22. Nella cittadella
Lunedì 17 giugno 2019
La prima seduta di fisioterapia trascorre come se fossi in uno stato di trance.
Quel povero ragazzo magrolino e riccioluto che mi è capitato avrà pensato a una sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente.
All'ennesima volta in cui gli chiedo di ripetere ciò che mi ha appena detto o non rispondo agli ordini impartiti, domanda: «Chiedo scusa se sono inopportuno. Ha qualche problema di udito?»
Non voglio mentirgli e, a costo di sembrare stupida, nego.
«No, sono io a dover chiedere scusa. Ho la testa altrove per un problema personale».
«Meglio così» sorride.
Sapesse cosa mi passa per la testa forse non direbbe la stessa frase.
Stasera entrerò nel rifugio antiaereo se almeno una di quelle chiavi 3D è stata fatta a regola d'arte. Non posso pensare ad altro che a quello, al percorso fatto nel videogioco da memorizzare per non andare in una delle zone a rischio crollo all'interno della cittadella.
Tunnel, bivio a sinistra, avanti e poi ancora a sinistra passando alcuni slarghi fino al tornello e alla scala glassata dal calcare. La mia testa è impegnata in questo esercizio, ripetuto decine di volte.
«Ahi». Una manovra che fa ruotare la caviglia mi fa tornare su quel lettino.
«Abbiamo finito, per oggi». Si alza e mi fa rivestire, mentre scrive qualcosa al computer. Dà l'ordine di stampa e la Epson sputa un A4.
«Ci vediamo tra quattro giorni, stessa ora». Mi porge un foglio con una tabella di esercizi da ripetere a casa tutti i giorni, da quanto leggo.
Tra quattro giorni potrei anche essere morta.
Il pensiero mi sfiora solo per un secondo, ma quanto basta per farmi cadere il foglio dalle mani.
Mi chino per raccoglierlo e cerco di riavviarmi senza premere ctrl+alt+canc.
La memoria della paura è rimasta, anche se ora non mi fa tremare. Probabilmente a Pastorino non era passata neanche per l'anticamera del cervello l'ipotesi di lasciarci la pelle là sotto. In tutta onestà non credo che potrei trovare qualcuno dentro la cittadella stasera, è più plausibile che possa restare ferita dalla caduta di un pezzo di tubo di aerazione. Quella possibilità, non nulla, zavorra tutta la mia eccitazione da detective in erba.
In ufficio la situazione non migliora. La mia produttività ne risente e la riunione per l'evoluzione del progetto Underground non ci voleva proprio. Non sono direttamente coinvolta, in quanto non sono una sviluppatrice specializzata in realtà virtuale, ma avendo programmato il videogioco classico posso essere utile ai colleghi.
In sala riunioni Riccardo ci illustra i progressi e si focalizza su alcuni punti chiave che non riguardano noi programmatori: «Il Comune ci ha comunicato la possibilità di poter prenotare l'esperienza attraverso tour operator internazionali. Su questo gioco che consente di fare i turisti della Genova sotterranea puntano davvero moltissimo. Un gruppo di guide sarà istruito per poter accompagnare i giocatori nell'avventura che inevitabilmente subirà delle modifiche. Avremo quindi anche l'opzione realtà aumentata oltre che nel metaverso per consentire di visitare le location anche da casa».
Il nostro coordinatore Federico si frega le mani: «Se riusciamo a salire su questo treno la nostra produzione potrebbe ampliarsi non fermandosi solo ai videogiochi». Il calendario delle scadenze viene aggiornato e dopo aver chiacchierato con i miei omologhi faccio tappa alle macchinette del caffè. Pensavo di affogare nella preoccupazione, invece avere la fonte dei miei pensieri davanti agli occhi per un'ora ha creato una sorta di cura Ludovico che ha annullato le mie paure, annacquandole in scene viste e riviste.
Sorseggio un ginseng, troppo dolciastro per i miei gusti, e sono tentata di scrivere a Serena in vista di stasera. Ho il telefono in mano quando Giacomo entra nella stanza.
