15. E Adesso?
Mercoledì 12 giugno 2019
Chop Suey! risuona in camera. Ho già gli occhi aperti.
La foto inviata da Stefano si è autodistrutta dopo pochi secondi, ma è salvata nella mia mente in una finestra perennemente aperta.
Cerco di non pensare a quell'immagine. A quella luce sparata su un uomo morto per davvero.
Cerco di non pensare al fatto che chi lo ha ucciso ha evidentemente lasciato dei messaggi per chi conosce il gioco. Lo smalto, il registro con i nomi e la lista delle tinte sono oggetti che abbiamo sistemato noi nella barberia maschile del Diurno virtuale prendendo spunto da altre stanze.
Cerco di non pensare alle implicazioni per la Gold Games in caso qualcuno dei poliziotti scoprisse il collegamento.
Eppure, ci penso.
Non posso neanche correre in ufficio, perché la mia prima tappa è l'ambulatorio per il controllo finale e l'ok alla rimozione del tutore.
Non riesco a rallegrarmi nel giorno che ho atteso da sei settimane.
Non ho idea di come comportarmi.
Ho lo stomaco chiuso, per cui non percorro il corridoio sino in fondo e vado già a lavarmi i denti senza neanche preparare la colazione.
Resisto alla tentazione di scrivere tutto a Serena, ma prima voglio avere l'assenso di Stefano nel condividere la scoperta. Ho l'impressione, però, che questo fardello resterà comunque molto pesante anche nel caso sia diviso tra più persone.
Mi trascino in camera e indosso un paio di bermuda per agevolare il lavoro dell'ortopedico. Scelgo una maglietta che arriva direttamente dalla scuderia Ducati di mio padre e ignoro deliberatamente il letto sfatto.
Mick Jagger mi sorprende quando sto cercando di sistemare senza successo ciuffi di capelli troppo cresciuti dietro alle orecchie. Afferro le forbicine per le unghie e rimedio in modo definitivo. La suoneria personalizzata con Mother's Little Helper mi disturba sul secondo taglio.
Che cavolo vuole mia madre a quest'ora?
Sono tentata di non rispondere, ma non mi darebbe pace nel corso della mattinata.
Scorro l'icona.
«Sei già sveglia?»
«No. Sono la segretaria della signora Gloria Ferrari, dica». Mi sforzo di essere sarcastica come al solito per non insospettirla.
«Se vuoi arrivare in tempo all'ospedale ti conviene sbrigarti. Ci deve essere stato un incidente, mi ha telefonato una collega che arriva da Pegli come te ed è bloccata a Cornigliano con l'autobus. Mi sa che i ragazzi di quarta resteranno scoperti alla prima ora».
«A me non capitava mai che una prof arrivasse in ritardo, ma quindici anni fa non crollavano i ponti autostradali».
«Speriamo lo ricostruiscano in fretta come dicono» sospira.
«Parla quella che non si muove oltre le colonne d'Ercole di San Benigno, fosse per te Genova avrebbe ancora la collina e le mura di difesa dai poveracci del Ponente» la punzecchio, anche se meno attraversa la città per venirmi a trovare, meglio è.
Metto in viva voce e controllo i ritardi dei treni in tempo reale.
«Merda!» mi sfugge.
«Cosa ho sbagliato, nella vita, per avere una figlia così?» Mi mancava il suo tono melodrammatico.
«Tutto o forse niente. Comunque anche la ferrovia ha dei problemi. Dovrò volare, probabilmente. Ciao!»
«Puoi dire anche grazie ogni tanto, a tua ma-» Non le voglio lasciare l'ultima parola e taglio la comunicazione con un po' di brutalità.
In effetti dovrei dirle grazie per avermi fatto dimenticare l'affare Pastorino per qualche minuto e per far concentrare il mio cervello su come raggiungere in orario l'ospedale Villa Scassi.
Con l'autostrada fuori uso per il crollo del Morandi non ho molta scelta. Di sicuro l'ortopedico non sarà contento, ma non ho alternative.
Scendo in garage. Per fortuna la gamba offesa è quella destra, così non devo faticare nei movimenti per il cambio delle marce. Devo solo fare attenzione quando poggerò il piede a terra ai semafori. Lo ripeto come un mantra, per autoconvincermi di avere preso la decisione più giusta, anche se non saggia. Valentino Rossi è tornato in sella a venti giorni dalla frattura scomposta di tibia e perone.
Con una lentezza che non mi appartiene salgo a cavallo della Ninja. Solo ora mi rendo conto di quanto mi mancava.
