27. Cara polizia

Quello che temevo di trovare è lì. Il fatto che sia tangibile e non frutto della mia immaginazione da amante dei gialli mi fa venire i brividi.
All'improvviso mi guardo alle spalle.
Lo scroscio del rio Sant'Anna, che corre verso il mare nel cunicolo dietro di me, sembra immutato.
Non erano dei passi quelli che ho appena sentito, vero?
«Non sarebbe possibile, non può sapere che tu saresti venuta qui stasera». Lo dico ad alta voce in uno sdoppiamento della me razionale a confronto con quella che crede all'impossibile. Sarebbe un bel meccanismo da inserire in un videogame.
«E se ci fosse un messaggio nella stanza della banca?»
«Non è affar tuo, Gloria».
Sto impazzendo. L'autosuggestione fa brutti scherzi.
Per sicurezza mi volto di centottanta gradi e mi avvicino all'altro parapetto puntando la torcia il più lontano possibile. Il corso d'acqua è ignaro della mia agitazione e continua il suo percorso come la fisica vuole. Il cunicolo è piuttosto largo e alto e una persona può camminare tranquillamente nell'alveo sotto via Luccoli.
«Sei un bastardo!» urlo al tunnel, come se l'ignoto assassino fosse lì ad ascoltarmi.
Di sicuro è tranquillo, sdraiato su un lettino in spiaggia al tramonto a sorseggiare un Americano.

Serena mi sta aspettando, devo tornare su.
«Ehi!» la chiamo, non appena sono sotto all'apertura.
La sua chioma bionda, causa gravità, si protende verso di me. Gli occhi azzurri mi interrogano.
«Ho trovato quello che pensavo ci fosse. Torno su».
«Come posso aiutarti?»
«Ora vediamo».
Sulla fune, alle medie, ero brava perché all'epoca, facendo ginnastica ritmica, ero allenata e flessibile. Oggi la forza non mi manca, ma non faccio boxe seriamente da troppo tempo. La corda, poi, è sottile e non aiuta. La afferro saldamente con le mani. Appena provo ad appoggiare la gamba guarita alla parete per puntellarmi arriva il dolore.
«Credo che dovrò contare solo sulle braccia, magari prova a darmi una mano quando arrivo all'altezza a cui puoi acchiapparmi in qualche modo».
Cerco comunque di darmi sostegno con la gamba sana ed è di aiuto, visto che con fatica riesco a reggermi una volta lasciato il terreno.
Faccio salire una mano e poi l'altra. I bicipiti tremano dallo sforzo.
«Ancora poco e ci sei quasi». Serena allunga un braccio e quasi mi sfiora il guanto.
«Ghhhhh» dalla mia bocca ormai escono suoni onomatopeici.
Appoggio anche l'altra gamba per darmi un'ulteriore spinta e ignoro la protesta del mio corpo.
Serena agguanta il mio avambraccio e mi tira su quel poco per farmi salire ancora un po'. Il pozzetto è stretto, ma l'altro suo braccio riesce a infilarsi sotto l'ascella.
«Oh, issa» soffia.

Per poco non rimaniamo incastrate, ma alla fine riesco ad appendermi alla pavimentazione di piazza Fontane Marose e a tirarmi su. Giusto in tempo per vedere due agenti della polizia locale osservarci da un'auto parcheggiata proprio davanti a via Garibaldi, a una decina di metri da noi.
«Cazzo».
«Dai, ci siamo riuscite». Serena non sta guardando dalla mia stessa parte.
Mi giro verso di lei dando le spalle al veicolo. «Ci sono due vigili che ci stanno guardando».
«Abbiamo fatto colpo?»
Riesce a farmi ridere.
«Comportati come se niente fosse. Movimenti sicuri e vedrai che non succede niente. Ho il documento, alla mal parata».
Ha ragione: non bisogna mostrarsi titubanti ma trasudare autorevolezza.

