana vuole che quando si è in trappola, si cerchi di fuggire in ogni modo possibile e immaginabile. Ed è quello che inconsapevolmente stavo già facendo. «Io, comunque, mi sono convinta di virare il mio aereo di ottocento miglia per azzerare il rischio di ritrovare un ebete sul mio cammino».

Sbatté il palmo sulla superficie legnosa del tavolino.
«Dimmi, dannazione! Non sono libero di stare dove voglio?»

«No», addentai il suo panino, «almeno, non nelle mie circostanze».

La postura eretta con le mani sui fianchi era la chiara testimonianza che stesse perdendo la pazienza.
«Sei stata tu a irrompere come un uragano e interrompere il mio beato pranzo».

«Non l'avrei fatto se non mi avessi rubato il beato pranzo a cui alludi».

«Io non ho parole», balbettò lui mentre si portava una mano alla tempia in segno di disperazione, «sei pazza, altrimenti non si spiega tutto ciò».

Regola numero uno di vita: non dare della pazza a una donna.

Con in circolo una quantità esorbitante di adrenalina, strinsi nel pugno il primo oggetto più vicino. Tuttavia, avrei dovuto ricordare di essere stata partorita dalla sfiga in carne ed ossa.

La mia divisa fu completamente imbrattata di sugo al pomodoro e cipolla, e la percezione non si limitava solo agli occhi. Sentivo il liquido scorrermi ovunque, fin dentro le scarpe. Per non parlare della puzza megagalattica, che aveva fatto fuggire dei bambini a me vicini.

«Non puoi credere quanto io stimi il karma in questo istante», sospirò tagliente lui, coprendosi gli occhi con una mano «è persino meglio di un orgasmo!»

Era incredibile la velocità con cui quel suo sfacciato sorriso sardonico mi facesse andare fuori di testa. Se avessi potuto esprimere un ultimo desiderio... quello sarebbe stato di vederlo incazzato nero per causa mia, come lo ero io in quell'istante per causa sua.

Sentii qualcosa di rigido tra le dita. Subito dopo, fui destata da un forte e acuto rumore.

Con quella mossa, ero riuscita a bloccare su di noi centinaia - se non migliaia - di occhi curiosi. Letteralmente un quarto di aeroporto era fisso a contemplare quel coglione patentato, zuppo dall'acqua sudicia contenuta nella boccia di un pesce rosso che abbelliva la cassa del bistrot.

Ansimava, molto. Dire che fosse sconvolto era un defalco. Era su due piedi, a contemplare il pasticcio che io avevo causato. Il piccolo acquario conteneva parecchia acqua da averlo inzuppato dalla testa ai piedi: la camicia bianca si aderì immediatamente ai pettorali, trasparendo parecchio. Per non parlare dei capelli perfetti, ormai bagnati come se avesse appena fatto una doccia.

Per completare il quadretto, godevo a osservare le espressioni che il suo volto assumeva. Avrei potuto farci una collezione con tutte le smorfie che avevo memorizzato in quei soli due incontri, e magari intitolarla: Cinquanta Sfumature di Coglione.

Ero tremendamente in tensione. E cos'è che feci? Non riuscii a trattenere le risate. Era questo ciò che il mio cervello attivava in tali contesti: una specie di meccanismo di difesa che mi faceva ridere fino a sentirmi male, un po' come il disturbo neurologico di Joker.

Insomma, chi avrebbe resistito alla vista di un egocentrico boccheggiare mentre tastava il suo elegantissimo completo di raso inzuppato di acqua all'essenza puzzolente di pesce rosso?

«Uno a uno e palla al centro, idiota», riuscii a prendere fiato mentre rincaravo la dose tappandomi il naso.

«Tu sei una squilibrata, una pazza, io... mi auguro di non vederti mai più!» Disse queste parole mentre una mano continuava a gesticolare compulsivamente. L'altra cercava di allentare la cravatta blu notte che pendeva dal colletto.

«Me lo auguro anch'io!»





Spazio autrice✈️
Ok, vi ho fatto ridere abbastanza? Mi auguro di sì, perché quello era il mio intento!🙏🏼

È molto probabile che in questa decina di giorni che verranno riceverete più aggiornamenti di questa storia. Sì, perché sono in quarantena e non ho molto da fare se non studiare, scrivere e leggere🥲

Messaggio per i fan di Chris Evans: per scrivere questa parte finale mi sono ispirata alla sua Frozen Blackjack con Jimmy Fallon😂🤤

Alla prossima, stelle!💙

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