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Finalmente ho trovato il coraggio di pubblicare questa breve storia che ho nelle bozze da circa due annetti. Il progetto originale nacque in realtà ben quattro anni fa, quando frequentavo il primo superiore. La mia professoressa di italiano, donna coltissima e lungimirante, aveva istituito il "sabato dei classici". Come suggerisce il nome, si dedicavano due ore di lezione il sabato a leggere i più celebri testi della letteratura italiana e non. Una volta terminata l'opera, vi erano attività laboratoriali che si incentravano sulla comprensione e sull'analisi del testo letto. "Ombre sotto l'albero spoglio" fu proprio il frutto di uno di questi progetti. Lo scheletro originale era molto più scarno e sciatto rispetto a ciò che voi lettori vi accingerete a leggere qui sotto, poiché, possiamo dire, che le capacità icastiche della me tredicenne non erano grandiose.
Prima di lasciarvi, devo fare una premessa doverosa: se non avete letto il romanzo, sarà difficile cogliere il senso generale di quello che ho scritto, nonostante io abbia provato a rendere il tutto di facile comprensione e quindi adatto a coloro che si approcciano a queste vicende per la prima volta.
Dopo questo infinito cappelletto, buona lettura <3
Il servo varcò la soglia del salone con passi misurati, e il cigolio della porta interruppe il mormorio vibrante di Lotte e delle sue amiche, raccolte sul divanetto color crema come un grappolo di fiori sbiaditi. La luce del pomeriggio, filtrando dalle alte finestre, si rifrangeva sul vassoio d'argento che il servo reggeva con mano ferma.
Lotte, colta nell'impeto delle sue parole, si irrigidì. Una corrente sottile di inquietudine percorse il suo corpo, simile a un'ombra sfiorata dal vento. Senza una parola, si alzò con grazia esitante, un fremito nelle mani, e prese il biglietto posato sul vassoio. Le sue dita lo sfiorarono come si tocca un oggetto proibito, quasi bruciandosi.
Si fermò un istante, lo sguardo perso nell'aria pesante del salone, prima di ordinare, con voce appena incrinata, il congedo delle sue amiche e del servo. Solo quando fu sola, la carta tra le mani parve divenire insopportabile, e con un respiro spezzato si decise finalmente a leggere.
Si avvicinò alla finestra, dove l'aria del tardo pomeriggio sembrava più lieve, e alla luce del giorno incerto lesse le parole che già, nel fondo del cuore, temeva di trovare.
Era da lui. Werther. Ogni riga sembrava pulsare di un'energia febbrile, come se la penna avesse lasciato ferite sulla carta invece di segni. La sua richiesta era chiara, quasi implacabile: una passeggiata nel giardino della villa, la sera stessa, a mezzanotte. Lotte si sentì stringere il petto. Avrebbe portato Albert, naturalmente. Sarebbe stata la soluzione più sensata, più decorosa. Ma le sue mani tremarono quando giunse al post scriptum:
"Devi venire sola."
Quelle parole, scarne e definitive, le gravarono sull'anima come un peso insostenibile. Che altro voleva da lei? Cercava una riconciliazione o l'abisso si stava spalancando ancora di più sotto i loro piedi?
E così giunse la notte. L'ora fatale si avvicinava, e ogni passo che Lotte muoveva verso il giardino sembrava scandire una parte del suo stesso destino. L'aria era immobile, carica di elettricità, e la luna gettava un velo spettrale sulle statue e sui vialetti.
Werther era lì, come un'ombra appena distinta, gli occhi ardenti e il volto segnato dalla lotta invisibile dei suoi pensieri. Lotte, trattenendo il respiro, si fece avanti, sperando — pregando — che il giovane avrebbe rotto il silenzio con delle scuse per il comportamento dell'altro giorno.
Tuttavia, non era per riconciliarsi che Werther aveva convocato Lotte quella notte. I due si sedettero su una panchina, sotto un albero spoglio, le cui ossa nere e intrecciate si stagliavano contro il cielo invernale, velato da una luna pallida. Per un istante, Werther rimase in silenzio, gli occhi fissi sui rami secchi sopra di loro. Era come se cercasse di immaginarli pieni di vita, ricoperti di foglie verdi che danzavano sotto la carezza di un vento primaverile, con gli uccelli che vi si posavano, cinguettando melodie di speranza.
