Spettri
Da stamattina ho la sensazione di non essere sola, mi sembra di vederli dappertutto. Ogni tanto scruto nel riflesso delle vetrine, cercando di scrollarmi di dosso il pensiero di quegli sguardi incrociati: mi puntano come segugi dalla penombra dei vicoli, dai cartelloni coi manifesti strappati, dai lampioni e dai sottoscala. Ombre lontane come riflessi di luce, compaiono e scompaiono a debita distanza. Troppo insospettabili per non destare sospetti.
Martina è il mio pensiero fisso. Sono sicura che sia riuscita a mettersi in salvo, ma non ho idea di dove possa trovarsi e perché non si faccia sentire. Mi risulta che frequenti un giro di attivisti nell'ambiente della pirateria informatica, quei collettivi anonimi che si servono del digitale per portare avanti iniziative (dicono) benefiche. Uno di loro abita proprio in una traversa del viale su cui doveva trovarsi lei nel momento in cui è scomparsa.
Il solo posto dove cercarli entrambi credo sia il capannone abbandonato in viale delle Triremi, al vecchio mercato coperto. Non ne so molto di quel posto, ma sul retro Martina mi ha raccontato di un cantiere dismesso del quale molti non sospettano l'esistenza, protetto da sguardi indiscreti. Potrebbe trovarsi lì.
Devo liberarmi però dei fantasmi che mi scrutano nell'ombra, o finirei per condurli a lei! Questo mi sembra il problema più immediato da risolvere, gli occhi addosso di questi perfetti sconosciuti iniziano ad inquietarmi più di quanto non sia disposta a sopportare. Ora ti prego lettrice adorabile di seguire il mio ragionamento, perché il romanzo che stai leggendo parla guarda caso proprio di ombre, fuori e dentro di noi.
In condizioni normali ne converrai con me, non puoi batterti con un'ombra, perché un'ombra non ha corpo; non vi è che un solo modo per dissolverla, ed è trafiggerla con l'ardente lama della luce, che tutte le ombre dissolve nella potenza del suo chiarore: si deve cioè portare alla luce del sole quel che è nascosto, ovvero chi si nasconde nell'ombra deve sentirsi a sua volta osservato.
Bene, la sorte mi è favorevole. Vedo uscire da un bar nei pressi del parco un gruppo di quattro carabinieri che amabilmente conversano tra loro, un'idea mi attraversa e non ho tempo di chiedermi se sia quella giusta: mi avvicino con passo svelto, alzo l'indice della mano sinistra, come se avessi bisogno di aiuto.
- Buongiorno! - saluto.
- Buongiorno a lei signorina, mi dica - risponde il brigadiere, quello col grado sulla giacca dell'uniforme. Sembra cortese, disponibile.
- Perdonatemi l'intrusione - proseguo, - desidero un'informazione che solo voi credo possiate darmi -
Parlo a voce bassa in modo che soltanto loro possano intendermi, ma gesticolo in modo evidente, per garantirmi buona visibilità in ogni direzione. Un cenno con la mano verso i vicoli circostanti, un altro lungo la strada, sulla pista di pattinaggio, il mento che indica tutto e niente: chi mi vede da lontano, non sa di cosa stia parlando, può solo cercare di intuirlo dal gesto. Ma le mie mani sono ingannatrici, non descrivono le parole che ho sulle labbra.
- Qualche giorno fa - spiego, - ho chiesto indicazioni a un vostro collega per un indirizzo verso il quale ero diretta - il tono della mia voce è serio, garbato e rispettoso. - Ero in motorino e l'agente, nell'indicarmi la via da percorrere, m'ha fatto violare un senso unico e un'isola pedonale... -. Mormoro appena. Il brigadiere aggrotta il sopracciglio, segue il mio dito indice che unisce con un tratto immaginario vicoli, lampioni, cartelloni, ai quattro punti cardinali, - Non trovate irrazionale che una forza pubblica possa invitarmi a trasgredire il codice della strada? -.
Continuo a gesticolare, facendo in modo di indicare più volte quei vicoli da cui ho visto apparire persone sospette, verso le quali convergono man mano gli sguardi dei presenti; uno dei carabinieri sorride, l'altro scuote la testa e tutti insieme alternandosi mi rispondono con pazienza, spiegandomi che sono previste deroghe speciali in alcune situazioni. Insisto con domande volutamente surreali, inutilmente pignole, sulle norme e sui regolamenti, mentre controllo con la coda dell'occhio ogni movimento intorno a me e mi accodo agli uomini in uniforme. I quali, nel frattempo, si sono rimessi in cammino.
