CAPITOLO 5

" E vissero tutti infelici e scontenti"
Così per non ingannare il suo bambino termina le favole.
(Ennio Flaiano)

«Cos' è quel mostro?», gli chiesi, allarmata, mentre si alzava la visiera.

«Una Honda... la mia bimba!», mi rispose Federico, compiaciuto, porgendomi un altro casco.

Avevo creduto di prendere un abbaglio quando un motociclista mi si era fermato accanto, tutto bardato da una tuta nera e casco integrale.

«NO, non può essere lui!», aveva starnazzato la mia mente, finché ogni mia speranza si era sciolta, come neve al sole, vedendone il viso.

«No, no... No! Io là non ci salgo. Le due ruote non mi sono mai piaciute, soprattutto di quel tipo.»

Avevo davanti non una moto qualsiasi, ma una di quelle che correvano veloci.
Sembrava una pantera, acquattata, pronta a scattare da un momento
all'altro, tutta nera, con qualche sprazzo d'argento.

«Ciao,grazie di tutto... piacere di averti rivisto.», feci per andarmene.
Ora, capivo perché aveva insistito affinché mi vestissi comoda e portassi, con me, pure un giubbino.

«Su, non fare la fifona. Con me sei al sicuro.», cercó di rassicurarmi.

«E chi me lo garantisce?, gli chiesi scettica.

«Io, fidati. Sono un asso delle due ruote.,»

Scossi la testa.
Ma, che mi era preso?
Che ci facevo lì, con un perfetto sconosciuto?
Si, sapevo il suo nome.
Conoscevo un po' di lui.
Ma quanto ne sapevo veramente?
Poteva essere chiunque: un maniaco, un assassino, uno stupratore seriale, un pazzo... infinite congetture mi tediavano il cervello.
Troppo tardi.

«Ti smuovi? Non possiamo rimanere qui a fare il palo.», mi esortó, spazientito, tirandomi per una mano e aiutandomi a salire sulla sella, dietro di lui.
«Ti raccomando tieniti forte... e quando facciamo le curve seguimi o cadiamo.»

Cadere.
Che brutta cosa!
Un po' goffa, m'infilai il casco e mi strinsi a lui che, pian piano, s'immise nel traffico cittadino, incuneandosi tra una macchina e l'altra.

" Dio, ci spiaccicheremo contro qualcuna!" ,pensai terrorizzata, mentre ci passavamo a filo.

Da dietro non si vedeva molto e, se provavo a scostare la testa, il vento mi smuoveva il casco e sembrava di essere sulle montagne russe.
Piacevole sensazione, a velocità limitate.

Iniziai a rilassarmi un poco.
Forse, troppo presto.

Federico aveva imboccato
l' autostrada.
Dove mi stava portando?
Percorsi i primi chilometri, inizió ad aumentare di velocità e, di pari passo, aumentarono la mia tensione e i battiti del mio cuore, che pompava, sempre più forsennato.
Ad una curva rallentò.
Io ne seguì i movimenti, cercando di essere il più brava possibile.
Ne valeva la mia vita.

Di nuovo un rettilineo, riprese quota.

No, non lo fare, nooo...”, urlavo dentro.
Pregavo di uscirne illesi e, poi, l'avrei ucciso io.

La moto sembrava volare sull'asfalto.
La giacca di pelle, che avevo indossato, troppo corta, mi lasciava la schiena scoperta, con le correnti d'aria che mi sverzavano la pelle.

Ogni tanto davo uno sguardo al contachilometri.
Si, l'avrei ucciso.

La moto macinava strada.
Mi abbandonai ai miei pensieri.

Mamma sarebbe inorridita se mi avesse visto in quel momento.
Ordine, disciplina e razionalità erano stati i suoi insegnamenti quotidiani.
E io, che già di mio ero timida e introversa, ingabbiata in un corpo che m'ingombrava, ero stata un eccellente soldatino.
Abbandonate le marachelle dell'infanzia, mi ero impegnata nell'eccellere negli studi, avevo frequentato quei dati amici, non avevo mai dato grane.

