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Intorno ho il cielo.
Ma non il cielo che si può vedere di solito quando si alza la testa, quello pieno di nuvole o quel che sia, no.
Era il cielo che amavo io. La galassia. Le stelle.
Quelle sfumature che andavano dal rosa al viola, dal viola al blu, dal blu all'azzurro, dall'azzurro al nero. Se giri la testa un paio di volte ti sembra che tutti quei colori si muovessero intorno a te, quelle chiazze magiche che si rincorrono tra loro e ti trascinano via in un turbinio dalla quale è impossibile scappare, dal quale è bello farsi cullare.
Quell'atmosfera senza ossigeno che ti chiude il petto e non ti fa respirare, cui sei obbligato a rimanere lì a guardarti intorno con immenso stupore, trattenendo il fiato, finchè non lo butti tutto fuori.
E quel secondo, quel magico secondo in cui sei fuori dal mondo, che ti fa sentire come se l'anima ti uscisse dal corpo e poi rientrasse portando aria e polvere di stelle, che ti rendono più luminosi da dentro, finchè poi nella caduta libera mentre senti il rombo del vento nelle orecchie alzi lo sguardo e vedi le sfumature magiche allontanarsi, l'aria della galassia uscire dal tuo corpo e la polvere di stelle volare via, sempre più irrangiungibili, finchè non chiudi gli occhi per non vedere il tuo corpo spiaccicato sull'asfalto e ti ritrovi sul tuo letto, nella tua stanza, circondato da aria consumata e dal solito mondo.
Il cielo che tanto amo non c'è più, tornato di nuovo ad essere solo il solito sogno che faccio ogni notte da quindici anni.
Però quelle stelle mi rimangono impresse a fuoco dietro le palpebre come un tatuaggio.
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