17. Nella tana del lupo?
Giovedì 13 giugno 2019
Il giorno dopo faccio partire la chiamata per il Centro Studi Sotterranei mentre sto aspettando di entrare in ufficio. Sono le nove meno qualche minuto e ho giusto il tempo di tentare di agganciarli. Ho bisogno di loro per andare a curiosare nei luoghi del gioco oltre che capire se tra loro potrebbe nascondersi l'assassino.
«Pronto?» mi accoglie, si fa per dire, una voce femminile piuttosto scocciata.
«Mi scusi, è il Centro Studi Sotterranei?»
«Sì, ma non ha letto il volantino? Il numero sarebbe attivo dalle nove e trenta per le prenotazioni».
Ignoro a quale volantino si riferisca, ma provo a cambiare argomento.
«Cerco il presidente, è lei? Non avevo altro numero che questo».
«No, io mi occupo dell'elenco dei partecipanti alle uscite. Chi lo vuole?» è sospettosa.
Gironzolo attorno all'ingresso al piano terra, salutando con un cenno qualche collega.
«Sono della Gold Games, la casa di produzione del videogioco a cui avete collaborato. Dovrei parlare col presidente proprio per questo motivo».
«Ah, sì. Ma non avete già il suo numero? Lo avete tormentato tante volte in questi mesi...»
Tormentato? Ha davvero usato questa parola? Stacco per un momento il telefono dall'orecchio e mi trovo davanti il trio delle meraviglie Giacomo, Pietro e Riccardo.
Roteo la mano col dito indice teso orizzontalmente per dir loro che ci vediamo dopo e faccio un passo per allontanarmi.
«Sì, ma il collega che ha avuto a che fare con lui non c'è in questo momento, è in Giappone in vacanza e non me la sento di rovinargli il viaggio di nozze...» la menzogna mi è venuta in mente nello stesso istante in cui la mia bocca ha pronunciato la frase.
«Eh, sì. Il viaggio di nozze è l'unico momento in cui non si vuole essere disturbati, poi ben vengano gli impegni!» La signora ride da sola.
«Allora, può aiutarmi?» Comincio a spazientirmi e mi morsico la lingua per non essere troppo brusca.
«Sì. Le mando un messaggio a questo numero? Però pensavo che ormai fosse un capitolo chiuso».
«Anche io in effetti, ma sa, finché non escono tutti gli aggiornamenti c'è sempre qualcosa da rivedere».
Chiudo la comunicazione e dopo qualche secondo mi arriva un sms con il nome e il numero del presidente, che si chiama Dario Battaglia. Salvo il numero e provo subito a chiamare, ma squilla a vuoto.
Sbuffo e salgo in ufficio.
Battaglia mi richiama un paio d'ore dopo, mentre sono attorno a un tavolo con il team al lavoro su quello che dal titolo provvisorio di Vegia Zena si è trasformato nel Tesoro della Superba. Non è il definitivo, ma il sindaco ha insistito sul citare il soprannome che Petrarca diede alla città.
Il nome del presidente del Centro Studi Sotterranei brilla come un faro nella notte sul ripiano. La vibrazione non è troppo discreta e diversi occhi si lasciano distrarre.
«Scusate». Afferro il telefono e lascio partire il messaggio automatico: sono impegnata e richiamerò più tardi. Avrei voluto avere il tasto pausa per freezare la riunione e poter rispondere subito.
«Lo storyboard è completo, ora» dice Riccardo a petto in fuori. «Non avete idea di quanti libri abbia letto, quanti professori di storia disturbato, oltre che guide turistiche. Alla fine non si poteva rendere troppo umoristica la storia di Genova come voleva il nostro Federico, inizialmente. Qui tra congiure e storie di colonne infami non c'è molto di divertente».
Il producer, chiamato in causa, annuisce e sorride sornione.
«Allora mi sono concentrato su una cosa che tra il Cinquecento e il Seicento rese famosa Genova: i soldi che finanziarono la Spagna e che attirarono anche vari saccheggiatori tra cui il pirata Barbarossa e Dragut. Il protagonista sarà proprio un membro dell'equipaggio dei corsari che dovrà arrivare al famoso tesoro genovese, un malloppo custodito nella sede dello storico Banco di San Giorgio».
Mi sembra una scemata, ma sto zitta. Non spetta a me dirlo.
«Quindi posso scatenarmi con musiche alla Pirati dei Caraibi?» chiede Pietro, alzando la mano.
