«Peccato, stavi andando bene. Non avrei mai avuto la fantasia di usare il camion come copertura per rallentare». Dave non si è fatto scrupoli a entrare nel bagno delle donne per vedere come stessi.
Si è appoggiato alla parete di fianco al lavabo e non ha perso il sorrisetto che vorrei cancellargli dalla faccia con lo sfumino di Photoshop, da quanto sono arrabbiata.
Ho finito di passare il mocio che ho trovato nel ripostiglio sul disastro appena combinato e mi avvicino dov'è sistemato senza scompormi troppo, pur avendo un topo morto in bocca.
Mi sciacquo un paio di volte prima di voltarmi verso di lui con sguardo assassino. Devo ancora abituarmi al fatto che sia tornato al suo castano naturale senza quel vezzo delle punte bionde che ha mantenuto da quando ci siamo conosciuti sino a qualche mese fa.
Lo sa: sono nervosa e fa di tutto per stuzzicarmi. Decido di sorprenderlo ignorando la sua sfida.
«Chi è stato a ideare il finto poliziotto? Ci sono cascata».
«Giacomo, lui è un genietto nel creare nemici particolarmente stronzi».
Mi asciugo con due fogli di carta in più del solito e non impiego troppa ram a figurarmi il nuovo collega incaricato di elaborare la struttura narrativa dei videogiochi che produce la Gold Games. L'azienda dove lavoriamo ha assunto altre dieci persone nell'ultimo anno per lo sviluppo di titoli in realtà virtuale o nel metaverso e lui è uno di questi: un game designer coi fiocchi, oltre che un bel moro dalla barba curata a cui ho dedicato più di una fantasia negli ultimi mesi.
«Avete fatto un ottimo lavoro con Stefano, comunque. La fluidità è impressionante» gli riconosco, mentre apro la porta e torno in corridoio.
«Pensavo durassi di meno, in effetti» evidenzia senza ritegno la mia risaputa difficoltà quando indosso gli oculus.
«Con la Kawasaki, nel mondo reale, non avrei avuto tutti quei problemi di stabilità» sbuffo, un po' frustrata.
Il mio ex compagno di letto capisce che è il momento di finirla perché mi cinge le spalle col braccio. «Lo sappiamo che sulla tua moto sei imbattibile». Strizza l'occhio e i ricordi delle mie disavventure di sette mesi prima, quando ho rischiato la vita per aiutare uno sconosciuto di cui mi ero infatuata, tornano a popolare la mente. Seminare due criminali che stavano per rapire Alberto, così si chiamava, per le vie di Sampierdarena, resterà il mio punto d'orgoglio. Quando ho raccontato i dettagli a Dave, una volta risolto il problema, mi sono beccata l'ennesima ramanzina di quelle giornate assurde in cui rischiai la vita.
Torniamo nella sala test ed è Stefano a venirmi incontro per primo. Il programmatore più bravo del nostro team mi interroga senza dire una parola, puntando i suoi fari azzurri da dietro gli occhiali con la sottile montatura dorata.
«Tutto ok. Purtroppo la realtà virtuale non fa per me, lo sapete».
Resta impalato e mi rendo conto che la sua muta domanda non è quella a cui ho risposto.
«Confermato, per stasera».
Annuisce con un ampio sorriso e si rimette le cuffie alle orecchie prima di uscire dalla stanza.
Uno dei nostri tester professionisti sta giocando al mio posto e l'attenzione di tutti è tornata sugli schermi che mostrano la sua partita: un uomo corre sui tetti di una città. Le casse in surround rendono l'atmosfera coinvolgente sotto tutti i punti di vista, con il rumore dei passi cadenzati sul cemento, le auto che strombazzano nel traffico e raffiche di mitragliatrice da evitare.
Io e Dave torniamo alle nostre scrivanie. Mi abbandono sulla sedia ergonomica Omp nera e verde, come i colori della mia moto, e mi rimetto all'opera perché oggi termino le ultime modifiche sul gioco a cui sto lavorando da mesi. Quando ho letto il progetto mi sono entusiasmata come mai è capitato da quando lavoro qui e ormai sono agli sgoccioli. Leggo l'ultima e-mail con soddisfazione da parte del nostro capo progetto:
"Ciao, Gloria.
