Capitolo 3

Chi entra nel deserto non può tornare indietro. Quando non
si può tornare indietro, bisogna
solo preoccuparsi del modo
migliore per avanzare.
(Paulo Coelho)

La polvere mi saturava i polmoni e un esercito di formiche sembrava mi ciabattassero addosso.

Uno starnuto. Poi un altro.

Ore d'intenso lavoro avevano dato il loro frutto: il pianoterra, dove mi ero accampata, era quasi lindo.
D'altronde, le stanze erano in ordine: solo che anni di abbandono avevano generato intrighi di ragnatele sui muri, alcuni un po' scrostati, e polvere assiepata  un po' ovunque.

Nonostante li avessi raccolti in una coda alta, i capelli mi si erano incollati  al collo, così come i vestiti formavano un tutt' uno con la pelle.
Anelavo una doccia.
Ma prima mi toccava finire.

Le note di "Dejà vu" interruppero la mia lena.
Maledetta tecnologia!

«Buongiorno, Olimpia.», risposi, al cellulare, tra lo stizzito e il rassegnato.

«Buongiooorno. Non ti sento affatto entusiasta di sentirmi.»

«Sapevo che mia madre ti avrebbe sguinzagliata al mio seguito. Del resto ti paga per questo.»

«Simpatica di primo mattino, eh?», non si era scomposta come al solito.
«Lei si preoccupa solo per te.», la difese.

«Lei si preoccupa solo di controllare la mia vita! Comunque, sto bene.», la rassicurai.

«E, dimmi: cosa stai facendo, ancora, lì?», mi chiese, arrivando dritta al punto.

«Al momento sto combattendo contro migliaia di acari. Tranquilla: non ho ancora bevuto, non ho fumato niente di che e non ho in programma nemmeno un'orgia.»

«Mmm... Se organizzi qualcosa di così interessante, chiama che mi metto in macchina e ti raggiungo.»

Inimitabile Olimpia.
Mai era arretrata dinnanzi alle mie provocazioni.
L' immaginavo capace di fermare una freccia al volo, prenderla per la punta e rispedirla al mittente, come nulla fosse.

Cercai di non ridere per non farle segnare il punto.

«Dunque?», tornó all'attacco.
Non era da lei mollare la presa.

«Cazzo, non so che ci faccio qui. Ogni giorno mi dico: domani parto. Ma poi non riesco a farlo, come se qualcosa mi trattenesse.
O, forse, qualcuno.
Olimpia, vorrei fare pace con nonno. Anche se só che è quasi impossibile.»

No, non si prevedeva facile come impresa.
Il suo odio per lei aveva attecchito nel suo cuore, in maniera prepotente, e
l' ambiente circostante non era d'aiuto .
La gente continuava a trattarla come un'appestata: i vicini si erano limitati ad un freddo saluto da lontano, scorgendola davanti casa, e proprio quella mattina, al supermercato,
una vecchia compagna di scuola aveva fatto strike con una pedana di merce in saldo, pur di non incrociarla.

«Chiara, non puoi combattere contro i mulini a vento. E, poi, penso che non dovresti rimanere da sola in quella casa!», mi disse.

«Sai, non mi piace quando fai il Grillo Parlante!»

«Neanche a me piace il Grillo Parlante, troppo saccente!»

Touchè. Ero stata ingiusta.
Olimpia non aveva mai cercato d'indirizzarmi nè si era mai scandalizzata al cospetto delle mie colpe.

Persa nell'oceano dei miei tormenti, era sopraggiunta come un marinaio esperto che mi aveva accompagnato e, ogni volta che avevo temuto di annegare, mi aveva messo il salvagente.

Tra noi, però, non aveva sempre funzionato così.

Ricordavo, perfettamente, il prologo al nostro primo incontro.
Giorni di estenuante guerriglia tra me e mamma, che voleva mi rivolgessi ad uno psicoterapeuta.
Le avevano parlato benissimo di una certa Olimpia Piras.

Andare da una strizzacervelli? Mai!

Non avevo messo migliaia di chilometri di distanza dalla mia precedente esistenza per, poi, finire a spiattellare le mie cose a chicchessia.

L' ennesimo processo, no!

Tuttavia, la sua petulanza aveva avuto la meglio sulla mia ostinazione.
Perchè mamma era urla e pianti.
Ti logorava cervello e anima, fino a farti cedere.
Quasi, sempre.
C'era stato un tempo in cui ci era riuscita magnificamente con me.

Ed eccomi, un giovedì di quasi un anno prima, nello studio di
quell' Olimpia.

Due poltrone, una scrivania, quadri sgargianti alle pareti... e lei: abbastanza giovane, minuta, una serie di piercing su entrambi i lobi delle orecchie.
Un accenno di tatuaggio faceva capolino dalla sua camicia semiaperta.

Dunque: non era vecchia, occhialuta e arcigna.
Non aveva due nasi e neppure un occhio solo.
Quasi, quasi, poteva piacermi: se non mi fossi ripromessa di darle del  filo da torcere.

Con fare indolente, avevo preso posto sulla poltrona di pelle nera che mi aveva indicato.

« Io non ho niente da dirti.»

«Bene! Hai trovato traffico mentre venivi da me?», mi aveva chiesto.

« Eh? Il solito.»
Che razza di domanda era quella?

« Sai, a differenza della maggior parte della gente, a me piace il traffico.
Mi dà modo di fermarmi a riflettere e, al contempo, m'incuriosisce osservare le persone mentre stanno in fila.»

Aveva avuto, così, inizio  il suo monologo.

«Giusto ieri una biondina si è affiancata alla mia Cinquecento: piede sull' accelleratore, un occhio al traffico e, intanto, armeggiava allo specchietto con il mascara.
Caspita! Mi sono domandata come ci  riuscisse. Io mi sbavo anche se lo faccio, comodamente, davanti allo specchio di casa. Lunedì scorso poi...»

E io, l'avevo ascoltata stralunata.

Parafrasando il primo tempo della nostra partita: io, da una parte, a fare catenaccio e lei, dall'altra, cercando di trovare un varco nella mia difesa e fare gol.

A che punto eravamo?
Forse, uno a zero. Per Olimpia.
E la partita andava avanti.

Mi riscossi.

« Sto bene, Olimpia, sicuro. Ho da finire, mi faccio sentire io.»

« Chiara non chiedere troppo a te stessa.», mi raccomandó.

«Tranquilla.», chiusi la comunicazione.

Ripresi la scopa che avevo appoggiato ad una parete.

Ero nel corridoio: guardai le scale che portavano su.
Rabbrividii.

Nota autrice: ero, talmente, abituata ai grandi tomi che leggo da aver dato vita a capitoli precedenti, forse, troppo lunghi per la lettura su questa piattaforma.
Quindi, per rendere la lettura "più leggera"e piacevole, da questo capitolo, in poi, ho deciso di ridimensionarli.

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