Parte Quarta

«Quindi? Che cosa ti ha detto?» esordì Zelda con apparente interesse. Ma con la mente sembrava altrove.

Erano seduti nel tavolo all'angolo del Miller's, un piccolo e insipido locale anni ottanta, incastrato tra due fondi in disuso.
Il Miller's era sempre aperto, come annunciava la sua insegna al neon variopinta, accesa di continuo.
Al suo fianco, un locale simile a quelli che si spargevano a macchia d'olio per Parigi negli anni venti, aperto solo di pomeriggio.
Da ormai molto tempo, l'idea di far rivivere contemporaneamente la moda di diverse epoche passate aveva conquistato Detroit.

Mulder appoggiò il frappè dai toni pastello sul sotto bicchiere.

«Praticamente nulla. Frasi confuse, sai. Credo soffra di qualcosa... qui» affermò indicandosi la tempia. «L'unico indizio che potrebbe fare al caso nostro è il fatto che ci siano delle risposte nelle videoregistrazioni prima di lei. Ci lavorava qualcun altro, a quel progetto.»

«E ti sembra un dettaglio da poco?» esclamò Xavier, pentendosi subito dopo della sfacciataggine.

«Lynch, fammi finire il frappè in pace.»
Mulder osservò la bevanda, poi il menù.
«Certo che non ci assomiglia proprio per un cazzo a quello di Pulp Fiction» disse.

«Cosa ti aspetti dal Miller's? Va già bene che gli ingredienti non siano rancidi. E poi, Pulp Fiction non è nemmeno degli anni ottanta» rispose Xavier con rassegnazione.

«È del 1994» esordì prontamente Isaac.

«Grazie per la precisazione, Jensen» mormorò il detective.

«Beh, è sicuramente meglio della mia torta Twin Peaks. Le ciliegie sembrano vomitate» esclamò Zelda giocando con la forchetta.

«Quello è del 1990. Non ne azzeccano una» sogghignò Isaac.

Alma rise più del dovuto, mentre gli altri si limitavano a osservare la scena dall'alto.

Uno scroscio improvviso di applausi, Freddie Mercury che ringrazia e sale sul palco, sedendosi davanti al piano.

«Però i soldi per comprare un clone ce l'hanno» affermò distratta Zelda, mentre posava la forchetta e allontanava il piattino.

«Mh. Lo avranno affittato. Ora ci sono un sacco di negozi specializzati» rispose Jensen con disinteresse.

«In che senso? Voglio dire, come funzionano? Sembra una cosa abbastanza illegale» disse Alma. In realtà, di cloni  non gliene importava nulla. Una semplice domanda improvvisata per avere le attenzioni di Jensen.

«No, no, no, mia cara. È tutt'altro che illegale. Quei negozi vengono sponsorizzati dalla Kellerghan Corporation stessa. In pratica ogni store attivo sceglie dei cloni, acquistabili con le conformazioni desiderate ed essi diventano come degli impiegati del negozio. Tutto qui» spiegò Isaac sorridente.

«Cazzo se è inquietante» sussurrò Xavier.

«No, Lynch, non è inquietante. È il futuro. Devi vederla così, non crederai davvero che quelle cose,» indicò il clone di Mercury, « siano come me o te. Non sono umani, vedili più come degli aiuti, per gli umani. Nulla di più» Jensen sorrise, poi si sistemò appoggiando i gomiti sul tavolo. Sembrava estremamente convinto di ciò che diceva.

Xavier lo guardò per qualche attimo, sconcertato, poi osservò Zelda. Lei di rimando scosse la testa in segno di diniego, poi tornò a osservare la fetta di crostata.

«Jensen, spero non sia quello che credi veramente e che tu stia cercando solo di fare colpo su qualcuno.» Xavier guardò prima Isaac e poi Alma, che si sistemò gli occhiali imbarazzata.

Prima che Jensen potesse ribattere, si sentirono le prime note di un pianoforte.

Mercury iniziò a cantare.
My Melancholy Blues.

«Guardate chi c'è» dichiarò Mulder con un sorrisetto sghembo stampato in viso.

Al bancone, con in mano un drink, era seduto Johan Kellerghan.

«Potremmo proprio fargli alcune domandine» rispose Zelda sorridendo amara.

«Non siamo in veste ufficiale, qui» ricordò Jensen, quasi preoccupato.

Mulder agguantò il frappè, lo osservò per qualche attimo, pensieroso. Poi rivolse lo sguardo a Kellerghan.
«Fanculo» esclamò alzandosi.