Il tutore è voluminoso e fatico a tenerlo sul pedalino. La parete di fronte mi suggerisce la soluzione. All'ortopedico non glielo dirà nessuno, intanto.
Il mio zaino da montagna è appeso a un chiodo dalla scorsa estate ed è grande abbastanza per contenere il tutore. Lo infilo lì dentro e me lo metto in spalla.
Tolgo il cavalletto e cerco di restare in equilibrio facendo affidamento soprattutto sul piede sinistro. Se si sbilanciassero duecentocinquanta chili di moto sarebbe un problema. Sono già sudata senza neanche aver messo il naso al sole.
Le operazioni di chiusura dello sportello del box mi portano via quasi cinque minuti, spero di recuperarli al più presto.
La Ninja parte al primo colpo. Accarezzo il serbatoio per complimentarmi con l'efficienza dei giapponesi. Essere alta più di un metro e settanta mi consente di non dover tenere il piede sulla punta quando devo fermarmi. La gamba reagisce bene, è solo un po' indolenzita. Una volta in strada apro il gas e mi lascio dietro una scia rumorosa che fa voltare diverse persone.
Due ore dopo entro alla Gold Games libera dal tutore senza violare le direttive dei medici. Ho dovuto farmi ripetere due volte cosa devo fare per la riabilitazione. Non riuscivo a restare concentrata. Il rumore di fondo dell'omicidio Pastorino continua ancora adesso a tartassarmi come un modem 56 k che non riesce a collegarsi.
Sono solo le dieci e mezza, ma io devo parlare subito con Stefano.
Gli arrivo alle spalle senza che se ne accorga. Ha le cuffie alle orecchie. Quando afferro l'arco di plastica e lo tiro su, per poco non gli viene un colpo. Salta sulla sedia con un urlo spontaneo che non si addice al suo costante autocontrollo.
I suoi vicini sghignazzano. Pensano che abbia voluto bullizzarlo, forse.
«Ho bisogno urgente di parlarti di la-vo-ro» scandisco avvicinandomi al suo orecchio sinistro.
Scuote la testa, ma non sono disposta a cedere.
«Sì, perché altrimenti non posso andare avanti con quello che sto facendo». Il mio sorriso a denti stretti è più finto delle tette di Pamela Anderson.
Lo prendo per un braccio e lo trascino verso l'uscita dell'open space. Ora è più docile ed è lui a dirigersi verso la sala delle macchinette per i caffè, ma io ho un'altra idea.
«Non qui, potremmo trovare Dave in giro».
Lo porto nei bagni che sono sul pianerottolo esterno. Vado verso quello delle donne, ma Stefano fa di nuovo resistenza. «Io lì non entro» si impunta a testa bassa.
Alzo gli occhi al cielo e spalanco la porta della toilette maschile.
«Non possiamo aspettare la fine della giornata?» la voce ridotta a un lamento.
«No. Quello che abbiamo scoperto è troppo grosso. Un emulatore che di sicuro ha avuto tempo per giocare a Underground non appena è uscito».
Temendo di essere scoperta da qualcuno lo spingo verso la prima porta disponibile e me la chiudo alle spalle.
Lui non se lo aspettava e quasi crolla sulla tazza.
«Che cavolo facciamo adesso? Mi sembra che ora abbiamo più di una coincidenza».
«Non lo so. Non avrei mai dovuto darti retta». Alza la voce, accusandomi.
«Ma nessuno di noi alla Gold Games ha fatto il collegamento? Anche se non hanno in mano questa foto è scontato, no?». Maledico il giorno dell'infortunio che mi ha tenuta lontana dalla sede in quei giorni.
«Certo che l'hanno fatto, i nostri. Non sanno però com'era messo il cadavere là sotto. Alla fine le indagini propendono per un omicidio in ambiente urbex e a Lee andava più che bene».
Annuisce ed evita di guardarmi.
«Andare alla polizia è escluso, altrimenti potrebbero chiederci come abbiamo fatto ad avere informazioni riservate».
Giro la chiave per ulteriore sicurezza e Stefano ora è spalmato contro il muro con la cassetta del wc piantata nella schiena per evitare il contatto fisico.
«Posso parlarne con Serena?»
La sua bocca si imposta su una curva molto simile all'arco della nostra regione.
«Non ti tradirà. Te lo potrei giurare mettendoci sopra anche l'ipoteca di casa mia. Stasera ci vediamo noi due all'Onda Blu e ne parliamo, poi le riferisco qualcosa che ne dici?»
