26. Livello 3

Salgo le scale che portano all'appartamento di Stefano come se avessi uno zombie alle calcagna. I gradini percorsi due a due non aiutano la mia gamba, ma ho troppa fretta.

Varco la soglia e mi blocco davanti alla madre, che oggi è in casa. Il sorriso e l'acconciatura stile Dado Star li trovo inquietanti come sempre.

«Cara, vieni. Quanto tempo...»

Tolgo le scarpe all'istante. Non dimentico che Stefano ha accennato a un appuntamento più o meno galante l'ultima volta che è venuto a casa mia e sono più in imbarazzo del solito.

«Stefano è in camera, ti sta aspettando. Sei sola?».

«Buonasera, signora». I piedi sulle pattine e un inchino costante finché non sparisco dietro l'angolo. Meglio non spiegare perché Dave non c'è. 

Anche se è passata da poco l'ora di cena non c'è odore di cibo, tutto è sempre impeccabile, ma come fa?
«Se volete qualcosa da bere metto il vassoio sul carrello fuori dalla camera».
«Grazie, non si disturbi».
Prima o poi porterò via Stefano da qui, ma invece che presentarmi con cavallo e armatura sarò in moto e con la tuta di pelle.

Lui è concentrato sullo schermo con le cuffie. Il riflesso azzurrino sulla sua faccia riprende lo stesso colore delle pareti di camera sua. I suoi occhi guizzano dalla mia parte per poi tornare concentrati su ciò che sta facendo. Chiudo la porta e prendo posto nella sedia di fronte, dove ha già sistemato un laptop, quando il suono del campanello squarcia il silenzio tra noi.
«E chi cavolo è, adesso?»mi sfugge.
Stefano sembra non aver sentito né il citofono, né la mia domanda.
Mi alzo per andare a vedere, ma un colpo alle spalle mi fa desistere. Il mio geniale collega ha posato le cuffie in modo rumoroso sull'ampia scrivania. Stavolta i suoi occhi glaciali mi inchiodano al pavimento.
«Oook». Mi risiedo.
Voci.
L'ospite è arrivato, ma non riesco a capire granché.
Ho un brutto presentimento.
La porta si apre e Dave resta sulla soglia. Ha i capelli particolarmente spettinati, di sicuro è venuto in scooter. Non mi guarda. La sua attenzione è tutta su Stefano, che invece dedica le sue energie alla tastiera e allo schermo.

«Così si ingannano gli amici?» Sentire la sua voce a distanza di due giorni dall'ultima volta è strano. Sono abituata ad averla nelle orecchie molto più di frequente.
Fa un passo dentro la camera.
«Ho visto le scarpe nell'ingresso. Me ne sarei andato, ma non volevo dare troppe spiegazioni a tua madre».
«Ah, allora siamo in due a essere stati fregati» mormoro guardando Stefano.
Lui non fa una piega. «Oggi scopriamo com'è facile a volte ottenere un elenco di account da un sito, ma anche come si può capire se qualcuno ci ha provato».

Per la prima volta io e Dave ci scambiamo un'occhiata e in lui leggo più perplessità, ora.
Sospira e si avvicina al nostro collega.
«Ste, le cose non possono andare così lisce. Io e Gloria abbiamo litigato e non posso fare finta di niente perché penso che non si sia comportata bene e soprattutto che non abbia imparato nulla dall'avventura di Alberto». Il tono della sua voce non si è addolcito. L'ho fatto proprio arrabbiare.

«Era tutto perfetto. Giovedì. Insieme». Sono le prime parole che Stefano pronuncia da quando sono entrata e la sua immensa fragilità colpisce anche un cuore di pietra come il mio.
Quel gigante, che tanti passi avanti aveva compiuto in questi mesi, sta tornando indietro in 2X.