Si diresse verso il bancone, affianco a Johan.

«Un Martini.»

«Ottima scelta» disse a sorpresa Kellerghan.

«È un semplice Martini» rispose secco il detective.

Il miliardario rise, poi tese la mano verso Mulder.
«Johan Kellerghan.»

«Sì, lo so chi è lei» affermò l'investigatore, senza ricambiare la stretta.

«Mi chiedo cosa ci faccia uno del suo stampo in un posto del genere» continuò.

Johan sospirò.
«Beh... a volte mi piace staccare la spina, sa. Questo posto non è il massimo, ma custodisco molti ricordi della mia giovinezza, qui.»

«Una storia interessante» rispose Mulder.

«Già.»

Il detective osservò il bicchiere, poi diresse il suo sguardo verso il palco.
«Però, canta proprio uguale. Complimenti»

Kellerghan scoppiò in una risatina soffocata.
«È in playback. Non siamo ancora riusciti a rendere il timbro vocale identico. Soprattutto con lui.»

Mulder annuì. Aspettava il momento giusto.
«Johan... posso chiamarla così?»

«Certo, certo.»

«Non voglio continuare questa scialba conversazione all'infinito. Sono qui per porle una semplice domanda.»

I tratti di Kellerghan si inasprirono, diventando una maschera di perplessità.

«È stato uno dei suoi a uccidere il clone della Gentric?» domandò pacato Mulder.

Il detective sapeva che l'avrebbe colto di sorpresa con quella domanda, e così fu.

Kellerghan rimase un momento in silenzio, nel pieno sconcerto.

Questa volta non riesci a rimanere impassibile, eh?
Pensò Mulder.

Johan lo guardò con un'espressione indecifrabile in volto, inspirò.

«No. No non è stato uno dei miei, detective

Mulder ridacchiò.
«Allora ci è arrivato, a capire chi sono. Detective Oscar Mulder, della omicidi di Detroit. Tanto piacere.»

Kellerghan teneva fra le dita il bicchiere con tanta forza che avrebbe potuto rompersi da un momento all'altro.

«Sta investigando sulla persona sbagliata, Mulder.»

«Questo lo decido io, se permette.»

Johan bevve un lungo sorso, sembrava essersi ricomposto.

«Sta investigando sulla persona sbagliata» ripeté con più fermezza.

Poi, alzandosi, lasciò la mancia al barista e si avviò verso l'uscita.

«Visto che non sono in arresto e non può trattenermi, vorrei andare a casa dalle mie figlie. È stato un piacere, detective» esclamò alzando il braccio in segno di saluto.

Mulder rimase al bancone annuendo.

Zelda si alzò di scatto e gli si avvicinò.

«Voglio qualcuno che segua i suoi spostamenti. Capito, Lynch?»

«È lui?» rispose di rimando la ragazza.

«Non lo so. Non lo so.»

Zelda osservava il soffitto, ammirava le luci scivolare su di esso come se stesse guardando un film.
Non sapeva quanto tempo era passato da quando si era seduta a quel tavolino rosso. Davanti a lei, c'era ancora la fetta di crostata.

Xavier, seduto dall'altra parte del tavolo, la contemplava annoiato, con la testa poggiata sul palmo della mano.

«A cosa stai pensando, Zelda?» chiese, già rassegnato al fatto che lei non gli avrebbe risposto sinceramente.

Zelda fece per ribattere, quando arrivò la cameriera con un cocktail dalla forte pigmentazione azzurra, sul vassoio.
Lo depose vicino alla ragazza, poi se ne andò.

«Che roba è?» Xavier guardò perplesso quel concentrato di coloranti.

«Si chiama Angelo Azzurro. Gin, Contreau e Blue Curaҫao» gli rispose fredda Zelda, poi osservò la ciliegina candita che galleggiava nel bicchiere. La prese e ne addentò un piccolo pezzo.

«Hai idea di quanto sia alcolico?» continuò Xavier, preoccupato.

Zelda annuì in silenzio.
Lei non lo diceva a nessuno, ma quel cocktail non lo prendeva per sbronzarsi subito o altro. Semplicemente le piaceva vederlo arrivare al tavolo, con i suoi colori sgargianti e allegri, la sua ciliegina vermiglia e dolcissima.

Lo guardava per molto tempo, ci giocherellava con la cannuccia scura, poi ne beveva al massimo tre sorsi.
Non aveva mai avuto l'intenzione di finirlo, anzi, era terrorizzata dalle possibili conseguenze. Per lei quel cocktail era solo una bellissima opera d'arte da contemplare.