Non fa in tempo a rispondere.
Un rumore proveniente da fuori ci zittisce all'istante.
Qualcuno è entrato nel bagno accanto al nostro. Ci guardiamo a occhi spalancati, senza fiatare.
Passano pochi secondi e il rumore della pipì a contatto con l'acqua del water arriva alle nostre orecchie.
La porta del bagno si riapre e l'ignoto se ne va. Attendo qualche secondo prima di sussurrare: «Ma chi è lo sporcaccione che non ha tirato la catena e non si è neanche lavato le mani?»
Stefano scuote la testa a destra e a sinistra alzando le spalle.
Apro la porta ed esco. Lui non ha fatto neanche un passo quando mi volto a guardarlo.
«Stasera. All'Onda Blu. Alle sette». Punto il dito verso di lui.
Solo quando varco di nuovo l'ingresso della Gold Games mi rendo conto che Stefano non mi ha mai detto di sì.
«Ho fatto brutti sogni per colpa del tuo gioco» esordisce Dave quando mi siedo alla postazione.
Mi mordo la lingua per non replicare con un riferimento al vero omicidio e a ciò che ha provocato in me.
«Io invece non stavo nella pelle per la visita» tendo un sorriso poco sincero, «guarda!»
Gli mostro la gamba priva del tutore.
L'occhio gli cade sul casco e invece che congratularsi mi inchioda: «Non puoi essere così fuori di testa da essere venuta in moto, vero?»
«C'era un incidente, l'avrai ben visto anche tu dato che abitiamo a meno di un chilometro di distanza e i treni in ritardo hanno fatto il resto».
Non fa in tempo a redarguirmi perché Giacomo si è appena avvicinato, mettendosi tra noi.
«Ehi, guarita allora?» Il bianco del suo sorriso mi abbaglia. Sembra particolarmente contento ed empatico. In effetti ora non ho più l'impedimento del tutore per proseguire con il discorso che non sono quasi riuscita a iniziare.
«Sì, sono libera con un po' di attenzione almeno in queste prime settimane. Poche acrobazie e niente pugilato, ancora. Però ora posso fare molti più movimenti, finalmente». Ammicco e gli sfioro il braccio con la mano ignorando la risata soffocata di Dave.
«Che ne dici se questo aperitivo ce lo prendessimo per davvero? Però scegli tu, stavolta, dove andare». La proposta è come una I di Tetris che serve a eliminare tutte le linee: «Forse è meglio se facciamo a casa mia...»
Lui resta sorpreso, glielo leggo nel lieve movimento a stringere la mascella. Si rilassa dopo un attimo. «Ok. Aspetto l'invito ufficiale, allora».
«Non stasera, di sicuro» mi sfugge, maledetta me.
«Quando vuoi. Sono contento che sia andato tutto bene». Stavolta è lui a toccarmi il braccio prima di andarsene.
Dave torna nel mio campo visivo. «Non sa a cosa va incontro». Alza un sopracciglio con quello sguardo consapevolmente malizioso che mi aveva colpita subito, quando ci eravamo incontrati per la prima volta alla festa di carnevale in cui Lamù si era fatta conquistare con sin troppa facilità da Legolas.
«Era un calcio di rigore a porta vuota, dai. Almeno non devo neanche fare troppi sforzi. Dal soggiorno alla camera da letto ci vorranno sette passi».
«E come mai non l'hai invitato stasera? Non è da te».
La leggerezza con cui avevo affrontato gli ultimi minuti sprofonda nelle sabbie mobili della colpa e della preoccupazione.
«Stasera vado a trovare mia madre». Potrebbe abboccare, la mia faccia si fa seria come spesso succede quando parlo di lei.
«Domani piove, ho capito».
Per tutto il resto della giornata il mio umore cupo non mi fa godere della ritrovata mobilità. Scrivo a Serena che stasera vedo Stefano per l'aperitivo perché ha novità e di tenersi libera per il dopo cena.
"Ok!". Risponde subito.
Alle sei spaccate recupero la Ninja e vado dritta verso il bar di Alessandro sperando che nessuno dei colleghi ponentini abbia avuto la mia stessa idea.