«Ti vedremo come Hans Zimmer agli Oscar, Chopin?» intervengo suscitando qualche risata. «Quella roba è più da action game, questo è pur sempre un punta e clicca».
Il nostro sound designer si sistema i lunghi capelli neri rifacendo la coda.
«In ogni caso qualche passaggio umoristico ci sarà» riprende Riccardo, come se niente fosse. «Trovate tutto aggiornato nel documento del gioco».
«Da oggi» interviene Federico «iniziamo a lavorarci sul serio».
La riunione termina dopo le istruzioni date a ogni gruppo di lavoro e soprattutto con le scadenze.
Sgattaiolo in sala caffè con la velocità che mi consente la mia gamba ancora non al cento per cento.
Faccio partire subito la chiamata per Dario Battaglia.
Risponde dopo sette squilli. In sottofondo sento qualche voce e un rumore metallico indefinito.
«Buongiorno, chiedo scusa, sono Gloria Ferrari della Gold Games. La contatto perché avrei bisogno di parlarle in merito ai luoghi di Underground, il gioco a cui avete collaborato».
«Ancora?»
Sono tutti molto cordiali...
«In verità il gioco c'entra e non c'entra. Si mescola a un interesse per un luogo in particolare, ma se possibile le chiederei di parlarne a voce. Posso raggiungerla dopo il lavoro anche oggi, se è disponibile».
Pausa di qualche secondo che mi sembra eterna.
«Oggi pomeriggio dovrei rientrare in sede, ora siamo a fare un sopralluogo sotto il parco dell'Acquasola. Dopo le cinque mi trova in corso Magenta, lo studio è vicino al tunnel dell'ascensore. Vedrà un cancelletto alle sue spalle, appena entra. Se arriva dal centro le conviene prendere la funicolare Sant'Anna. Basta attraversare la strada una volta scesa».
«Grazie! Grazie mille del suo tempo». Sono talmente stupita e contenta da risultare sin troppo educata.
Il countdown nella mia testa scandisce il resto della giornata. Non vado a disturbare Stefano, che intanto sa come contattarmi in caso di novità sul suo fronte di indagine, né do troppo spago a Dave con la scusa dell'accelerazione delle operazioni sul gioco.
Alle cinque e mezza schizzo via con la scusa della fisioterapia, che sto già procrastinando.
Mi imbatto in Giacomo, appena uscito dal bagno. I consigli di Serena vengono ripescati immediatamente dal cestino. Il ripristino mi mostra le immagini di lui che si sincera dello stato della mia gamba con la serietà di un dottore, per poi dedicarsi ad altre parti del mio corpo molto più bisognose di attenzione.
«Domani sera. A casa mia. Recuperiamo l'aperitivo». È più un'affermazione che una domanda.
Lui fa un piccolo scatto all'indietro per poi rilassarsi e mostrare quel sorriso che mi ha convinta dal primo istante in cui ha messo piede alla Gold Games.
«Va bene, porto io però l'occorrente».
Sto per dirgli che sono rifornita di preservativi, ma lui aggiunge: «Ti vorrei proporre un gin tonic. Sono bravo a prepararne di speciali».
«Perfetto». Vorrei dirgli che nella classifica degli alcolici il gin tonic è in zona retrocessione, ma non è quello lo scopo del nostro incontro. Almeno per me.
Lo liquido rapidamente e stavolta esco per davvero.
Dal Porto Antico a corso Magenta impiego circa venti minuti, compresi i due con cui il vagone rosso copre il dislivello di una cinquantina di metri. Nel frattempo aggiorno Serena anche per sicurezza. Se il presidente del Centro fosse l'assassino e mi facesse sparire, almeno qualcuno sa dove sono andata.
La galleria che porta all'ascensore pubblico è proprio di fronte alla stazione della funicolare. Appena entrata mi volto e trovo subito il cancelletto come da istruzioni.
Suono il campanello e attendo.
Il clic dell'apertura, dopo svariati secondi, mi provoca una scossa a braccia e gambe.
Proseguo su una scaletta che costeggia un muro umido, sono ancora all'esterno. La rampa svolta ad angolo retto a destra. In cima alle scale una porta in legno verde, socchiusa.
Spingo il battente, che cigola come nei migliori film horror.
Quello che trovo oltre mi fa restare a bocca aperta.
