CHI ROMPE PAGA E I COCCI SON DI ZEUS

Alejandro Molina, l'architetto più famoso, eccentrico e pagato di New York, era andato a dormire tra le lenzuola di seta del comodo letto king size che troneggiava nella camera padronale del suo superattico.
Se lo ricordava bene: aveva buttato giù un paio di sonniferi – necessari dopo una giornata in ufficio e una serata passata al telefono a litigare con l'ex fidanzato – e si era assopito con la TV accesa su un canale di televendite.
Quindi non riusciva a capacitarsi del fatto che, aprendo gli occhi, si era ritrovato da tutt'altra parte, in quella che sembrava una reggia greca che il suo occhio da esperto datò intorno al quinto secolo avanti Cristo.

"Stile classico, capitelli corinzi e corinzieggianti, marmi policromi..."

Era perso nella contemplazione dell'enorme salone in cui si trovava, quando sulla scena irruppe un uomo barbuto, che dimostrava all'incirca trentacinque anni e sfoggiava un luminoso sorriso a trentadue denti. In effetti, il sorriso non era l'unica cosa luminosa del suo aspetto: tutta la sua figura emanava una sorta di alone indefinito, dorato e potente, che mesmerizzò lo sguardo di Alejandro.

«Benvenuto, benvenuto... Oh, accidenti, ho dimenticato nuovamente di celare l'aura divina!»

La luminosità si smorzò e l'architetto riguadagnò un minimo di lucidità, riportando gli occhi scuri e stralunati sul viso dello sconosciuto.

«Ecco, va meglio?» domandò quello con fare premuroso. «Mia figlia dice che dobbiamo stare attenti a come ci rapportiamo a voi mortali dopo tanti secoli e il vostro Presidente si è detto d'accordo... Credo. Comunque, ora che non è più distratto dalla mia gloria, che ne dice delle sue stanze?»

«Le mie... Stanze?» ripeté Alejandro, confuso. L'uomo allargò le braccia in un gesto vago:

«Sì, queste. Sono a sua completa disposizione per tutto il tempo che rimarrà qui!»

«Perché, io rimarrò qui?» borbottò l'architetto, girando su sé stesso alla ricerca di un senso a quello strano incubo. «E dov'è qui, poi?»

Lo sconosciuto schioccò le dita per rimarcare una cosa che pareva considerare ovvia:
«Beh, l'Olimpo, ovviamente!»
L'espressione incredula e boccheggiante di Alejandro Molina parve aumentare il suo buonumore.
«Immagino come si sente... È difficile, ma sappia che sto davvero provando a capire cosa possa provare una mente mortale al cospetto di questi palazzi eterni, immortali... Lei capisce questo concetto? L'eternità?»

«Più o meno...» replicò l'uomo, stropicciando nervosamente la camicia del pigiama. Aveva sentito parlare degli dèi, ovviamente – nell'ultimo mese i notiziari di tutto il mondo non avevano parlato d'altro. E il pensiero che quell'individuo così gioviale fosse probabilmente Zeus e che potesse polverizzarlo in qualsiasi istante gli fece venire i sudori freddi.

«Bene, perché l'eternità è uno dei punti cardine del nostro progetto, voglio che questo le sia ben chiaro. Vogliamo costruire qualcosa che abbia radici profonde e che sia pensato per resistere al tempo – come noi, insomma. Qualcosa che rimanga immutato nei secoli dei secoli. Mi segue?»

«Forse. Però, eh... Signore... Avrei una domanda, ecco. Anzi, più di una.»

«Prego, mio buon amico mortale!»

«Non capisco alcune cose: innanzitutto, come ci sono arrivato qui? Perché? Cosa c'entro io col vostro progetto di eternità e radici? E chi ha deciso di appendere lì quell'orribile composizione floreale?»

Zeus seguì il suo sguardo fino alla gigantesca corona di fiori appesa sull'architrave dell'ingresso:
«Oh, quello! Quello è il regalo di benvenuto di mia sorella Demetra. Stona un po', in effetti, ma si annoia ora che sua figlia è col marito nell'Oltretomba e quindi fa queste cose... Mi creda non sappiamo più dove metterle! Spero che con il suo aiuto si risolva anche tale questione, in effetti!»