Volevo fosse fiera di me.

Come un diligente robottino, avevo cercato di raggiungere quella perfezione che a lei era sfuggita, vinta da quell'acerba e travolgente passione che aveva portato i miei ad un figlio, mai nato, e a un matrimonio affrettato.

Mamma aveva amato papà.
E papà aveva venerato lei.
Erano stati due giovani affollati di sogni.
Ma le mille lucciole, che avevano colorato le loro notti, erano sbiadite innanzi all'incedere della cruda realtà quotidiana.

Mamma era diventata sempre più insofferente a una vita, a suo dire, mediocre, in un borghetto insignificante, che poco aveva da offrirle rispetto alla città da cui proveniva.
Papà era cambiato.

Il puzzle della nostra esistenza aveva iniziato a perdere pezzi, fino a sgretolarsi.

E poi... quel maledetto giorno!
Da allora, tutto era cambiato.
Io ero cambiata.

Avevo dato scacco matto ad ogni regola e intrapreso un cammino di sregolatezze.

La prima sigaretta e qualcosa in più. Ma l'esperienza era stata così sgradevole, che non l'avevo replicata.
I ritardi, volutamente, sempre più consistenti.
Le frequentazioni sconce.
E quel diploma, da poco preso, non a pieni voti... era stato il colpo di grazia che aveva sancito la mia disfatta agli occhi di mamma.

Cercavo di punire me stessa o più lei?
Le ruote correvano sull'asfalto e,  intanto, srotolavo la pellicola della mia vita.

A un certo punto, passammo attraverso tre gallerie, una dopo l'altra.
Poi, un'esplosione d'azzurro.

Federico rallentó e si fermó, accostandosi al guard-rail.

«Guarda!», mi disse indicandomi, con la mano, il panorama che si stagliava davanti ai nostri occhi.

Rimasi folgorata.

Sembrava che un pittore, magistralmente, avesse affrescato un nugolo di casette colorate, incastonandole tra cielo e mare.
Un maestoso castello s'ergeva su
un 'alta rupe, come un gigante che sorvegliava la costa.

«Che ne pensi?», mi chiese.

«Sembra il regno incantato delle favole.»

«E a te piacciono le favole?»

«Ora, non più.», risposi amara.

C' era una volta... così avevano inizio le favole della fanciullezza, anche quelle, un pó sgangherate, che
papà mi raccontava per rallegrarmi.

C'era una volta, una principessa, con una nuvola di capelli rossi e due occhioni brillanti e vispi, che viveva in un castello di vetro, addormentandosi sotto manti di stelle e svegliandosi baciata dal sole e, davanti agli occhi, tutte le bellezze del creato.
La regina, sua madre, con i crini color del grano e gli occhi due stagni cristallini, era bellissima e severa:
voleva che la giovane principessa imparasse a dovizia le regole di corte, affinché un giorno fosse un'ottima sovrana .
Il re viziava con balocchi l'amata figlioletta e organizzava per lei sontuosi ricevimenti, dove era sempre la più bella ed ammirata.

Un giorno,però, un malefico stregone gettó un oscuro sortilegio sul castello, rendendoli tutti schiavi e colorandolo di rosso vermiglio, in modo che ogni altro colore e ogni bellezza fossero negati ai loro occhi.

No, le favole non le piacevano più.

Chiara si rese conto che Federico la guardava assorto.

«Dai, andiamo, vediamo se riesco a farti innamorare di nuovo delle favole!» , le disse, con uno strano tono.

Quel ragazzo,che maldestramente aveva incrociato il suo cammino, poteva diventare importante per lei, entrare nel suo cuore e dimorarci se, ormai da troppo tempo, non lo avesse serrato a doppia mandata.

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