Dave mi guarda, anche lui è preoccupato perché la bocca ora è un arco all'ingiù. Il mento si alza lievemente per lasciar provare me.
«Ehi, capisco che ci sei rimasto male quando ti ho detto cosa è successo... ma ci sono cose che non puoi controllare. Ci vuole tempo e la voglia di fare pace da entrambe le parti e Dave non sembra pronto a perdonarmi».
Spero che colga la mia intenzione di scusarmi. Chissà se Deborah gli ha detto qualcosa del nostro incontro?
«Iniziamo». L'ostinazione di Stefano e la sua chiusura sono monolitiche.
Avrei preferito che Dave non ci fosse anche perché volevo parlare di quelle frasi sul forum. Di sicuro saremmo riusciti a risalire a chi si nasconde dietro a quel nickname, invece mi trovo ad annuire e ad ascoltare la lezione del ragazzo con gli occhiali dorati che procede senza badare alle nostre emozioni neanche fosse al comando di tutti e seicento i carriarmati di World of tanks.

E così, senza provare a chiarirci, ci salutiamo con un cenno a fine serata andando ognuno per la sua strada dopo che il nostro ospite ci ha accompagnato alla porta con un sorriso ampio come quello della madre.
Alla fermata del bus il display dà quindici minuti di attesa per il nove. Faccio prima ad andare a piedi almeno sino a Sampierdarena e all'uno che mi porterà a casa. In ogni caso arriverò a Pegli a mezzanotte, come minimo.
Il caldo ha perso mordente e passeggiare non mi disturba. Una terrificante musica latinoamericana proveniente da qualche casa con la finestra aperta è il sottofondo.

Il borbottio di uno scooter in fase di rallentamento mi fa tendere orecchio e muscoli.
Il due ruote rosso mi sorpassa di poco e si ferma.
Dave scende dal suo Honda Pcx 125 e alza il sellino. Mi porge un casco proprio quando arrivo all'altezza del mezzo.
Mi mordo la lingua perché vorrei dirgli di farsi i fatti suoi, che mi piace camminare in questa nottata bellissima anche se non è vero e vorrei essere già a dormire.
Invece afferro il Momo rosa che probabilmente usa Deborah e mi sistemo sul sedile del passeggero.

Mi aggrappo alle maniglie ai lati per limitare al massimo il contatto fisico tra noi, ma inevitabilmente le mie gambe lunghe vanno a scontrarsi contro l'esterno delle sue cosce.

Dave corre.
Anche lui credo voglia ridurre il tempo in mia compagnia.
Spero che Deborah in qualche modo lo ammorbidisca. Non credo che sia utile ora chiedergli scusa.
Davanti al mio portone inchioda e io gli frano addosso, persa in quei pensieri.
Scendo e tolgo il casco.
«Grazie».
Scuote la testa e sistema il Momo sotto il sellino.
Vorrei dirgli qualcosa, ma cosa? «Ci vediamo lunedì?» mi esce la frase di circostanza più scontata.
«Sì». Mi guarda in faccia solo per un momento e riparte, senza salutare.
Lo mando a quel paese col pensiero.

Non ho fatto alcun passo avanti con DadOfTheDead anche se quello che ci ha insegnato Stefano stasera poteva essere utile in caso fossi l'admin del forum. Avrei potuto facilmente individuare l'indirizzo Ip dell'host di rete da cui si connette il mio principale candidato assassino. Grazie al mio collega ho imparato qualche nozione su come si può facilmente ingannare qualcuno con una e-mail apparentemente innocua, ma che fa presa sui punti deboli delle persone. Non so, però se sono in grado poi di prendere il controllo del suo computer.
Non ricordo neanche se c'è un'e-mail specifica per contattare l'amministratore.
Potrei provarci con più calma nei prossimi giorni, studiando i messaggi del mio bersaglio, nel frattempo potrei trovare altri indizi fuori dal web. Ora che mi sono più o meno esposta, anche se non palesata con la mia identità, il responsabile dei messaggi reali presi dal virtuale potrebbe o uscire ancora di più allo scoperto adesso che ha trovato una sfidante, oppure nascondersi con più attenzione.

