Capitolo 1
Talvolta è meglio perdersi
sulla strada
di un viaggio impossibile
che non partire mai.
(Giorgio Faletti)
Fissavo il suo sguardo lontano
cercando d'inseguirne i pensieri,
persi chissà in quali cunicoli.
Le rughe ne disegnavano pesantemente la fronte raccontando, quasi, un secolo di vita.
Ma a stridere con la conta degli anni ci pensava una massa straordinaria di capelli, che non si arrendevano ancora a cedere del tutto alla canizie.
Lo stecchino andava avanti e indietro tra i denti, in quel tic che lo accompagnava da quando vent'anni prima si era imposto di non fumare più.
«Nonno», lo chiamai. Non rispose.
«Nonno...», lo toccai a malapena su una spalla.
Lui si riscosse.
« Che vuoi?», mi chiese burbero, trafiggendomi con gli occhi, come se, per un istante, mi avesse riconosciuta.
Dolce non lo era mai stato, ma col tempo aveva ancor di più inasprito i modi e i toni.
«Dai, entriamo dentro, inizia a fare freddo.»
Mi guardò un attimo: pensavo avrebbe protestato.
Invece docilmente lasciò la sedia sul balconcino raso terra, dove trascorreva parte delle sue giornate, e si avviò dentro casa.
Io lo seguii.
I suoi passi erano lenti, un pó traballanti.
«Marta, hai messo le sementi a bagno? », mi chiese.
« Nonno...»
«Non ti arrabbiare se poi l'orto non ti viene come lo desideri.»
«Si, ho già provveduto.»
Il solito tonfo mi scavó il petto, in bocca l'amaro per quella bugia, una delle tante, che gli ripetevo oramai come un mantra.
Marta, la sua compagna di vita, era uscita da quella casa, nel suo ultimo viaggio, circa otto mesi prima.
E da quel giorno tutto era cambiato.
O meglio tutto era cambiato un pò di tempo prima, quando le nostre vite erano state sconvolte e avevano deragliato inesorabilmente.
«Ora preparo qualcosina e ceniamo.»
Silenzio.
Mi misi a frugare in frigo, presi quello che mi serviva e m'affaccendai ai fornelli.
Amavo quella stanza così piena di ninnoli sparsi su varie mensole e su ogni supercifie occupabile: nonna non si era risparmiata nel raccogliere un po' di tutto e metterlo esposto per casa.
Riempii la pentola d'acqua, sbucciai una patata e tagliai una zucchina... Mi piaceva cucinare per nonno, occuparmi di lui
O forse era il senso di colpa che me lo imponeva.
All'inizio non era stato facile.
« Cosa ci fai qui? Non ti voglio in casa mia!», aveva urlato quando ero tornata.
Mi aveva presa per le spalle e, con una forza che non credevo possedesse alla sua età, mi aveva trascinato alla porta.
Sapevo che non avrei trovato terreno fertile.
Avevo previsto la sua rabbia, avevo messo in conto il suo odio.
Ma dovevo restare.
Lui aveva bisogno di me.
Io avevo bisogno di lui.
***
Ero uscita di casa che ancora i raggi del sole faticavano a farsi strada nel cielo plumbeo.
Mamma non mi aveva neanche accompagnata alla stazione.
Avevo chiamato un taxi e, con un bagaglio raffazzonato in poco tempo, avevo chiuso la porta , senza neanche voltarmi indietro.
Mi spezzava il cuore vederla piangere, continuava a ripetermi di non andare, che non sarei stata la benvenuta: ma un tempo io avevo capito lei... ora toccava a lei capire me.
La sera prima, rientrando, l'avevo trovata a discutere al telefono.
«Nina,mi dispiace, sai che non è possibile. Non posso permettere che venga. Devo proteggere mia figlia...»
«Che succede, mamma?»
«Ci sentiamo, Nina» , aveva chiuso in fretta la conversazione.
« Tua nonna è morta.»
Ero rimasta pietrificata.
Nonna aveva avuto un infarto: non c'era più e io non potevo far finta di niente.
Dovevo ritornare, almeno per un ultimo saluto.
Mi affrettai a salire in carrozza: lo scomparto del treno era quasi vuoto quando presi posto. Mi misi gli auricolari nelle orecchie e finsi di essere assorta nell'ascolto: non avevo alcuna velleità di conversazione con chiunque avesse occupato i posti vicino a me.