Un vano più grande di quello che mi aspettassi nell'interno di una casa molto antica, dai pavimenti in cotto che arrivano di sicuro dal 1800 se non di più. Le piastrelle sono consumate al centro, percorse chissà da quanti passi nel corso degli anni. Le finestre sono piccole e basse rispetto a qualsiasi altra casa mai visitata e anche molto strane: in basso ci sono due componenti orizzontali nella parte mobile, invece di una. Anche l'unico stipite che mi lascia intravedere la stanza successiva non è molto alto.
«Venga pure avanti».
La voce cristallina di Dario Battaglia proviene proprio da là.
Varco la seconda soglia e mi trovo nello spazio enorme di quello che sembra il grande studio di un architetto molto disordinato: tavole e plastici sparsi qua e là su diversi banconi, cartine alle pareti. Le numerose librerie ai lati sono colme e i muri che si vedono ospitano parecchi cartoncini bristol tematici con nomi di alcuni luoghi che conosco senza avere mai visitato, corredati da diverse fotografie. Inequivocabilmente esplorazioni sotterranee. L'odore è di archivio: carta impolverata.
Sono talmente distratta dalla quantità mastodontica di spunti visivi e sensoriali che mi accorgo dell'omino che mi sta osservando a un paio di metri di distanza, solo dopo che ha parlato.
«Ah, ma non sapevo di avere a che fare con una bimba». Battaglia è più basso di me di circa dieci centimetri, ma non mostra alcuna soggezione. I capelli grigi rimasti su una testa con un'ampia stempiatura e le rughe che non spariscono quando cambia espressione mi suggeriscono che sia già avanti con gli anni. Gli occhi, scurissimi, mi scrutano con viva curiosità. Tende la mano.
«Magari» mi riprendo subito, «ho già superato i trenta, per cui posso dire di essere appena entrata nell'età della ragione». Allungo anche io la mano e la stretta è salda. Il suo palmo è caldo, ma non sudato.
«Potrei essere tuo padre». È passato al tu senza chiedere, buon segno.
«Pensavo al massimo un fratello maggiore» lo adulo, visti i miei secondi fini.
Mi invita a prendere posto in una sedia ergonomica con le ruote, oggetto che sembra stato catapultato lì dal futuro.
«Allora, dimmi. Avete bisogno ancora di consulenza? Mi pareva che Riccardo l'ultima volta mi avesse detto che era tutto a posto».
«In verità sì, ma io avrei bisogno di un favore».
Infilo le mani tra le ginocchia e le stringo, guardando in basso. Mi sto giocando tutto.
Torno a fissarlo.
«Sono la programmatrice del gioco e ho avuto un problema con uno dei luoghi che dobbiamo trasferire nella versione in realtà aumentata, il rifugio antiaereo di Campi. Avrei bisogno di andarci fisicamente perché se l'azienda scoprisse che per errore ho eliminato definitivamente il materiale che ci aveva fornito rischierei un provvedimento disciplinare».
Spero che non sia un esperto di informatica, che la scusa non sia così fumosa da insospettirlo e che non si faccia troppe domande. Mi dispiace passare da incapace, ma non mi è venuto in mente altro per convincerlo a darmi le chiavi.
Resta in silenzio, inchiodandomi con quegli occhi vivaci. Dario Battaglia potrebbe essere un assassino? Il dubbio irrompe muto nella nostra conversazione, un terzo incomodo ingombrante.
«Anche a me è capitato di combinare un pasticcio al lavoro, tanto tempo fa. Il bello è che poi non compi più lo stesso sbaglio, per la vergogna e per l'attenzione tripla che metterai su quel particolare aspetto. Vuoi un caffè?»
Si alza senza attendere risposta e mi invita a seguirlo.
Apre una porta finestra e mi ritrovo catapultata in uno dei tanti giardini nascosti nei palazzi della mia città: un'oasi con erba e due alberelli, silenziosa anche se in pieno centro, protetta com'è dalle pareti della casa sui lati.
Battaglia si infila in una cavità priva di porta dove ci sono un cucinino, un frigorifero, un lavandino in marmo grigio e un paio di pensili. Ne apre uno e prende un barattolo, le tazzine e una grande caffettiera.
«Non posso portartici in tempi brevi» mi gela, nonostante faccia caldo, «e con l'estate lì le visite sono sospese in favore di altri luoghi più adatti. Siamo impegnati in questi giorni in un lavoro importante per il Comune: stiamo facendo una ricostruzione digitale di luoghi sotterranei e approfondendo la scoperta fatta sotto il parco dell'Aquasola».
Si volta dopo aver acceso il fuoco e posato la caffettiera sul fornello. «Parliamo di due settimane di attesa, come minimo».