Alejandro percepì il magone che preannunciava un attacco isterico addensarsi alla bocca dello stomaco:
"Dov'è lo Xanax quando serve?"
Proprio quando la crisi di nervi sembrava inevitabile, la salvezza giunse sotto le sembianze di una donna che si materializzò nella stanza senza preavviso. Anche se non avesse assistito all'apparizione improvvisa l'architetto avrebbe subito capito che era una dea, non una comune mortale: i suoi occhi grigi, grandi e tondi come quelli di una civetta, brillavano di una saggezza antica quanto il mondo. Il corpo allenato dalla guerra non mostrava alcuna imperfezione, nessun segno dello scorrere del tempo. Perfino la ruga che le divideva a metà la fronte e la smorfia irata che le storceva le labbra erano più perfetti del broncio di qualunque altra donna: Alejandro non avrebbe saputo dire come o perché, ma l'espressione sul volto della grande Atena racchiudeva in sé l'essenza stessa della rabbia e del fastidio. Dalla sua figura emanava un'aura simile a quella di Zeus, ma senza l'energia caotica che contraddistingueva il padre degli dèi: dava l'impressione di placidità e calma propria delle persone abituate a risolvere i pasticci altrui – come un responsabile delle risorse umane o un commesso dello sportello reclami, ma migliore.
Stava imparando in fretta che, quando si trattava degli dèi, era tutto un di più, nel bene e nel male.

Atena si avvicinò con circospezione e l'uomo ebbe l'impressione che non si trovasse del tutto a suo agio nel tailleur antracite all'ultima moda – tanto che ai piedi, per l'orrore del buon gusto, portava un paio di sandali intrecciati.
«Padre, chi è costui?»

«Alejandro Molina! Nominato miglior interior designer dal New York Times per tre anni di fila, miglior architetto secondo diverse riviste europee che sono un'autorità in materia, vincitore del premio Direhaus e della medaglia Riba» snocciolò Zeus e Molina non poté fare a meno che sentirsi lusingato da tanto entusiasmo.

Atena pareva un po' meno contenta e dopo aver lanciato una lunga occhiata di rimprovero al padre si rivolse direttamente a lui:
«Come è arrivato qui?»

«Io? Beh, io veramente... Non ricordo...»

«Quindi non ha preso nessun accordo con noi, giusto?»

«Accordo?»

Ma la dea già non lo ascoltava più.
«Padre! È il terzo questa settimana! Ve lo ripeto di nuovo: prima gli umani firmano un regolare contratto e poi vengono sull'Olimpo. Il contrario è sequestro di persona!»

«Scusa, ma come può firmare un contratto senza rendersi conto del lavoro che lo aspetta? Deve fare dei sovrapposti...»

«Sopralluoghi.»

«... Quello che è, prima di accettare l'incarico.»

«Passi l'architetto. Passi anche l'ingegnere edile. Ma che sopralluoghi dovranno mai fare gli chefs che avete trasportato dalla Francia e dall'Italia e quel povero parrucchiere di Londra?»

Con un gesto stizzito, Zeus rispedì Alejandro Molina nel suo super attico a New York.
«Non sei d'aiuto, Atena!» borbottò, uscendo dal palazzo a grandi passi.

Fuori, l'intero villaggio olimpico era in fermento dopo secoli di stasi: recuperare duemila anni di Storia umana era un'impresa onerosa anche per degli esseri sovrannaturali come loro, ma alcuni si erano adattati bene.
Era, Estia e Demetra, per esempio, avevano storto il naso davanti ai marchingegni umani, ma quando l'Olimpo era stato raggiunto dalla TV satellitare e dalla connessione wi-fi erano state conquistate dalle soap opera venezuelane.
Atena seguì il padre mentre s'inoltrava nel grande giardino che si estendeva tra i palazzi divini: fino a qualche settimana prima era una giungla lussureggiante e un po' selvaggia in cui cresceva ogni pianta che gli dèi desiderassero, ma ora anch'esso si era adeguato al nuovo gusto minimal di Zeus ed era diventato un ordinato prato all'inglese in cui campeggiavano qua e là statue e fontane dei più disparati stili.