E man man che il sole prendeva vigore, il treno sferragliava nel suo suo itinerario: tra soste e cambi di scenari, tra gente che saliva e che scendeva.
Qualcuno si sedette vicino e di fronte a me: rispondevo a monosillabi ai loro saluti ma niente di più, neanche li guardavo in faccia.
Continuavo imperterrita a rimirare fuori dal finestrino, come se il panorama e la musica che andava a palla negli auricolari, stessero assorbendo tutto il mio interesse.
Incominciai a intravedere squarci di mare abbarbicati a monti e più la meta si faceva vicina, più incominciavo a riconoscere i luoghi, più l'angoscia mi assaliva.
Cercavo d'immaginare cosa avrei fatto o detto. Ma niente era programmabile, tantomeno in quella situazione.
Guardai lo schermo del mio Huawei, mancava ancora più di un'ora
all' arrivo.
Posai il telefono in borsa e presi il libro che di getto vi avevo buttato dentro.
Finchè il caffè è caldo.
Me lo misi sulle gambe e ripresi a leggerlo, da dove l'avevo lasciato qualche sera prima. Ma la lettura non fluiva.
« Mi sa che quel libro è davvero
interessante.», sentì una voce dirmi, ironica.
Chi osava interrompere il mio esilio volontario?
Guardai quello sconosciuto, seduto nel sedile opposto al mio: un ragazzo alto, occhiali da vista, barbetta incolta... più o meno la mia età.
Ripresi a leggere o almeno finsi di farlo, ignorandolo.
«Ho letto recensioni contrastanti. C'è chi lo osanna, chi reputa la storia piuttosto banale. Poi mi chiedo: che senso abbia poter tornare nel passato se poi non si puó cambiare il corso degli eventi?»
Mi ostinai a non rispondere.
«Mi hanno spoilerato il finale...»
Non resistetti più.
«Scusa?»
Il tono era così glaciale che io, al suo posto, avrei intrapreso la via della ritirata. Ma non lui.
Con fare cospiratorio, si protese in avanti: « Se vuoi, ti dico come va a finire. Mentre leggevi sembravi così annoiata. Non può essere poi così orribile...Ti tolgo dall'impiccio di finirlo.»
Non ci vidi più : « Ma chi sei? Che cazzo vuoi da me? Chi ha chiesto il tuo parere? Cosa sai di quello che mi passa in testa? Ma... Ma... Ma...»
Più di una testa si giró verso di me.
"Mio, Dio, avevo dato di matto", mi resi conto.
Scoppiai a piangere. L'argine si era rotto. Prendendomi il viso fra le mani diedi sfogo a tutto il mio dolore, incurante del pubbico che assisteva alla mia disfatta.
Una mano mi accarezzó delicatamente i capelli.
« Shhh... Shhh... perdonami. Non ne combino mai una giusta. Avevo visto una ragazza carina, sola... e cercavo solo un modo per far breccia nel muro che ti eri eretta intorno. Sembravi quasi fatta di marmo.»
Alzai lo sguardo e, attraverso il velo delle lacrime, per la prima volta lo vidi, veramente: due profondi occhi nocciola mi scrutavano preoccupati.
« Non pensavo proprio che avresti reagito così, non mi era mai successo prima. Bastava che mi dicessi di farmi i fatti miei.» , mi sorrise, a disagio.
Intanto il controllore era giunto da noi: «Tutto a posto, signorina? Questo tizio, per caso la sta infastidendo?»
Paonazza, risposi di no.
«Sicura?»
Feci cenno di si con la testa.
Così com'era arrivato, se ne andò via.
«Che figura!»
Mi ero resa davvero ridicola.
«Beh, tra noi due chi ne esce peggio, mi sa che sono io. La gente mi sta guardando come se avessi quasi commesso uno stupro.»
Si, eravamo diventati oggetto d'interesse per gli altri viaggiatori, anche se in tanti si mostravano apparentemente occupati nelle loro cose.
« Scusa... Sono stata eccessiva ma oggi non è proprio un giorno bellissimo per me e...»
«E io sono stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»
« Già! »
Entrambi eravamo terribilmente a disagio.
Lui si chinó a raccogliere il libro, che nella foga mi era cascato a terra, e si sedette nella seduta accanto alla mia.
«Ricominciamo dall'inizio? Federico, al tuo servizio.», mi propose in maniera alquanto teatrale.
«Chiara.» , mi presentai a mia volta.
« Dunque, signorina Chiara, dove ti sta portando questo treno?»
