5. Postumi

Entro alla Gold Games e mi dirigo direttamente verso la postazione di Stefano. Ho trascorso il fine settimana a rimuginare sulla mia ormai scarsa resistenza agli alcolici. Sono arrivata a pensare che, una volta superati i trent'anni, nel nostro corpo si attiva un programma dormiente installato dalla nascita che fa diventare pesanti azioni o comportamenti sino a quel momento considerati normali.

Il mio amico e collega è tornato al suo solito aspetto: occhiali con la montatura dorata sottile, le cuffie, ancora non sistemate alle orecchie, i capelli castani spettinati che gli coprono quasi gli occhi.

«La percentuale, voglio sapere la percentuale» esordisco senza neanche salutarlo sorprendendolo già chino a scrivere righe di codice.

Lui non sembra neanche spaventato dalla voce che gli è arrivata alle spalle a sorpresa e ruota solo la testa, senza smettere di battere sui tasti. 

È un ghigno quello che sta affiorando sulle sue labbra sottili? L'occhio è di chi la sa lunga.

«Avevo pensato a un settanta per cento di possibilità che tu ti ubriacassi sino all'incoscienza, ma dopo i primi bicchieri la percentuale è salita al novanta. Hai retto sin troppo bene a giudicare dal rapporto tra tempo e gradi alcolici ingurgitati, ma forse il peso corporeo ti ha aiutata».

«Il fatto che io non ricordi nulla di ciò che è successo dopo quella tua frase sulla percentuale non depone a mio favore» ammetto con un sorriso.

«Hai retto ancora per circa un'ora e altri cinque bicchieri di superalcolico». Ruota anche la sedia, adesso.
«Davvero non ricordi?» Il suo tono si fa più sottile e malizioso, quasi non sembra il solito Stefano.
«Cosa dovrei ricordare?» Inizio ad allarmarmi.
«Ci hai provato con mezzo locale e hai tentato di baciare Dave quando ti ha messa sulla macchina di Serena per portarti a casa».

Mi avesse comunicato che la mia vittoria in Plague Inc, con gli esseri umani estinti da un'epidemia provocata dalla sottoscritta, si sta per tramutare in realtà, non avrebbe sortito l'effetto di scoramento che provo in questo istante.
«Impossibile» sussurro. Nel frattempo le immagini dei baci, quelli veri, che ci eravamo dati in passato, mi passa davanti agli occhi.
Scrollo la testa per scacciarli e prendo una decisione.
Mi alzo e gli punto il dito contro. «È tutta colpa di Giacomo, mannaggia a lui. Avevo altri programmi per la serata. E tu non mi hai mai detto nulla di tutto questo».
Giro i tacchi, ma l'istinto fa suonare un altro alert.
Torno sui miei passi e gli picchio sulla spalla, visto che è tornato concentrato sullo schermo. Stavolta sobbalza.
«Giura su tua madre di non dire a nessuno che io so».
«Va bene» annuisce scuotendo la testa con vigore, nello sguardo un'espressione allarmata e non più scherzosa. Fare pugilato mi dà una nuova autorevolezza.
«Ottimo» mormoro. Mi dirigo verso la mia scrivania e cerco di attivare una maschera che mi consenta di interagire normalmente con Dave senza farmi sgamare da lui.

Non è la prima volta che mi porta a casa dopo una sbronza, tuttavia credo di non aver mai osato tentare alcun tipo di approccio fisico da quando l'ho lasciato. Il dubbio si fa strada sotto forma di un brivido di disagio.
Entro nel nostro mini open space da dieci scrivanie e lui è già alla sua.
Spero con tutto il cuore di non aver creato problemi con Deborah.
Faccio un gran sospiro e raddrizzo la schiena.
«Ciao» cerco di usare il tono più neutro possibile, io che il tono neutro non l'ho mai usato con lui e l'effetto è alla Hal 9000.
Lui risponde con un «Ciao» che è l'emblema della mestizia. Poi si passa una mano tra i capelli, mentre continua a fissare lo schermo che gli restituisce l'immagine di un giovane.
«Senti, ti va di condividere su Facebook un appello di ricerca persona?» Impiego almeno tre secondi per comprendere ciò che ha appena detto.
«Ricerca persona?» ripeto, non del tutto certa di aver compreso. Ero preparata a tutto, ma non a questo.
Mi fa un cenno con la mano per farmi avvicinare. Sul monitor una specie di volantino virtuale con la faccia di un ragazzo a cui non darei più di una trentina d'anni: testa rasata e barba folta, un piercing gli attraversa il lobo dell'orecchio sinistro. Roberto Pastorino, leggo, scomparso da sabato 20 aprile. Sarebbe dovuto tornare dai genitori da Genova a Masone per il pranzo della domenica, ma non si è presentato. Ha risposto a un messaggio nel primo pomeriggio del sabato e poi non ha dato più notizia di sé. Segue un numero di telefono da contattare per fornire informazioni.