Vado a slegare la corda dal cancello e la avvolgo in modo da renderla trasportabile.
«Ok, ora però come facciamo? Non abbiamo un mezzo da lavoro e la transenna non possiamo mica trasportarla a mano».
«Dobbiamo ancora chiudere il pozzetto. Spero se ne vadano prima di avere questo problema».
«Di sicuro capiranno che non siamo del mestiere». Non riesco a essere così ottimista come lei. Infilo la corda nello zaino.
«In ogni caso non siamo delle dipendenti di Aster, ma membri dell'Associazione studi speleologici come c'è scritto sul documento di autorizzazione. Non siamo quindi tenute ad avere la divisa o il camioncino con il logo della società del Comune».
Anche stavolta si è mostrata molto più scaltra di me.
La fortuna è dalla nostra parte perché i due dopo un altro minuto mettono in moto e se ne vanno.

Serena va a prendere la macchina e solo quando sono a bordo e ci allontaniamo da piazza Fontane Marose riesco ad appoggiare la schiena al sedile.
«Era tutto come nel videogioco, c'era il piccolo gommone e la brugola per aprire il tombino» le racconto i dettagli.
«Va bene. È il momento di scrivere questa lettera».
«Già, anche se non so bene cosa metterci dentro».
«Domani compriamo un normografo, poi dobbiamo scegliere da dove spedirla. Opterei, vista la stagione per un posto molto turistico in modo che la nostra lettera non sia l'unica nella cassetta. Così rendiamo più difficile un'eventuale identificazione tramite le telecamere. La imbucherei domenica: non essendoci la raccolta, quel giorno, avranno il dubbio su quando l'abbiamo effettivamente spedita. Se sabato pomeriggio o domenica o lunedì mattina».

Serena è un genio. Dimentico sempre che, pur essendo un tecnico esperto soprattutto in videosorveglianza, ha in qualche modo assorbito dai suoi contatti nei servizi la furbizia per non farsi individuare.
All'improvviso il mal di testa e la voglia di dormire mi investono. Lo stress per questa folle avventura mi sta dando alert evidenti. Per fortuna tutto finirà nelle mani più adatte per proseguire l'indagine, io non posso più occuparmene.

«Domani sera vedo Giacomo, per cui meglio scriverla nel pomeriggio».
«Uh, quindi è uno dei privilegiati non da una botta e via?»
Sorrido.
«L'altra volta è andata bene, lui non è opprimente e non si aspetta altro che questo. Per cui perché non prolungare il beneficio?»
«Il fatto che lavoriate insieme non è una buona cosa per questo tipo di relazioni».
«Lo so, ma non ho sentori strani. Niente effusioni in ufficio, neanche quando andiamo a pranzo insieme. È una persona intelligente oltre che un bel ragazzo che sa il fatto suo dove ce n'è bisogno». Alzo un sopracciglio e Serena quasi inchioda al semaforo.
Non voglio sbottonarmi di più anche se so che la curiosità di sapere altri dettagli la sta consumando.

Andiamo a riportare subito la transenna al suo posto e poi ci salutiamo sotto casa mia.
Incrocio il vicino che sta portando a far pisciare il cane e gli faccio un cenno di saluto. Lui mi guarda stranito. A casa, guardandomi allo specchio, capisco perché: ho una striscia marrone sulla guancia e anche i vestiti portano i segni della mia avventura sottoterra.
Faccio una doccia per lavare via anche l'odore di umido dalla mia pelle e finalmente mi metto a letto.

Una risata nel buio, uno scalpiccio su un terreno bagnato, io che mi affaccio dal parapetto, le anguille che nuotano placidamente nell'acqua al buio, anguille di uno strano colore rosso più lunghe del normale. Intestini sanguinanti. Mi protendo per afferrarle, ma cado nell'acqua, che è sorprendentemente calda.

Negli occhi ho ancora le immagini dell'incubo che ho appena fatto. Mi sono imposta di svegliarmi perché stava mancando il fiato, ma ora richiudere gli occhi è difficile.
Sono solo le tre e dieci.

Mi affaccio alla finestra per cercare un po' di sollievo dall'afa che anche di notte ha deciso di mordere. Non c'è nessuno in strada. Tutte le finestre dei palazzi attorno hanno la luce spenta, tranne una: quella singola tipica di un bagno.
Visto che di dormire non se ne parla provo a scrivere in brutta la lettera per la polizia. Mi siedo in cucina e davanti a un bicchiere di acqua gelata fisso il foglio bianco.
Come cavolo si scrive una lettera anonima? Non posso mica esordire con Cara polizia.
Sospiro.
I fatti salienti.
Semplicità.
L'assassino di Roberto Pastorino ha di sicuro giocato al videogioco Underground della Gold Games ambientato nei sotterranei di Genova. Vicino al cadavere gli oggetti come nel videogame e anche nei luoghi dei livelli successivi sono stati sistemati indizi che ricordano il gioco.