Il suo sorriso è una calamita e sono ben felice che sia rivolto a me con una nuova consapevolezza: l'avermi vista nuda e assaggiata con gusto.
Non mi ha scritto ieri, guadagnando altri punti.
«Com'è andata la riabilitazione?» Lo chiede con una finta innocenza che mi incendia perché penso ai sottintesi. Si è appoggiato appena alla mia schiena, sfiorandola. Un'insana pudicizia mi suggerisce di non prenderlo per un braccio e trascinarlo in bagno per mettere in pratica tutto ciò che mi passa per la testa.
«Bene, ma ci vorrà un po' prima che possa recuperare tutta la mobilità».
Pietro ci sorprende mentre ho la testa appoggiata alla sua spalla. Ci distacchiamo d'istinto.
«Fate come se non ci fossi, sarò una tomba. Ma sappiate che non suono ai matrimoni».
«Chopin, al mio funerale invece posso chiamarti?»
Lui ride e sceglie un caffè lungo.
Per fare una battuta sono tornata a pensare alla morte e non ci voleva.
Torno alla postazione e mi infilo gli auricolari per ascoltare power metal. Con la coda dell'occhio vedo Dave che ogni tanto si volta verso di me, senza però farsi avanti per chiedere.
Stefano non lo incrocio neanche per sbaglio e non vado neanche a cercarlo.
Due minuti prima delle sei spengo tutto e mi alzo.
«Deve essere andato proprio male il tuo appuntamento...». Il commento di Dave sul mio comportamento anomalo mi fa scoppiare in una risata liberatoria.
Lo guardo e lui fa una faccia tra il sorpreso e il divertito.
«Se eri a caccia di gossip potevi dirlo subito. Comunque il mio cattivo umore non è colpa di Giacomo, venerdì sera è andato tutto bene anzi, molto bene».
Alza le mani e non indaga oltre. Mentre lo saluto con una pacca sulla spalla si sovrappone l'immagine di una coltellata alle spalle perché ancora una volta non gli sto dicendo tutta la verità e non se lo merita. Giuro su me stessa che se stasera dovessi trovare qualche elemento nuovo lo metterò al corrente di tutto.
Prima di andare a casa vado in un negozio di articoli da montagna nel centro storico e compro lampada frontale e caschetto.
Ho lo stomaco chiuso e la cena è l'ultimo dei miei pensieri. Non riesco neanche a stare seduta, e in un paio d'ore percorro qualche chilometro in casa. Sono i giorni più lunghi dell'anno e devo attendere le nove e un quarto prima che il sole tramonti.
Metto pantaloni da trekking marroni, una maglia a maniche lunghe e una felpa con cappuccio, in uno zainetto infilo il casco, la lampada e una limetta per le unghie. Prendo le chiavi colorate e le ficco in tasca.
Scendo in garage e tiro fuori la Ninja. Prima di mettere in moto mando un messaggio a Serena.
"Sto andando al rifugio di Campi, ti scrivo quando esco".
Non voglio esagerare nel coinvolgerla e soprattutto, se qualcuno dovesse accorgersi della mia visita fuori orario sarei io sola a prendermi tutta la colpa.
Parcheggio in corso Perrone tra due mezzi pesanti quando ormai è notte. La strada è poco frequentata, non è più la via delle prostitute da un pezzo. Dopo il crollo del ponte Morandi è stato aperto a singhiozzo e in questi giorni è prevista una nuova chiusura in vista della demolizione dei due monconi rimasti, ma l'interruzione è poco più avanti.
Nessuna abitazione, qui. Solo strutture per l'industria e la logistica. Tiro il cappuccio sulla testa e avanzo.
Facendo attenzione a non affaticare la gamba guarita, percorro a larghe falcate la breve salita per arrivare sul piazzale dove sorge una splendida villa antica che sembra stata costruita dagli alieni, vista la desolazione che la circonda. Non mi sono informata sulla sua storia e non riesco a immaginare come poteva essere questa parte di Genova prima dell'esplosione urbanistica che, alla ricerca di spazi per la produzione industriale, ha trasformato completamente la bassa val Polcevera.