«Quella è una copia del famoso pezzo scultoreo Amore e Psiche di quell'artista italico di cui ho letto l'altro giorno?» borbottò, preoccupata.

«Una copia?» sbottò Zeus, arricciando il naso. «Di', ti sembro forse uno che si accontenta di una copia? È l'originale, ovviamente!»

Atena sbatté gli occhi cerulei, nascondendo abilmente il proprio sconcerto e l'inquietudine crescente.
«Padre... Se non sbaglio quella statua era in un altro Paese. Un regno degli umani. Ed era custodita in un luogo in cui i mortali vanno spesso a guardarla.»

«Lo so cosa stai pensando: è assurdo che dei mortali, per giunta neanche di sangue reale, abbiano libero accesso a una tale bellezza. Ed è per questo motivo che l'ho presa io. Ora, tua sorella voleva metterla nel suo giardino...»

«Afrodite non è mai stata un modello di assennatezza: padre, questo è un furto!»

«Un furto d'immagine, sì, certo – si dice così, giusto? No, dico, lo hai visto che quello lì è Eros? Io sono un dio moderno e cerco di adattarmi, ma insomma! E fatela una preghierina prima di iniziare a scolpire, che vi costa? In quel caso avrei chiuso un occhio, ma così... È nostra di diritto! Al piccoletto è quasi venuto un colpo quando si è visto ritratto in quella posizione!»

"Chissà perché non ne sono convinta" pensò la dea, che ricordava di aver sorpreso il suo vivace nipote in posizioni ben più compromettenti di quella.

«Ah, a proposito di Afrodite: si è candidata per il titolo di Miss Mondo e le ho promesso che avremmo votato per lei, mi faresti il piacere di spargere la voce?»

«Padre» sibilò Atena. «In quanto re dovreste far rispettare le regole! Siete sempre stato il garante della legge e della giustizia – e ora rapite gli umani, rubate statue e incentivate l'utilizzo scorretto del televoto?»

«Le leggi e la giustizia dei mortali non si applicano a noi» replicò lui strizzandole l'occhio. «L'unica legge a cui sono soggetto, come tutti, è quella del Fato. E non mi sembra che Egli abbia da ridire su come sto mandando avanti la baracca!»

Atena ebbe la conferma che il Fato si era indispettito quando intravide davanti a loro la scia eterea e multicolore che preannunciava l'arrivo di Iris, portatrice di messaggi funesti.
Nipote di Oceano – e quindi loro parente solo alla lontana – Iris aveva sempre sofferto della sua condizione di dea minore, relegata a un compito ingrato; perciò quando doveva comunicare una brutta notizia a qualcuno degli olimpici le affiorava sul bel viso un sorriso raggiante e maligno, che accentuava le somiglianze con le sue sorelle, le Arpie. Come loro, anche Iris era dotata di un paio d'ali piumate color dell'oro, di cui si pavoneggiava a ogni banchetto.Atterrò nel giardino con un ultimo svolazzo, lisciando qualche piega invisibile sul vestito iridescente fatto di gocce di rugiada e s'inchinò a Zeus; Atena fece però in tempo a vedere un lampo divertito nei suoi occhi, gelidi e trasparenti come un prisma di vetro.

«Mio signore, reco gravi notizie!» annunciò con fare pomposo.

«Tanto per cambiare...» borbottò sottovoce il re degli dèi.

«Afrodite è stata bandita dal concorso di bellezza!»

«Tutto qui?»

«Beh, è stata trovata a letto con tutti i giudici e la cosa ha dato parecchio scalpore. Ma forse è meglio che vi sediate prima che vi dica cosa è successo nelle regioni dell'antica Persia...»

***

Siria, dodici ore prima

«Beh?»
La voce di Eris grondava disappunto. Appesa a testa in giù alle travi scoperte di un edificio sventrato dalle bombe, la dea della discordia arricciò le labbra in una smorfia imbronciata e incrociò le braccia al petto.
«Hanno già finito?»