Rimasero qualche attimo in silenzio, mentre Zelda finiva la ciliegia e Xavier guardava le persone agli altri tavoli chiacchierare.

«Tu te la ricordi la casa di mamma?» Zelda appoggiò il picciolo dell'amarena sul piattino del bicchiere, guardando negli occhi il fratello.

Xavier la osservò di rimando, con occhi stanchi.
Non potevano tornare su quell'argomento, di nuovo.
Appena Zelda aveva posto la domanda, troppi ricordi, troppe sensazioni erano scaturite in lui. Eppure riuscì a mantenere un tono calmo.

«Non proprio.»

«Io mi ricordo qualche particolare, come le tende gialle di camera nostra, oppure il quadro sempre storto all'ingresso» Zelda pronunciava le parole con freddezza, quasi con disinteresse.

Se devi parlarne in questo modo, piuttosto non farlo.
Pensò Xavier.
O devi farmi vedere che sei migliore di me anche a contenere le emozioni?

«Io non mi ricordo quasi niente» Xavier si incupiva sempre di più e Zelda se ne stava accorgendo.

«Perché hai tirato fuori il discorso?» chiese all'improvviso il ragazzo.

Zelda sbarrò appena gli occhi, in una fugace espressione di sorpresa.
«Non lo so. Mi è venuto in mente»

«Io non ne voglio parlare, Zelda» concluse secco Xavier.

Zelda lo guardò in uno strano modo, il suo sguardo non aveva mai ospitato una luce così ambigua.

«Solo perché nostra madre non ha saputo gestire i suoi figli e la miseria in cui vivevano, non significa che non possiamo ricordare il passato.»

«Sei la prima a non volerne discutere, Zelda» sibilò Xavier.
Nella gola gli rimbombava il battito cardiaco, nella mente aveva più confusione di quando doveva segnarsi un indirizzo che qualcuno gli stava comunicando al telefono.

Zelda si portò il cocktail appresso, ma non bevve.
Lo osservava e basta, perché solo guardando quei colori allegri avrebbe potuto ritrovare la compostezza perduta. È vero, non ne voleva mai parlare, di loro madre.

Ma in quel momento, dopo aver rivisto, vicino al carcere, la realtà che da bambina aveva toccato, provato e sofferto, sentiva la necessità di sfogarsi, almeno per una volta.
La valigia del passato pesava troppo.

«Mamma non era una stronza», mormorò Zelda, «ha fatto quello che ha potuto, ci ha fatto studiare.»

Xavier rise amaro.
«Sì, ci ha fatto studiare. A spese dello stato, perché lei non poteva permetterselo, dettando terrore al primo voto basso. Te non te lo ricordi?»

«Ma non ci arrivi proprio, allora!» Ecco, ora aveva veramente perso il controllo.
Fanculo, cocktail azzurro del cazzo, questa volta non mi hai aiutata.

Xavier sbattè le palpebre.

Ogni parola della sorella era un pugno in pieno viso.
Anche ora che era passato, lasciava il sapore ferrigno del sangue in bocca e il naso pulsante. Faceva ancora troppo male per essere sopportato.

Non perché a ferirlo fossero state le sue esatte parole, ma perché esse confermavano quello che Xavier aveva sempre tremendamente intuito. Quella verità sospettata che germogliava negli angoli più scavati della sua mente.
Una pianta infestante.

Lei era migliore di lui.

E le semplici parole di Zelda lo avevano confermato.

«No, non ci arrivo, sorellina. Mi dispiace di non essere all'altezza dei tuoi canoni.» Xavier si alzò, prese il cappotto con delicatezza.

Zelda cercò di dire qualcosa, lo sguardo agonizzante.

«E comunque mamma i soldi ce li aveva.
Li teneva in una scatola delle scarpe nell'armadio, in fondo al corridoio. Ma preferiva spenderli per i cazzi suoi.» Xavier indossò il cappotto e la vincita della lite.

Zelda non avrebbe ribattuto.
La verità che le aveva nascosto per tanto tempo le era stata rovesciata addosso, gelida e pura.

Zelda sapeva che quelle non erano cazzate, perché, di quella scatola di scarpe, aveva sempre sospettato.
Anche se non era ancora pronta per ammetterlo a se stessa.

Xavier si voltò, dandole le spalle insieme al falso bel ricordo della loro madre che Zelda si ostinava a custodire così gelosamente.

Lasciandola seduta a un tavolino scrostato, con davanti un bicchiere colmo di coloranti.

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