Non è un caso che qui sia sorto il più grande rifugio antiaereo privato del Nord Italia: la Siac, Società Italiana Acciaierie Cornigliano, costruì un chilometro e mezzo di gallerie a protezione degli oltre quattromila operai e dei macchinari industriali che durante la guerra erano stati riconvertiti per la produzione bellica. Un obiettivo sensibile per i bombardamenti che flagellarono Genova.
Non c'è un'anima, per fortuna. Attraverso il piazzale costeggiando uno spelacchiato campetto da calcio in erba sintetica. I finestroni della villa, completamente bui, osservano impassibili quella strana evoluzione del concetto di giardino.
Il silenzio ora è quasi totale: tra l'autostrada interrotta e questa sorta di piano rialzato che mi ha allontanata dalla strada, mi fa compagnia solo il rumore dei miei passi.
Svolto a destra ad angolo retto superata la facciata principale della villa ed ecco il cancello grigio che ho visto nelle foto del Game design document.
Prendo un grande respiro ed estraggo le chiavi dalla tasca. Do un'occhiata in giro, ma non vedo traccia di telecamere di sorveglianza.
Mi tremano le mani mentre provo la prima. Entra, ma non sino in fondo.
Il tempismo di una notifica di WhatsApp mi fa imprecare.
Guardo chi è.
Serena.
"Perché non mi hai detto nulla? Vengo lì".
"Sono dal cancello, stai tranquilla e guai a te se ti presenti da queste parti. Ci sentiamo tra poco".
Passo in modalità silenziosa e torno alla mia principale preoccupazione.
Per fortuna ho portato la limetta.
Con la torcia del telefono illumino la serratura e la chiave ancora infilata per tre quarti. Probabilmente l'ultimo dentino è troppo alto.
Piano piano la estraggo e provo a lavorare con cura, limando la sommità di ciò che è rimasto fuori.
Inizio a sudare, ma non voglio togliermi felpa e cappuccio. Inserisco nuovamente la chiave e stavolta entra tutta.
Ruoto la mano.
Non gira.
«Vuoi farmi proprio bestemmiare, lo so» mormoro, «ma non ti darò questa soddisfazione».
Non so neanche io se mi rivolgo alla serratura o al Signore.
Confronto la chiave modificata con quelle "originali": ho limato troppo, arrotondando ciò che invece deve rimanere a punta.
Faccio un secondo tentativo ripartendo daccapo. Devo infilarla due volte e limare ancora prima che si inserisca completamente.
Quando giro, la chiave segue il movimento e il clic della serratura diventa il suono più bello mai sentito nella mia vita.
Il cancello si muove con un fragore che nell'assenza di rumore sembra una bomba. Mi guardo alle spalle, ma credo che il primo essere umano possa essere ad almeno un chilometro di distanza. Faccio un passo avanti per prudenza e tolgo il cappuccio quando sono già dentro al tunnel. Casco in testa e frontale accesa, entro nella cittadella.
L'odore di chiuso non aiuta a placare l'ansia: ho l'affanno.
La galleria è lunga e buia, più di quanto immaginassi. Solo adesso mi rendo conto che l'abbiamo riprodotta troppo corta. Procedo con il braccio teso, la mano destra sfiora la parete ruvida del muro di mattoni rimasto intatto negli anni. Ho il terrore che la luce frontale sul caschetto si spenga da un momento all'altro lasciandomi nella totale oscurità. Con la sinistra tocco di riflesso il telefono in tasca per rassicurarmi di avere, nel caso, un'illuminazione di riserva.
Chino la testa per indirizzare i led un metro avanti a me. Sul pavimento nessun ostacolo, per ora. Polvere e terra attutiscono il rumore dei miei passi.