Il beta testing è terminato. Ti ripassiamo la palla per gli ultimi ritocchi. Pensa come al solito a evitare che le case di produzione di hardware ci rompano troppo le scatole".
Sorrido tra me. Lo sa che sono abile in questo.
"Tranquillo. Scoverò gli ultimi errori. Conto che possa essere lanciato in tre settimane".
Clicco invio e mi metto all'opera.
«Quando proverai questo resterai a bocca aperta» mi sfugge. Soprassiedo sul fatto che io, quel gioco, difficilmente me lo godrò nella sua versione più immersiva.
«Lo hai detto così tante volte che ho perso il conto. Sei fortunata che ero in ferie quando lo avete fatto girare qui».
«Vuoi mettere? Genova nel metaverso è una figata che non puoi non apprezzare e se Giacomo è stato bravo con i nemici, qui sarà l'ambientazione a spaccare. La nostra città in una versione inedita, mica solo i vicoli. A livello di design, poi, abbiamo il meglio che possiamo offrire».
«La tua esaltazione rischia di essere un autogol. Le mie aspettative diventano altissime». Dave comincia a battere tasti e taglia così ogni mio tentativo di replicare.
Alle sei in punto ci alziamo e Stefano è già in piedi alle nostre spalle.
Nel corridoio, davanti al murales di uno dei nostri sparatutto di maggior successo, incrociamo proprio Giacomo. Mi paro davanti a lui, mentre i miei due compari lo sorpassano dopo un cenno di saluto, e sfoggio la mia dentatura con aria di chi la sa lunga fissandolo negli occhi.
«Ho provato The fugitive ed è una bomba! Bellissima l'idea del finto poliziotto, stavo per cascarci».
Agganciarlo con un complimento sul gioco non mi fa sembrare troppo sospetta. Non è la prima volta che parliamo di lavoro, ma l'obiettivo è farmi raccontare la sua ispirazione sotto le coperte, o anche sopra.
Lui abbozza quasi un inchino toccandosi la nuca con una mano e abbassando la testa quel tanto che basta per mostrarmi Dave che alza gli occhi al soffitto e con le dita fa il gesto dell'avanti e indietro di un amplesso.
Gonfio le guance per non scoppiare a ridere in faccia al nostro nuovo game designer mettendo la bocca a culo di gallina, chissà che penserà.
«Peccato che Gloria non ha finito il gioco perché è andata a vomitare in bagno». Stefano dice la sua e ride di gusto.
Giacomo ora mi guarda con lo stupore di chi sente per la prima volta che Babbo Natale non esiste. Del resto ha davanti una vestita di pelle nera con gli anfibi, mica una pallida mammoletta. «Oh, mi dispiace...»
Guarda altrove mentre cerco una scusa plausibile per non far precipitare sotto il 5% le possibilità di un appuntamento. «Colpa della birra ghiacciata che ho bevuto a pranzo».
Annuisce comprensivo e mi sembra alle prese con un punta e clicca in cui ha passato in rassegna tutti gli oggetti senza avere idea su come andare avanti. Lo tolgo dall'imbarazzo: «Tutto passato. Ci vediamo domani». Gli batto la mano sulla spalla e raggiungo la coppia che fa di tutto per mettermi alla berlina ogni volta che provo un approccio con qualche conoscenza comune. Anche loro sono rimasti scottati dal casino in cui mi sono trovata tempo fa e non è un mistero che temono possa mettermi di nuovo nei guai per le mie sbandate sentimentali, solo che lo esprimono in modo diverso.
«Non dovevo dirlo, vero?» Sette mesi fa Stefano non mi avrebbe fatto questa domanda. Di solito lui parla poco e a sproposito, ma dopo "l'avventura di Alberto", così ormai la chiamiamo tra noi, il nostro rapporto si è fatto più stretto e sta facendo progressi anche nel modo in cui ci relazioniamo. Non faccio più caso alle sue uscite anzi, ormai ci rido sopra: ha acquisito un credito infinito nell'incasinato videogame che è la mia vita.