« Sto tornando a casa, più o meno» risposi, senza specificare altro nè ricambiare la domanda.
«Allora, questo libro?» , continuó lui, indicando con un cenno del capo il tomo che ancora teneva tra le mani e deviando da domande che aveva ben intuito io non avrei gradito.
«Beh, per adesso sono solo arrivata a metà. Mi stuzzica l'idea di questa caffetteria dove basta sedersi su una sedia e sorseggiando un caffè si può riandare ad un momento particolare della propria vita. Ma, forse, hai ragione tu.»
«Sarebbe?», m'interruppe.
« Perchè farlo se poi non si possono cambiare le cose? O chissà, quando saró arrivata all'ultima pagina, riusciró a capirne il senso. E tu: non suggerire!», l'ammonii.
Lui alzó le mani sopra la testa:
« Lungi da me. Ci ho provato già una volta e mi é bastata la lezione. Ancora la gente mi sta fulminando con
gli occhi!»
Mea culpa, pensai.
« E tu, Chiara, se potessi entrare in quella caffetteria, dove vorresti andare?»
Riflettendo tra me e me, sarei voluta tornare a tanti momenti del passato ma alla fine uno prevalse su tutti.
« Io tornerei a quando giocavo a cavalluccio sulle ginocchia di mio padre. E tu?», gli chiesi fulminea, prima che indagasse oltre.
Lui si lisció il ciuffo sbarazzino e senza pensarci troppo:
« Io di certo riandrei al giorno in cui mi sono fermato davanti a quel dannato negozio di animali, circa otto mesi fa, e mi è venuta la malsana idea di prendere quell'orribile pincher per il compleanno di mia sorella! Stavolta tirerei dritto!»
«Ma non puoi farlo! Le regole... non puoi mutare ciò che è stato.», protestai.
« Oh, lasciami illudere di poterlo fare. La mia vita da allora è diventata un inferno. Quell'essere demoniaco sembrava così piccolo, indifeso. Mi ero detto: occuperà poco spazio, mangerà poco, sarà dolce, di compagnia... Invece appena apro la porta di casa mi salta addosso abbaiando come un ossesso, idem se mi siedo sul suo divano preferito. Ho le ciabatte a colabrodo e una volta ha perfino fatto la pipì nel mio letto, sicuro per farmi dispetto.»
Federico era davvero motivato nel mettere su l'impianto accusatorio contro la povera bestiolina.
Risi di gusto. E lui con me.
Continuammo parlando del più e del meno, senza dirci sostanzialmente niente di rilevante: concordammo che i Queen erano ancora supersonici, il sushi non incontrava i nostri gusti e il mare era meglio che la montagna.
Il mio telefonino suonó... ancora...e ancora.
Ci misi un'eternità a stanarlo tra le mille cose che creavano confusione nella mia borsa.
MAMMA,lessi sul display.
Appena vidi chi era, quasi quasi l'avrei rificcato dentro.
Le avevo mandato qualche messaggino durante il viaggio ma, ancora, non ci eravamo sentite.
"Su coraggio!", spronai me stessa.
Uno... due... tre...
«Ciao mamma... Tutto a posto... Tu?Sei rientrata dal lavoro?... Si... Si... Sono quasi arrivata... Non ti preoccupare... Non posso... Stai tranquilla, mamma...», alzai gli occhi al cielo e per un attimo guardai anche Federico, cercando di capire quanto stesse ascoltando di quella mia conversazione.
Ma lui aveva aperto il mio libro e sembrava non badarmi.
Intanto l'autoparlante annunció la nuova fermata.
Lo vidi alzarsi e andare a prendere un piccolo borsone dal portabagagli.
«Io sono arrivato. Alla prossima.», m'informó, mimando le parole con la bocca.
Voltò la schiena e s'incamminó ma poi sembró ripensarci, tornó indietro e...
Mi stampó un bacio sulla guancia.
Quindi si diresse all'uscita.
Io rimasi imbambolata.
Mi aveva spiazzata nuovamente.
« Chiara.Chiara. Chiaara...»,la voce sempre più stridula di mamma mi riportó alla realtà.
«Si, mamma...»
***********
«Il Signore è il mio pastore : non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me...»
La voce baritonale di don Rosario riempiva le mura della chiesa, così come la sua possente figura lo spazio dell'ambone.