Li affianco per un paio di isolati senza smettere di parlare. Sembrano divertiti dalla mia irruenza. A un tratto scorgo alla mia sinistra un cancello aperto su un piccolo giardino condominiale, da cui mi sembra di intravedere un vialetto interno, protetto da alte siepi di rose. Ringrazio per la conversazione, saluto. Come una gatta svicolo nel cancello, percorro il dedalo di ghiaia che sbuca proprio all'incrocio su cui si affaccia il vecchio capannone dismesso. Finalmente mi trovo davanti alla grande parete dipinta che sovrasta l'ingresso, da cui una schiera di grattacieli, mani intrecciate, pugni chiusi, sembrano venirmi incontro come cuccioli festanti. La porta è chiusa. Busso.
Mi apre un ragazzo più grande di me dai lunghi boccoli e una barba fluente alla nazarena. - Martina è qui? - chiedo, lui mi guarda trasognato. Percorre dalla testa ai piedi la mia aliena tenuta, un semplice gonnellino scamosciato senza strappi, spille, rattoppi. Scarpe anonime, maglia pulita, appena una punta di rossetto, il cerchio ai capelli e le unghie corte; leggo nei suoi occhi una punta di commiserazione, come dire datti una stropicciata da qualche parte, fatti un buco nella calza, strappati qualcosa che diamine! Sospettoso, il gigante non vuol lasciarmi entrare. Penso tra me che non posso permettermi di restare in piedi a lungo davanti all'ingresso, devo persuaderlo a lasciarmi infilare nell'uscio e fargli chiudere quella stramaledetta porta.
D'un tratto vedo al nazareno scintillare l'occhio e accennare quasi un impercettibile sorriso: gli è caduto lo sguardo sulla tasca della mia giacca dalla quale, ironia della sorte, ha visto spuntare un libro: questa parte della vicenda la voglio proprio raccontare, si tratta di un tascabile che avevo preso in prestito dalla biblioteca scolastica la settimana scorsa ma poi, date le ridotte dimensioni, me l'ero dimenticato in tasca. L'essenza della religione, di Feuerbach. Quando si dice la provvidenza! L'abito non farà il monaco, ma dopo aver letto il titolo del libro, il sentinello abboccolato decide finalmente di lasciarmi passare, con un sorriso complice. Entro, chiude la pesante porta di ferro laccata in verde.
Con un cenno indica il fondo del capannone. Dietro un grande schermo si apre un varco attraverso cui è possibile accedere al cantiere. Me lo figuravo più decadente, pensavo di trovarci dentro sciami di eroinomani con la schiuma alla bocca, mucchi di siringhe usate, musica a tutto volume, sporco e ragnatele dappertutto. Non posso negare la decadenza, è pur sempre un capannone abbandonato, ma in terra lo straccio l'hanno passato da poco. Si sente l'odore del pulito.
Mi trovo in una sala concerti, con una rampa di scaloni lungo tutto il fianco sinistro, quasi un anfiteatro. Pessima acustica, il suono dei miei passi rimbomba in modo veramente orribile. Alle pareti, volantini con le iniziative: non solo manifestazioni ma convegni, un cineforum, corsi di yogheiraneikilates e non so che altro. Non ho tempo di fermarmi a leggere tutto il programma, mi limito a seguire l'indicazione del nazareno. Attraverso la malridotta pista da ballo coperta a chiazze bovine da uno sbocconcellato linoleum, mi dirigo verso il cantiere sul retro.
Il rumore dei miei passi si spegne davanti a una porta laterale semiaperta. Mi fermo, respiro profondamente per farmi coraggio. La spingo con delicatezza, sperando di non far rumore. Dall'altra parte, una luce fioca. Mi avvicino, il cuore in gola.
Finalmente, la vedo. Martina, sdraiata su un vecchio divano sfondato, gli occhi chiusi, respira lentamente da quella sua zuccherina ciliegia semiaperta. Non oso svegliarla, resto immobile per qualche interminabile istante a guardarla. Non si è accorta di me, non ancora.
E' salva.
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