Ora però non ne ho proprio voglia e mi butto a letto senza neanche farmi una doccia.

L'alba di venerdì 21 giugno 2019, solstizio d'estate, mi accoglie con venti gradi, secondo quanto mi comunica il mio orologio-stazione climatica in cucina. Non è troppo umido e fare colazione con la finestra aperta è piacevole. Mi accontento di uno yogurt scaduto da due giorni che non ha gusti strani e due biscotti per finire il pacco. Li addento e la friabilità non è più di quelle parti. Prima di andare in missione, stasera, devo fare la spesa.
La seduta dal fisioterapista scorre via senza troppi Ahi da parte mia e lui si congratula per i miglioramenti nella mia mobilità. Sapesse...

Al lavoro veniamo convocati per un aggiornamento sul Tesoro della Superba. Siamo ben lontani dalla fase Alpha, ma gli scenari sono quasi completi.
Riccardo, vestito con dei pantaloni di lino un po' larghi beige e con una camicia bianca con le maniche corte, sembra un turista inglese arrivato per caso nella sala riunioni, gli manca solo un panama e magari un sigaro. Passa in rassegna il nostro lavoro, anche quello di Dave nonostante non ci sia lui a presentarlo, e annuisce soddisfatto.
«I disegni che vi ho fornito mi sembra che siano serviti a creare un'ambientazione davvero credibile». Corregge alcune minuzie e tutto fila via sin troppo liscio.

All'ora di pranzo sono io a cercare Giacomo e per farlo passo davanti alla postazione di Stefano. Lui ha le cuffione alle orecchie e non abbozza neanche un saluto. La tentazione di riportarlo in bagno per parlare delle indagini mi formicola tra le mani, ma resisto come se fossi un tossico alle prese con la sua dipendenza.
Il castello di carte con lui è crollato e devo ricostruirlo con pazienza e nel bel mezzo di una bufera di vento.
«Mangiamo insieme?» Giacomo è quasi sorpreso quando gli arriva alle spalle il mio invito.
Ha ritrovato il sorriso dei primi giorni e il fatto che possa essere merito mio mi rincuora. Non sono solo una che fa terra bruciata attorno e che mette gli amici nei guai.
«Certo». Salva il suo progetto e si alza.
Stavolta propone il locale vicino a quello dove siamo andati ieri e il menù ci offre anche dei mangiaebevi. Ordino uno yogurt, il secondo della giornata, con frutta fresca. Lui decide per una frittata con l'insalata.
«Domani a che ora vieni? Alle sette?» Non bado troppo ai convenevoli e lui non si scompone.
«Ok, mio fratello torna a Genova domani e pranziamo dai miei, a quell'ora mi sarò ampiamente liberato».
Vorrei chiedergli di venire stasera a supportarci in piazza Fontane Marose, ma è troppo rischioso. Una figura maschile, in questo caso, ci renderebbe più credibili.
«Tutto bene?»
Mi sfiora la mano e mi accorgo di essermi assentata con la mente.
«Sì, scusa. Stavo pensando che non ho nessuna voglia di lavorare oggi pomeriggio, vorrei saltare direttamente al weekend».
Annuisce, poco convinto perché la sua espressione resta lievemente corrucciata.
«Se hai problemi per domani puoi dirlo, eh. Non mi offendo, anche se mi dispiacerebbe».
«No, no» mi affretto a rassicurarlo, «anzi, è vero che ho qualche pensiero legato a questioni di famiglia, ma distrarsi non fa mai male».