Cavolo, non va bene così.
Il registratore è nelle mie mani, non più nella cittadella. Tiro una riga su ciò che è meglio non rivelare e rileggo.

L'assassino di Roberto Pastorino ha di sicuro giocato al videogioco Underground della Gold Games ambientato nei sotterranei di Genova. Vicino al cadavere gli oggetti come nel videogame.

Stop.
Avrei potuto indirizzarli di più, ma è troppo rischioso per me. Come spiegare che uno degli oggetti è stato rubato? Non posso neanche citare il forum e l'interlocutore con cui sto dialogando, con i mezzi della polizia postale potrebbero arrivare anche a me. Sono talmente stupida, preda dell'impulsività, che non ho usato neanche una vpn.
Già queste due frasi mi mettono in una situazione pericolosa: l'anonimo sta ammettendo che ha visto le foto della scena del crimine.
Se ci sono arrivata io, figuriamoci chi fa l'investigatore per lavoro...

Il problema è che rischio di mettere in pericolo Stefano, anche se lui non ha violato nessun computer o telefono delle forze dell'ordine. 
Non ho pensato a questa implicazione. Stefano sa difendersi benissimo da solo, ma non voglio essere responsabile di qualsiasi tipo di eventualità che preveda il coinvolgimento in negativo delle persone a me vicine.
Appallottolo il foglio e lo butto nel cestino della carta.
Sono in un vicolo cieco.

Devo rifletterci, consultarmi con Serena, ma anche con Deborah. Un avvocato in questo caso fa comodo. Spero non mi chieda una parcella troppo alta.

Prendo un altro foglio.

L'assassino di Roberto Pastorino va ricercato nel mondo dei giocatori di videogame.

Generico.
Inutile.
Però almeno non mette in pericolo nessuno e forse ridarebbe un po' di linfa all'indagine.
Mi scoppia la testa. Ho bisogno d'aria.
Scolo l'acqua nel bicchiere e torno in camera.
Lo stomaco brontola per la cascata fredda improvvisa.

Top, maglietta strappata, shorts, boots.
Scendo in garage.
Casco.
Ninja.

Dieci, venti, trenta, quaranta.
Stop.
Semaforo.
Destra.
Dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta.
Incontro solo un paio di macchine, in senso opposto.
Non spingo di più, neanche sui rettilinei. La zona è da posti di blocco.
Alla prima galleria svolto a sinistra e mi fermo.
Tolgo il casco e mi affaccio dalla ringhiera. Pensavo fosse più buio, l'illuminazione stradale sfora anche laggiù.
Guardo l'orologio.
Sono le quattro meno cinque.
A quest'ora non ci sono neanche i pescatori da canna più incalliti.
Scendo le scale.
Il gabbiotto a destra, sentinella rialzata sulla roccia che ha resistito alle onde forza nove, è chiuso.
Lo sciabordio placido delle onde fa già effetto.
Una lieve brezza marina mi accarezza la pelle.
Guardo in alto, dove mi ero affacciata.
Nessuno.
Via i boots, via gli shorts, via la maglietta strappata, via il top, via le mutande.
Senza esitare mi tuffo e l'acqua mi avvolge materna.
Il calore accumulato durante il giorno rende il mare più caldo, di notte. Lo sbalzo di temperatura è lieve.
Faccio il morto e chiudo gli occhi. L'acqua entra nelle orecchie.
Il mal di testa è già passato.
Guardo il cielo, la luna si sta abbassando e non è più piena come qualche giorno fa, ma il riflesso drappeggia di bronzo il blu petrolio dell'acqua. Pixel che si intrecciano in un disegno inimitabile.

«Sarò io a sorseggiare un cocktail mentre tu dovrai guardarti le spalle e avrai paura della tua stessa ombra» dico alle stelle.


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