Il sole è ancora alto in queste giornate attorno al solstizio d'estate e la brezza che arriva dal mare è carica di umidità. Tra i moli della Marina di Sestri non si respira granché. Qualche runner eroico non rinuncia alla routine dell'allenamento nonostante l'afa. La stagione estiva ha svuotato le banchine: gli yacht sono in giro per il Mediterraneo affittati da gente danarosa. Prendo posto sotto uno degli ombrelloni, nel posto più defilato vicino a un olivo. Non c'è ancora molta gente e Alessandro sbuca dall'ingresso.
«Vuoi da bere o aspetti qualcuno?»
Il mio migliore amico è l'unico che non mi ha chiesto come va. Non saremmo rimasti così vicini se non fossimo così simili nel carattere.
«Un tè freddo. Comunque aspetto qualcuno, sì».
Stefano arriva in anticipo. Si siede e si piega sul tavolo, appoggiando entrambi i gomiti e mettendosi le mani nei capelli.
«Se facessimo una segnalazione anonima?» propone, senza neanche salutare.
«Sei sicuro di non essere beccato? Di sicuro cercherebbero a tutti i costi di trovarci».
«Al novantanove per cento; la sicurezza completa non esiste. Mai. Di solito la gente sottovaluta quell'uno per cento».
Si rialza e dalla tasca dei pantaloni estrae un foglio piegato in quattro. Me lo porge.
Lo apro e nella sua grafia in stampatello precisa come un normografo leggo quello che sembra un dialogo.
Poliziotto: "Stiamo cercando negli ambienti dell'urbex. Pastorino era uno che andava in giro a violare proprietà abbandonate. Abbiamo il dna di un uomo trovato sulla scena, ma non risulta conosciuto ai nostri database".
Giornalista: "Ma a casa nessuna traccia? Il cellulare?"
Poliziotto: "Era uno accorto, non siamo riusciti a violare il pc. La password è molto complessa, non le solite e soprattutto aveva lasciato lo smartphone a casa, mooolto sospetto. Tra l'altro così non possiamo neanche tracciare i suoi spostamenti prima della morte. Abbiamo messo a soqquadro l'appartamento senza trovare niente che potesse indirizzarci né sulle password, né sul perché dovesse andare là sotto. Nell'armadio aveva solo qualche abito tipico da esplorazioni, ma niente di che. Abbiamo trovato delle foto in un cassetto che ci hanno indirizzato verso l'urbex. Non risultano altre proprietà o affitti a suo nome".
Giornalista: "Ok, grazie. Ci sentiamo"
«Sono le informazioni essenziali che ho estrapolato dalla chat di Thomas Corso con un poliziotto della squadra che fa parte delle indagini. Le foto te le risparmio, non aggiungono molto a quello che sappiamo» dice Stefano quando rialzo lo sguardo su di lui. «Non ho trovato altro di utile. Ogni tanto Corso scrive a questa fonte, ma a quanto pare non hanno fatto molti passi avanti».
È così sciolto quando parla di queste cose che vorrei farglielo notare, invece mi limito a restare nei binari.
«Nessuno sembra aver colto il messaggio collegato a Underground».
«Nessuno tranne noi, almeno da quello che si legge in questa chat» puntualizza.
Mi sembra incredibile, eppure il mondo dei videogame è ancora terra inesplorata per chi vive al di fuori di quella bolla. È come nei social: chi ne sta fuori non conosce nulla delle dinamiche di quel mondo. Le notizie generaliste se ne interessano spesso solo per associare i videogiochi a qualche strage negli Stati Uniti e di Underground non si è parlato se non nelle riviste specializzate.
In pochi conoscono i processi e l'enorme quantità di lavoro che c'è dietro un solo titolo. Sono passati poco più di due anni dal primo sopralluogo all'uscita della versione tradizionale e siamo ancora in piena realizzazione di quella in realtà aumentata.
Un cameriere ci interrompe per prendere l'ordinazione di Stefano e mi dà il tempo di riflettere su un altro aspetto: «Secondo te il messaggio vuole portarci al prossimo livello?»
Stefano aggrotta la fronte, non si aspettava questa mia deduzione.
«Perché un assassino avrebbe dovuto mettere in scena quello che abbiamo visto se non proseguire in questa strana comunicazione? Non sappiamo il motivo, ma non credo che sia una cosa estemporanea».
Si stringe il mento con le dita e riflette.
«In effetti è plausibile».
Il fatto che anche lui cominci a pensare che io abbia ragione mi dà la forza di fare un passo avanti, spero non più lungo della gamba.
«Allora passiamoci al prossimo livello. Non hai voglia di fare una visita al rifugio antiaereo di Campi?»
Da come indietreggia sullo schienale a occhi sbarrati temo sia un no.
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