Torniamo in ufficio e un messaggio di Serena mi riporta all'obbiettivo di stasera.
"Confermato?"
Rispondo rapidamente. "Sì, farei attorno alle otto e mezza. Sarà ancora chiaro, ma di sicuro ci saranno meno vigili in giro perché è ora di cena. Conto di non metterci molto a scendere e a cercare un eventuale indizio. Non devo neanche riportarlo su perché intendo lasciarlo lì e avvisare la polizia. Sperando davvero che non voglia farci andare sino alla banca.
Una volta uscita da qui vado a comprare quello che manca per l'operazione".
"Ok. Bacioni" risponde. Ormai è l'unica che ha fiducia in me.
"Mi raccomando, l'abbigliamento". Le scrivo dopo cinque minuti. Non si sa mai.

La stupidità di non aver pensato a quanti tipi di tombino ci possano essere e alla pesantezza di quello che devo sollevare mi investe quando il ferramenta mi fa un sacco di domande sul tipo che devo aprire. Ho sottovalutato questa pre-fase operativa. Ringrazio la mia memoria fotografica, ma per sicurezza mi lascio intortare da lui su una specie di meccanismo universale.
Arrivo a casa con il braccio destro dolente per il trasporto di tre componenti che mi consentiranno di aprire il chiusino senza troppa fatica e di una borsa della spesa carica di viveri.

Sono già le otto e non ho tempo per cenare. Mi vesto da montagna, con gli scarponcini in goretex e scendo in garage.
Nello zaino più capiente che ho infilo una corda da scalata, cimelio di una delle mie fasi adolescenziali, guanti, il gancio, il caschetto e la torcia.
Un messaggio di Serena mi avvisa del suo ritardo. Arriva quindici minuti dopo e parcheggia l'auto negli spazi comuni dei sotterranei per agevolarmi con la transenna.
«Mia madre mi ha chiamata al telefono e aveva bisogno di parlare, non riuscivo a staccarmi» si giustifica.
«Non c'è problema».
La sua mise non è molto credibile: un paio di pantaloni di cotone con le tasche, sneakers e una t-shirt blu scolorita.
«Nel frattempo ho fatto questo». Mi porge un foglio spiegazzato che ha tutta l'aria di un'autorizzazione da parte del Comune a fare un controllo alla cisterna dopo una segnalazione.
C'è persino un timbro e una firma molto credibile di un dirigente del settore manutenzioni.

«Per farmi perdonare del ritardo».
Non riesce a dire altro perché d'impeto la stringo in un abbraccio.
«Questo l'ho imparato qualche anno fa, competenze che non posso mettere nel curriculum».
Dimentico sempre l'ampiezza delle sue connessioni con i servizi lato strumenti tecnologici che possono essere utilizzati per questioni sensibili come lo spionaggio.
Sono più sollevata quando arriviamo in piazza Fontane Marose e Serena, con la solita nonchalance, parcheggia in doppia fila a dieci metri dal chiusino che dovremo alzare.
«Scendi, vado a sistemare la macchina in modo regolare per non attirare troppo l'attenzione».
Tiro fuori la transenna e la sistemo in modo da segnalare il pericolo a eventuali passanti.
Non c'è troppa gente in giro a quest'ora, avevo ragione. Per chi uscirà dopo cena è ancora presto e chi lavora è già andato a casa. Solo qualche turista si aggira sul marciapiede opposto, quello da sempre più battuto perché in connessione con l'attraversamento della vicina piazza Portello, la fermata del bus e l'imbocco di via Garibaldi, una delle più ammirate per i palazzi cinquecenteschi descritti con ammirazione persino da Pietro Paolo Rubens. Difficile che qualcuno ci noti: gli sguardi sono tutti catalizzati dall'illuminazione artistica che si è appena accesa.
Indosso il caschetto e preparo la torcia in attesa di Serena, con il foglio in mano in caso di problemi.

La mia amica arriva dopo una decina di minuti. Fa l'ultimo tiro di sigaretta e la spegne nel posacenere tascabile che si porta sempre appresso.