«Già, ma almeno non mi sono persa in chiacchiere inutili».
Andiamo a recuperare i nostri mezzi: Stefano va in scooter con Dave e io sulla Kawasaki. Per comodità, il giovedì, giorno fisso dei nostri incontri da ormai tre mesi, uso la mia Ninja anche per andare al lavoro e raggiungere più rapidamente la nostra meta una volta usciti.
Sgaso in modo rumoroso facendo voltare gran parte dei turisti che popolano il Porto Antico e li sorpasso appena partono. Ormai la strada potrei percorrerla a occhi chiusi. Per fortuna ora il traffico è meno caotico rispetto ai primi tempi in cui il ponte è crollato.
Arrivo in via Fillak e parcheggio in una strada laterale incastrandomi tra un'auto e il bidone della spazzatura. La circolazione è quasi normale, anche se il moncone del Morandi passa ancora sopra la strada. Evito di guardarlo, mentre aspetto che Dave e Stefano mi raggiungano.
Per fortuna non devo attenderli troppo. Stefano ha già le chiavi di casa in mano e quando ci troviamo davanti al portone cerco di specchiarmi nel riflesso per vedere se almeno i capelli sono a posto per evitare il solito invito della madre del mio collega a utilizzare il bagno per darmi una sistemata.
«Eccovi, ragazzi» La signora è sempre inquietante nella sua perfezione. Ci attende vestita come se dovesse uscire e le ballerine ai piedi. La piega è fresca di parrucchiere. Ormai siamo abituati al vassoio d'argento e ai bicchieri di cristallo che sistema sul tavolo del soggiorno nel caso avessimo sete.
«Ciao, mamma». Il suo metro e novanta sembra farsi più piccolo, quando è in casa. Stefano si toglie le scarpe non appena chiude la porta alle nostre spalle e anche noi ormai abbiamo introiettato quell'automatismo.
«Vi ho preparato un po' di merenda, nel caso abbiate fame, la trovate al solito posto».
Dave ringrazia e si inchina in continuazione neanche fosse un giapponese e lentamente arretriamo verso la camera di Stefano, che ci ha anticipato.
La madre pensa che ogni settimana ci presentiamo a casa sua perché suo figlio si è fatto finalmente degli amici con cui giocare ai videogiochi, in realtà siamo qui per tutt'altro.
La prima volta che sono entrata nella stanza dalle pareti blu notte ero disperata e rischiavo la pelle per essermi immischiata in un ricatto basato sulla violazione dei dati personali. La cyber security per me era una parola a cui non dare troppa importanza, eco lontana legata a un esame da superare per arrivare alla laurea. Oggi io e Dave abbiamo fatto passi da gigante grazie a Stefano, che ha accettato di condividere con noi un pezzo della sua genialità informatica.
«Oggi attaccate voi». L'ampio sorriso e la scintilla che gli appare negli occhi quando ci fa entrare nel suo mondo è un dono che fa a pochissime persone. Accende il computer e la luce gli illumina il volto affilato come un riflettore. Si inginocchia sulla sedia ergonomica che la madre gli ha comprato "per evitare che diventi gobbo" e fa scrocchiare le mani prima di sistemarsi gli occhiali sul naso con la punta dell'indice.
Dave tira fuori il laptop con un sospiro. Sappiamo di non avere alcuna speranza contro di lui, ma giocare sempre contro il boss finale ci fortifica nei confronti di quelli meno quotati.
«Quanto tempo ci dai?» chiedo, pur sapendo che saremo beccati prima, come al solito.
«Mhh...» prende il telefono e scorre col dito un paio di volte, annuendo quando trova quello che cerca. «Fino a quando finisce questa canzone che stiamo per ascoltare. La conoscete Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd?»
«Ste, il tempo di una canzone? Sei fuori! Non riusciremo mai-» Dave non fa in tempo a protestare perché Stefano lo ignora e fa partire la musica, per una volta non nelle sue immancabili cuffie.
«Ventisei minuti. Da adesso».
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