Nella descrizione testuale che correda la foto viene specificato che viveva da solo a Crevari, sulle alture di Voltri, e che nessuno è in grado di fornire una descrizione dell'abbigliamento con cui è uscito di casa.

«Ha frequentato qualche corso con Deb a Giurisprudenza per un anno, poi lui ha mollato. Erano diventati amici, in quel periodo», dice Dave.
«Cazzo» mi sfugge. Provo a immaginare qualche mio compagno di università in quella foto e una strana sensazione mi agguanta le viscere.
«Condivido subito l'appello».
Accendo il computer e nel frattempo uso il telefono per aprire Facebook e ripostare il volantino prendendolo direttamente dal profilo di Dave.
Nel giro di pochi minuti altri miei contatti fanno lo stesso, una catena che si sviluppa con la rapidità di un virus.

«Facebook si dimostra utile per queste cose» provo a rassicurare me e lui con una considerazione che vuol dire tutto e niente.
Resisto all'impulso di andare a cercare i profili social di questa persona.
Lo squillo del telefono fisso aziendale mi fa balzare sulla sedia.
Alzo la cornetta senza neanche tentare di capire chi mi cerca sul display.
«Sì?»
«Gloria, non riusciamo a iniziare senza te e Davide. Venite in sala riunioni». La voce di Federico, il producer della Gold Games ha l'effetto di una piccola detonazione nella mia mente. Dove cavolo ho la testa?
«Sì, scusa. Arriviamo» abbozzo mantenendo una discreta sicurezza.
Dave scatta in piedi. «La riunione!»
«Già». Mi alzo flemmatica e gli lascio briglia sciolta. Il primo dei ritardatari di solito è anche il primo a scusarsi e catalizza l'attenzione di chi aspetta.

Entro nella stanza quando lui non ha ancora terminato le giustificazioni sul fatto che è arrivato venti minuti dopo l'orario fissato e mi accomodo in uno dei posti vuoti.

Riccardo è a capotavola, seduto accanto a Federico, colui che coordina tutto il team. Il producer si alza, è l'unico in giacca e cravatta in sala.
«Ora che ci siamo tutti possiamo cominciare». Ci regala una fugace occhiata.
«Scusate il messaggio di sabato, ma è successo tutto un po' per caso. Come avrete notato il sindaco era molto entusiasta del nostro progetto e chiacchierando con Martin sono uscite idee che potrebbero essere utili sia a Genova, sia alla Gold Games. Idee che richiedono una certa velocità di esecuzione. So che siete già concentrati su altri lavori, tra cui la trasposizione di Underground nel metaverso, ma vi chiederò di lavorare in parallelo a un altro videogame che sarà ambientato a Genova. Sarà un'avventura grafica e Riccardo ci sta già pensando da sabato. Procederete spediti se vi dimostrerete collaborativi come al solito».

Fa una pausa e tocca il monitor del portatile davanti a lui, lo schermo gigante alle sue spalle si anima.
«A proposito, Underground sta andando alla grande!» Cambia tono e quasi urla, mentre sulla tv a 60 pollici iniziano a comparire titoli e recensioni tutte entusiastiche.
Batte le mani e tutti reagiamo in un riflesso automatizzato. 
«Riccardo, tocca a te».