«Ok, sono pronta». Mi sorride.
Prendo il pezzo orizzontale da inserire nei due buchi del chiusino e lo sistemo. Nell'anello superiore infilo il gancio per fare leva e provo a tirare. La copertura in ghisa si solleva, ma non abbastanza per riuscire a spostarlo lateralmente: è più spesso di quanto pensassi e non me l'aspettavo così pesante!
Sono già sudata. Riabbasso il gancio e mi guardo intorno. Nessuno sembra badare a ciò che facciamo.
«Provo io?» si propone.
«No, ora che so quanto pesa vado più sicura».
Riesco a scoperchiare il pozzetto al terzo tentativo.
L'ormai scarsa luce della sera non mi consente di vedere quanto profondo. Se siamo stati bravi col videogioco dovrebbe essere di circa due metri e mezzo.
Non ho pensato a portare una scala e ciò complica le cose.

Il cancello che chiude uno degli ingressi della farmacia proprio qui accanto fa al caso mio. Vado ad assicurare la corda e me la lego in vita per scendere.
«Vuoi una mano?» Serena ha un tono apprensivo.
«Per ora no, di sicuro quando risalirò».
Tendo la corda e metto il piede nel vuoto. Per fortuna il pozzetto è stretto, faccio quasi fatica a entrarci. Con la suola mi appoggio alle pareti che proseguono in verticale anche sotto terra e mi calo lentamente.
La caviglia mi fa sapere che non gradisce con delle scosse, nonostante gli scarponcini alti.
Stacco quella gamba e a tentoni cerco il suolo lasciandola andare. L'inattività fisica di queste settimane si fa sentire, ho i muscoli delle braccia che bruciano.
La punta del piede trova finalmente la superficie orizzontale e mi lascio andare.
La testa di Serena spunta dall'apertura sopra la testa e le faccio il segno dell'ok per rassicurarla.

Il rumore dell'acqua che scorre prevale sui suoni provenienti dall'esterno. Accendo la torcia e illumino un cunicolo stretto, ma alto sufficientemente per farmi avanzare senza piegarmi troppo. La pendenza è in lieve discesa. L'umidità arriva persino alle narici e devo stare attenta a non scivolare.
Per fortuna non devo fare troppa strada, dopo pochi passi eccomi al bivio a T.
Spero che il mio avversario abbia scelto la via più facile e giro a destra. 
Non devo neanche terminare due falcate che mi trovo davanti a un'apertura scavata nella roccia. Devo abbassare la testa per sporgermi da quello che è una sorta di parapetto. Punto la torcia: una specie di grotta artificiale fatta di pietra e mattoni si erge sopra la mia testa di almeno un metro e mezzo. Abbassando il getto di luce arrivo all'acqua scura, più bassa di un altro metro rispetto alla mia altezza. Mi colpisce il fatto che pur essendo ferma, non è decisamente stagnante.

Per un attimo mi manca il fiato.
Questa stanza di raccolta dell'acqua è stata costruita centinaia di anni fa ed è intatta. Chissà quante volte i nostri antenati se ne sono serviti, probabilmente hanno sfruttato i tantissimi rivi che scorrono sotto la città. Rivi spesso senza nome, coperti nel corso dei secoli, che tornano alla ribalta quando piove troppo ed esondano facendo danni ed evidenziando la nostra ignoranza.
Eppure in piazza Fontane Marose non si sono mai verificati allagamenti collegati a questa enorme vasca, chissà come mai? È come se il livello dell'acqua sia destinato a restare immutato nel tempo. Sul muro non vedo segni che mi indichino il contrario.

E poi lo vedo.
Il fiato stavolta lo perdo per diversi secondi.
Un piccolo gommone scuro galleggia sul pelo dell'acqua, è lontano e non si può raggiungere se non tuffandosi.
Non mi serve.
 La luce artificiale fa brillare il metallo di quella che ha tutto l'aspetto di una brugola.

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Le foto sono state scattate dalla sottoscritta durante il sopralluogo








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