Mi sembra di essere dentro Cold fear per il senso di inquietudine dell'esplorazione di un luogo buio solo con l'aiuto di una torcia, ma qui non siamo dentro a una baleniera russa. Tuttavia si fa strada il sospetto che gli uomini impazziti di quel videogioco siano in realtà nascosti da qualche parte, pronti ad aggredirmi al momento giusto. A differenza di Tom Hansen non sono un ex soldato e soprattutto non ho una pistola per difendermi.
Vorrei correre per arrivare in quel punto esatto, ma non posso. Non ci riuscirei. La mente fa brutti scherzi e immagino qualche oggetto inatteso a terra pronto a farmi inciampare. La falcata si fa più corta e meno sicura rispetto a quando sono entrata.
Il muro compie una curva, prima a sinistra e poi a destra, e finalmente arrivo in un tunnel più ampio. Niente più mattoni alle pareti, ma un'arcata grigia da cui scendono piccole stalattiti. Il tubo di areazione che era appeso sulla volta adesso è crollato a terra, i sostegni sono stati divorati dalla ruggine. Dovrò stare più attenta da qui in poi. Chiudo gli occhi e visualizzo il percorso che mi resta da coprire per arrivare alla meta. Spero almeno di non perdermi, la possibilità è non nulla, anche se la mia memoria non mi ha mai tradita in trent'anni.
Più avanzo e più sono divisa tra il timore di trovare ciò che penso o di non scovare niente. Entrambe le opzioni sarebbero una sconfitta, ma è l'unico modo per capire se io ci abbia visto giusto o meno. Se avrò ragione, la questione riguarderà tutti noi molto da vicino e le implicazioni sarebbero enormi.
Aver deciso di venire da sola non è stata una grande idea, ma so che se l'avessi detto a Dave si sarebbe opposto, dandomi della pazza. Devo portargli le prove che confermano la mia teoria: che un assassino ha preso il nostro gioco come ispirazione.
Il ciac-ciac mi sorprende. Ho i piedi in una pozzanghera e non me ne sono neanche accorta. Devo concentrarmi di più. Una scritta alla parete mi riporta indietro di un'ottantina d'anni: Avanzate rapidamente, non pensate solo a voi stessi. Non oso pensare allo stato d'animo di chi entrava qui dentro non sapendo quando avrebbe potuto tornare all'aria aperta.
«Coraggio» sussurro e mi sembra già un volume troppo alto.
La galleria prosegue dritta fino a un enorme portone di ferro arrugginito che è bloccato nella fase di apertura. Osservo il meccanismo: una grande ruota ormai in disuso, azionata da una manovella, consentiva di far scorrere la paratia in orizzontale per chiudersi dentro.
Non ho tempo per le riflessioni storiche ed emotive, ma sorrido a quel Gesù mio misericordia scritto sulla parete e visto appena sono entrata nel nuovo ambiente. Avrei bisogno anche io di un supporto dall'alto.
Ci sono quasi.
Gli occhi ormai si sono abituati all'oscurità e riesco persino a intravedere, in fondo al nuovo tunnel che ho appena imboccato, la sagoma di quella specie di tornello metallico ante-litteram che compare anche nel nostro videogame.
Una goccia mi cade sul casco, facendo più rumore di un chicco di grandine all'aperto. Illumino il soffitto e scopro formazioni calcaree simili a sottili capelli biondi che scendono dall'intera volta. Non è una sorpresa, anche questi sono stati riprodotti in Underground.
Una cinquantina di metri e saprò se potrò dare una mano a scovare il responsabile di ciò che è stato fatto a quel povero ragazzo.
Un cigolio lontano rompe l'atmosfera ovattata ghiacciandomi all'istante. Un formicolio sale da mani e piedi e mi prende sino alla nuca. Non riesco a capire da dove arrivi perché il suono sembra amplificato, all'interno del rifugio.
Avanzare o ritirarmi? L'unica via di uscita è alle mie spalle e impiegherei almeno qualche minuto per tornare indietro, magari scontrandomi con uno zombie posseduto dalle exocelle. Devo scordarmi Cold Fear e tutti i survivor horror per non perdere sanità mentale.