« Ebbene, si, cari confratelli, nel giorno della dipartita della nostra cara sorella Marta, il cuore piange per la sua perdita ma abbiate consolazione: la morte non è la fine ma solo l'inizio. Nostro Signore, il buon pastore, è lì che l'attende, sulla strada dell'ultima solitudine, cammina con lei, guidandola per accompagnarla alla sua casa,per accoglierla alla sua mensa, in quella che è vita eterna...»
Io seguivo la commemorazione funebre in piedi, dal fondo di una delle navate laterali, quasi appiattendomi affinché nessuno mi notasse: non volevo che quel giorno si tingesse di curiosità o pettegolezzo.
La bara era ai piedi dell'altare, coperta di un semplice fascio di rose rosse: sopra la foto di nonna.
Con i suoi occhi di smeraldo sembrava quasi scrutasse ciascuno dei presenti: guardava, con tenerezza, nonno, che nel suo completo buono se ne stava seduto a spalle ricurve; guardava benevola zia Nina che, onnipresente, in nulla aveva mai mancato...guardava tutti coloro che presenziavano al suo commiato... fino ad arrivare a me e i suoi occhi, a questo punto, si riempivano di rimprovero.
Suggestioni.
Iniziai, silenziosamente, a piangere.
Per tutto il viaggio la morte di nonna era stata solo una sorta di astrazione per me ma ora quella bara, solinga in mezzo alla chiesa, dava concretezza alla sua perdita.
Si, avevo pianto dinnanzi a Federico. Per tanti motivi, tutti validi: nonna era morta, avevo litigato con mamma, stavo tornando lì, da dove ero andata via solo due anni prima e dove, forse, nessuno mi voleva.
Ora, peró, le mie lacrime erano solo per lei.
Riguardando la sua foto... vidi me stessa, proiettata settant'anni avanti.
Ero tale e quale a lei giovinetta: stessi occhi verdi, stessa chioma ramata, stesse burrosità, che crescendo avevo un po' levigato.
Un tempo avevo fatto a pugni con le mie sembianze: "Palla di carota" mi chiamavano i ragazzini del vicinato.
Li osservavo dal balconcino di nonna quando giocavano per strada: «Ciao...Ehi voi... ciaooo... Che fate? Posso giocare anch'io?», ma loro, puntualmente, o mi ignoravano o mi denigravano.
E un giorno nonna mi disse:
« Ricordati, oggi loro neanche ti salutano ma verrà il momento che si accorgeranno di te e, allora, sarai tu che ormai avrai imparato ad ignorarli.»
E così fu.
Sorrisi a quel ricordo.
"Nonna... Nonna... Nonna...", chiamava la mia mente, quasi ad evocarla, a risentere quella scia di sapone e talco che si lasciava sempre dietro.
O l'odore dei nostri biscottoni bruciacchiati.
"Farina, zucchero, uova, latte, ammoniaca...", ripassai mentalmente la ricetta che ci aveva viste impegnate in così tanti di quei pomeriggi: io che impiastricciavo e sagomavo, lei che infornava.
Nonna non era mai stata un animale da cucina ma ne sapeva, forse, un pochino più di mamma.
Mamma e nonna... nuora e suocera...un tempo complici poi sempre più lontane... ed io a fare da collante, tra loro, finché avevo potuto.
Persa nei miei pensieri, quasi, non mi accorsi che la celebrazione era giunta alla fine.
Don Rosario benedì la bara che venne portata fuori a spalla dai portantini. La gente si mise in fila per le condoglianze.
Dovevo uscire, prima che fosse troppo tardi.
La luce quasi mi accecó quando misi piede sul sagrato. Nonna era stata appena caricata sul carro funebre.
Mi avvicinai, il cuore era in fibrillazione. Allungai una mano che tremante toccó quella bara,così fredda, nonostante la calura della giornata.
«Nonna, ora perdonami tu. Perchè io ti ho già perdonato.», le sussurrai.
Si, c'era stato un periodo in cui avevo covato rancore: mi ero illusa che almeno lei avrebbe capito.
Invece, non mi aveva più parlato , non rispondeva alle mie telefonate e avevo saputo che era stata fatta espressa richiesta che nessuno facesse più il mio nome.
Da nipote preferita ( per lei che aveva sempre sognato una figlia femmina ma aveva avuto solo due figli maschi e nipoti maschi, prima che nascessi io) ero diventata l'Innominabile.
C'era voluto tempo ma alla fine avevo compreso: giusto lei, non poteva capire, perdonare.
Un'ultima carezza e andai via.
Non volevo affrontare nonno davanti a tutti.
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