Il vichingo nano si è accorciato la barba rispetto a venerdì. Si alza e apre una cartella sul desktop del portatile.
Clicca sulla presentazione e ci mostra le sue idee mostrandoci quello che è forse il Game design document più abbozzato che abbia mai visto. Del resto non ha avuto molto tempo.

«L'idea sarebbe di prendere a modello una pietra miliare come The secret of Monkey Island per l'umorismo e tipologia di gioco, ma adattarla a quello che ci ha suggerito il sindaco: un viaggio nel tempo nella storia di Genova».

Un mormorio di stupore, misto ad approvazione, serpeggia nella sala.

«Ho iniziato a prendere contatti con un esperto storico della città e spero di poter completare lo storyboard il prima possibile. Da quel momento potremo iniziare sul serio».

La riunione prosegue senza altre rivelazioni, con informazioni più rivolte al marketing che a noi programmatori.

Sbircio Dave e lo vedo distratto, intento a scrivere qualcosa sul telefono. La scomparsa di quel ragazzo e la riunione mi hanno impedito di ripensare alle rivelazioni di Stefano e forse è meglio così. Passare il limite in questo modo non mi piace e ce l'ho con me stessa.

Quando rientriamo alle postazioni è taciturno e io non ho voglia e coraggio a interagire con lui. Non avrei la solita naturalezza.

È lui a parlare dopo un paio d'ore di silenzio: «Mi ha scritto Deborah, qualche sito di informazione ha pubblicato la notizia. Pare che si sia attivata la polizia o comunque le forze dell'ordine in generale».

«Se ha con sé uno smartphone lo troveranno abbastanza rapidamente». Provo a rassicurarlo. Vederlo così giù per una persona che neanche conosce, anche se era un amico della sua ragazza, mi sembra strano. Deve esserci dell'altro, ma non è il momento di indagare.
«Deb ha provato a chiamarlo, ma risulta irraggiungibile».
«Magari ha cambiato numero...»
La frase cade nel vuoto.

Non sono mai stata così felice di arrivare a fine giornata e uscire dall'ufficio. Quando timbro il bip dell'apparecchio mi dà la stessa soddisfazione di un assolo di Jimmy Page. Dave se n'è andato un'ora prima senza che il suo umore fosse migliorato.

Ho bisogno del mio unico vero conforto quando succedono cose su cui devo riflettere e quasi corro nel tragitto tra la stazione di Pegli e casa, impiegando quattro minuti in meno rispetto al tempo che ci metto di solito.

Passo davanti al portone e mi dirigo nel garage nei fondi del palazzo. Lei mi aspetta ed è sempre in ottima forma, lucida. L'ho lavata l'altro giorno e il verde e il nero brillano sotto il neon.  Indosso la tuta comprata da poco ed è già come una seconda pelle.
I capelli sono cresciuti un po' troppo: quando metto il casco si appiccicano sulle orecchie, dove non dovrebbero stare. Il fatto che ci siano oltre 20 gradi non aiuta.
Mi adagio sul sedile e già mi sento meglio.

Giro la chiave.
Su il cavalletto.
Folle.
Tasto di accensione.
Pedalina giù.
Mollo la frizione.

La Kawasaki Ninja H2 SX si muove lentamente e la accompagno con delicatezza fino all'immissione in strada. Procedo a trenta all'ora nel quartiere senza incrociare troppe auto o pedoni fino al semaforo che mi darà l'ok a percorrere l'Aurelia.
Destra o sinistra?
Ponente o Levante?
Col mare di fronte e i monti alle spalle le alternative iniziali sono solo due.
Scatta il verde e svolto a destra.
Prima.
Seconda.
Terza.
Quarta.

La Ninja scalpita e io ho troppo a cui pensare per badare al limite di velocità.
Non esagero per non farmi togliere la patente.
Il rettilineo di Pra' è rovinato da troppi semafori mal sincronizzati che sembrano essere studiati per degli stop and go, per fortuna la deviazione è vicina.

Lascio l'Aurelia e un altro pensiero, relegato chissà dove durante questa strana giornata, viene a galla: oggi al lavoro Giacomo non si è visto.







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