E se quel rumore fosse la prova che cercavo?
Un tonfo, come se qualcosa fosse caduto sulla pavimentazione, mi fa fare un salto all'indietro. Il suono, stavolta ne sono sicura, arriva dalla parte di galleria ancora inesplorata.
Ho freddo, anche se la temperatura è simile a quella esterna.
Forse ho davvero avuto l'intuizione giusta.
Non sarebbe un gran trionfo, anzi, ma mi accorgo di aver fatto due passi avanti pensando alla faccia stupita di Dave davanti al mio racconto.
Stringo i pugni e alzo la guardia. Non posso fare altro che raggiungere quella grata rotante per avere la risposta.
Avanzo ormai veloce ed eccola la scala che sembra arrivare direttamente da Frozen, a sinistra del tornello. Con l'illuminazione della lampada il bianco del calcare è abbagliante. Sembra ghiaccio e ha ricoperto tutti i gradini.
Il cigolio ora è vicino e provo a concentrarmi per capire da dove arrivi. È sopra di me: un pezzo di ferro che probabilmente ospitava una lampada si muove leggermente. Alzo il braccio. C'è un filo d'aria. Arriva di sicuro dalla grata sopra le scale.
Memore del problema di stabilità del personaggio di Dave, mi appoggio al muro e inizio a salire senza strafare. La parete è umida al tocco. La superficie sotto la suola degli scarponcini è dura, ma non mi sento sicura.
La scalinata compie una curva che mi impedisce di vedere la parte finale. Inoltre devo preoccuparmi di illuminare ciò che è davanti ai miei piedi per evitare di cadere, per cui solo quando sono arrivata in cima posso orientare la luce nel posto dove mi aspetto di trovare o non trovare qualcosa.
Alzo la testa e il cono della frontale si imbatte in un parallelepipedo nero e io nello stesso istante vorrei scappare via di corsa perché avevo ragione e ora sono nei guai, guai veri. Invece mi avvicino e prendo in mano quel registratore anni Ottanta e premo play, come se fossi io il personaggio di Underground.
«Ho scoperto un passaggio per arrivare dentro una banca e non ci crederai. Ci si arriva da sottoterra. Questa è la chiave: Nell'anno della Natività del Signore 1427 Leonardo dei Campioni, Aragone Giustiniano, Giovanni de Marini e Giovanni Scaglia, venerandi padri del comune e conservatori del porto e del molo, un tempo, piena dal mese di dicembre, fecero evacuare e pulire dalla melma questa presente fonte marosa di cui la profondità è di 652 palmi genovesi».
Una voce metallica, robotica, diversa da quella del gioco.
Mi sento male.
Non respiro, anche se sopra di me c'è la grata che lascia intravedere rami di alberi e cielo stellato.
Devo uscire di qui.
La mente si annebbia e se per arrivare a destinazione non ho fatto fatica, tornare sui miei passi non è così semplice.
Lo stomaco si rivolta, ma l'assenza di cibo mi salva dal vomitare.
Devo fermarmi per riflettere.
Sono in un'area della cittadella a me ignota. Ripercorro il tunnel alla rovescia e mi ritrovo dal tornello. Stavolta uso il cervello e riprendo la via giusta.
Non so quanto tempo sia passato, ma quando mi ritrovo dal portellone di ferro capisco ormai di essere vicina all'uscita.
La vista perde colpi, mi strofino gli occhi e le dita si bagnano. Sto piangendo? Non me ne sono neanche accorta.
Gli ultimi metri prima di uscire all'aria aperta li percorro boccheggiando.
Varco il cancello e mi piego in avanti appoggiando le mani sulle ginocchia. Quando mi rialzo una figura umana a pochi metri da me mi ghiaccia sul posto.
È Serena. Il suo sorriso colpevole si spegne dopo avermi guardata in faccia.
Non sono mai stata così felice che disobbedisse a un mio ordine.
Dopo sette settimane torno a correre.
Per aggrapparmi a lei.
Nella foto di apertura la famosa scalinata glassata (foto mia)
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top