Mi scruta per capire se la risposta mi turba. Faccio una smorfia perché la scusa mi porrebbe in una situazione di urgenza.
«Sarebbe un problema, sì. Non può darmi le chiavi? Gliele riporterei non appena ho finito».
Scuote la testa.
«Il luogo non è sicuro». Rabbrividisco pensando alle implicazioni da libro giallo. «Il tubo di aerazione appeso al tunnel è a rischio caduta, in alcuni punti è già a terra. Il rifugio è senza luce e anche se non è un labirinto occorre fare comunque attenzione».
Battaglia affossa così le mie ambizioni da detective.
Mi guardo le punte dei piedi, incapace di ribattere qualcosa di sensato per convincerlo.
«Però posso darti tante foto e anche qualche video. Potrebbero bastarti...»
Dice la verità se il mio scopo fosse quello dichiarato. Faccio comunque buon viso a cattivo gioco.
«Sicuro».
La caffettiera inizia a gorgogliare e il presidente del Centro Studi versa il liquido fumante i due tazzine di ceramica dipinta a motivi floreali.
Mi porge una bustina di zucchero, che accetto volentieri.
Mi affaccio di nuovo sul giardino, priva di idee.
«Avete una sede molto particolare» dico, per non restare in silenzio.
«Sì, è una casa agricola del 1500 che durante la seconda guerra mondiale è stata bombardata. I detriti hanno fatto da base per la pavimentazione successiva, se noti le finestre hanno due traverse inferiori perché l'originale non si vedeva, è uscito solo quando si sono accorti che sotto al pavimento ce n'era un altro. Quello che vedi adesso».
Altro che 1800...
Rientriamo nell'enorme studio e mi avvicino a una delle pareti dove sono appese foto di esplorazioni sotterranee, alcune con lo stesso Battaglia come protagonista alle prese con un lago all'interno di quella che sembra una specie di grotta, ma artificiale a giudicare dalle pareti grigie: è seduto su una specie di gommone a un posto ed è fissato nell'atto di immergere l'unica pagaia in acqua.
«A volte dobbiamo muoverci così» lo dice con un certo orgoglio.
«Siete mai stati in pericolo? Durante le vostre esplorazioni?»
Non so perché faccio questa domanda, ma l'adrenalina mi dà un segnale inequivocabile: sto per addentrarmi in un sentiero a rischio.
«Qualche volta è successo di non riuscire a proseguire per frane o altre situazioni non troppo chiare. Siamo prudenti e sempre attenti alle misure di sicurezza, ma l'imprevisto può essere dietro l'angolo». Battaglia sembra tranquillo, la sua voce non si è alterata.
Deglutisco.
«Vi è mai capitato di trovare qualche cadavere inaspettato?»
«Intendi umano? Abbiamo trovato centinaia di teschi sotto il parco dell'Acquasola. Abbiamo scoperto che le fosse comuni per la peste del Seicento erano state scavate lì. I calcoli fatti a spanne ci dicono che ci sono circa diecimila morti sepolti là sotto».
Mi volto e mi avvicino a un mobile bianco con venticinque cassettini quadrati, calcolo rapidamente. Finisco il caffè in un ultimo sorso e l'etichetta Campi su uno dei cassetti mi fa suonare un alert nella testa.
«E dell'omicidio sotto il Diurno ti sei fatto un'idea? Sul giornale c'è scritto che quel ragazzo faceva urbex». Sono passata al tu anche io e l'azzardo arriva d'istinto. Dario Battaglia non ce lo vedo proprio nei panni dell'assassino, spero di non sbagliarmi.
Mi guarda con una strana espressione, la bocca sembra impostata su un mezzo sorriso e gli occhi neri quasi brillano. Battaglia non sbatte le palpebre e inclina la testa.
Apre bocca e la sua voce taglia l'aria come vetro.
«Persone che fanno male alla nostra attività. Mi dispiace per quel ragazzo, ma quel posto è chiuso al pubblico ed è entrato senza autorizzazione».
Aspetto qualche secondo, ma l'uomo non dice nulla di più. La prima impressione è che mi stia nascondendo comunque qualcosa.
Una suoneria classica, un driin vintage, interrompe l'atmosfera.
Battaglia mi fa un cenno di scuse e si allontana per rispondere, dandomi le spalle.
L'occasione si presenta all'improvviso e la colgo come un easter egg.
Mi avvicino alla cassettiera e apro lo scomparto che mi interessa.
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