Ma questa visione svanì presto, dissolta dalla consapevolezza crudele del momento. Sarebbero stati, lo sapeva, gli ultimi minuti della sua esistenza. L'idea gli appariva stranamente distante, come se appartenesse a un altro uomo, a un'altra vita. Eppure, quella distanza lo sollevava. Il coraggio che tanto a lungo gli era mancato ora lo invadeva, calmo e freddo come una notte senza stelle.
Non sarebbe stato solo. No, non poteva sopportare che Lotte, causa del suo tormento e della sua estasi, rimanesse nel mondo dopo di lui. La sua presenza, il suo sorriso, appartenevano ormai al regno dei suoi sogni infranti. Se lui doveva andarsene, lei lo avrebbe seguito. Era tutto deciso.
Con un movimento lento e inesorabile, Werther si chinò verso i rovi accanto alla panchina, da cui trasse una pistola, il freddo metallo che aveva nascosto ore prima. Lotte, ignara, guardava l'oscurità davanti a sé, forse cercando di trovare parole che non sarebbero mai arrivate.
Fu allora che il silenzio si spezzò.
Un solo colpo. Il suono si riverberò tra i rami spogli, portato via dal vento gelido. Lotte trasalì, il suo corpo ebbe un sussulto, poi si afflosciò lentamente sulla panchina. Il suo busto ricadde in avanti, e il voluminoso vestito che le cingeva il corpo cominciò a tingersi di rosso, il sangue disegnando rivoli lenti sull'erba invernale. Werther restò immobile, incapace di distogliere lo sguardo. I suoi occhi si fissarono sul volto di Lotte, ancora segnato dalla dolcezza del momento precedente, ora divenuto eterno nella morte.
Non si sentiva né pazzo né malvagio. Aveva agito con la stessa logica che guida le maree o il tramonto: inevitabile, definitivo. Non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno ad Albert, di vivere accanto a lei. Il solo pensiero gli era insopportabile. Eppure, in un raro momento di pietà, decise di risparmiarlo. Albert non era colpevole: era solo una comparsa insignificante nel teatro di quel destino inesorabile.
Werther sollevò l'arma una seconda volta. La guardò per un momento, il respiro calmo. Poi, in un istante che sembrò sospendersi nel vuoto del tempo, si lasciò andare al destino che aveva scelto.
L'indomani, all'alba, il servo percorse il giardino portando con sé un mazzo di chiavi, i flebili tintinnii accompagnavano i suoi passi lenti e pigri. Il gelo della notte si era posato sull'erba, e il respiro dell'inverno avvolgeva ogni cosa in un silenzio irreale. Fu allora che li vide.
Sulla panchina, sotto l'albero spoglio, i corpi immobili di Lotte e Werther giacevano come statue scolpite nel marmo del dolore. Lotte sembrava dormire, ma il rosso del sangue, ormai rappreso sul vestito, parlava di un sonno eterno. Werther, accanto a lei, aveva il volto rivolto al cielo, gli occhi chiusi come se stesse contemplando un ultimo sogno.
Il servo lasciò cadere le chiavi, il clangore del ferro battuto ruppe l'incantesimo di quel momento e si mescolò al grido soffocato che gli sfuggì. Tremante, si coprì il volto con le mani, incapace di sostenere lo spettacolo di quella tragedia consumata in silenzio.
I funerali furono celebrati il giorno successivo, nella stessa gelida aria che aveva accolto la morte dei due amanti. Il corteo per Lotte fu lungo, accompagnato da sguardi pieni di lacrime e di rimpianto. I suoi amici, i conoscenti, persino coloro che l'avevano vista appena una volta, vennero a darle l'ultimo saluto, come se la sua bellezza e la sua bontà dovessero essere commemorate per sempre.
Ma per Werther, nessuno venne.
La sua bara giacque da sola, sepolta nell'ombra, accompagnata solo dal muto lamento del vento. Nessuno volle essere testimone del suo ultimo viaggio, come se la sua esistenza — e il suo amore — fossero stati un errore da dimenticare.
Eppure, nei giorni che seguirono, si diceva che il servo, tornando al giardino, avesse trovato tracce di sangue ancora visibili sull'erba, come un sigillo indelebile del destino. L'albero spoglio sotto cui giacevano i due amanti rimase privo di foglie, anche quando la primavera tornò a baciare il mondo.
Come se la natura stessa non potesse perdonare.
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