Ares, seduto su ciò che rimaneva del tetto, inclinò il capo di lato, scrutando i cecchini appostati a diversi metri da loro. Una ciocca di capelli neri come quelli della sorella gli ricaddero davanti alle iridi dorate e scurite dal fastidio.
«Sembra di sì» grugnì, con quella voce tonante che instillava puro terrore in ogni creatura mortale.
«Gli umani son sempre stati dei codardi, ma non credevo che potessero indebolirsi fino a questo punto. Questa battaglia non è durata neanche mezzo giro di clessidra!»

«Battaglia? Tu questa la chiami battaglia?» strillò Eris, spalancando le ali e volando fino a poterlo guardare in faccia. «Dove sono le spade? E gli archi? E le macchine da guerra? Ci sono solo dei patetici umani gracilini che muovo quei loro buffi bastoni! Non hanno neanche l'armatura, per tutti gli Inferi!»

Ares non rispose: accarezzava con fare distratto il crine rosso dell'elmo che teneva in mano, brillante e spaventoso come il resto dell'armatura che gli cingeva il corpo possente. Era alto, anche per essere un dio: i suoi tre metri lo facevano svettare sull'Olimpo e sul suo potente padre Zeus.
Osservava con gelida attenzione i "bastoni" che gli umani imbracciavano con tanta sicurezza e da cui, di tanto in tanto, partivano delle piccole pietre che sembravano avere effetti devastanti sugli oggetti e gli animali che colpivano. Però sua sorella aveva ragione, quella non si poteva certo definire una battaglia: gli umani non facevano altro che guardarsi dalle due opposte estremità di una piazza, che era in rovina come il resto della città. Non c'era alcuna gloria in quel combattimento, nessun eroe che brillava sui compagni per beltà, forza e coraggio.
Il dio della guerra strinse le labbra carnose, facendo scricchiolare i denti affilati l'uno contro l'altro: no, non era affatto soddisfatto.

Ares voleva veder scorrere così tanto sangue da macchiare per sempre la terra, volevo udire le grida disperate degli umani moribondi: viveva nella foga di una battaglia che non risparmiava nessuno, nella furia dei soldati che diventavano assassini, nella mattanza senza discriminazioni. Traeva nutrimento e forza da quella gioia cieca e animale propria dell'uccidere senza motivo, solo perché si è i più forti e i più audaci. Quel balletto di strategia e posizioni tattiche a cui stava assistendo lo lasciava volentieri ad Atena, la sua composta e razionale sorella maggiore, che guidava gli eserciti alla vittoria: il suo unico desiderio era di spedirli nell'Ade.
Si calcò in testa l'elmo di bronzo, modellato a foggia di una testa di lupo; gli copriva l'intero volto, così che ora l'unica cosa che si poteva distinguere dietro di esso erano le selvagge iridi gialle.Con un gesto fluido, frutto di millenni d'addestramento, sguainò la pesante spada forgiata per lui da Efesto – prima che venisse a sapere delle scappatelle di Afrodite.
Nell'altra mano reggeva la lancia, splendente e affilata come la prima volta che l'aveva stretta tra le dita.

«Andiamo, sorella mia» ghignò Ares. «Ravviviamo un po' questa guerra!»

I soldati non avrebbero saputo descrivere come fossero arrivati, o da dove. Ricordavano ben poco del loro aspetto, se non quel sentimento di assoluto orrore e panico che li aveva colti quando le due creature erano piombate nel mezzo della scena. Dopo la paura era arrivata la furia, che li aveva spinti ad abbandonare le postazioni guadagnate con tanti sacrifici per buttarsi addosso ai nemici al pari delle belve, attaccandoli prima con il calcio dei fucili, poi con pietre raccolte da terra e infine coi pugni e coi denti. Alla fine, non avrebbero saputo distinguere l'amico dall'amico, e non avrebbero saputo neanche dire per chi o cosa stessero combattendo.

E in mezzo allo scempio Ares ed Eris gongolavano come due bambini in un negozio di dolci, beandosi della violenza e della sventura che avevano portato in quell'angolo di mondo.

Torno col secondo capitolo dopo un bel po' di tempo, perché questa è una storiella senza pretese che scrivo per "scaricarmi" dai problemi della stesura di quelle più serie. E tutto sommato sono contenta di come è uscito questo secondo assaggio del progetto di Zeus 😝

Enjoy ❤️

    Crilu

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