In cerca di me stesso

Adam


Una voce lontana sussurrava. Era diafana, come se provenisse da un luogo recondito, ma il bambino si avvicinò come attratto da qualcosa che era inevitabile. Man mano che le distanze si accorciavano, le parole si facevano sempre più chiare e già brividi gli correvano lungo la schiena prima che egli potesse afferrarne il senso. La nenia lo investì appena prima che lui, pur consapevole di quanto stava per accadere, potesse evitarla:


L'uomo nero avanza lento,

Non è morto e vuole sangue;

Se lo chiama in un lamento,

Trai suoi artigli il bimbo langue;

nella notte cerca prede,

Se ti prende ti possiede;

Non dormire egli sa, prima o poi ti troverà.



Gli sfuggì un singhiozzo e poi, nel silenzio, avvertì di non essere solo. Un sussurro compiaciuto e quasi inudibile, un lieve sospiro e poi l'immagine di quegli occhi rossi come il fuoco e profondi come la notte. Come comparsi dal nulla, lo fissavano come se fosse tutto reale, ancora una volta. Cercò di ritrarsi, di scappare, e si rese conto di non riuscire a muoversi; perfino respirare sembrava fargli dolere i polmoni, avrebbe voluto gridare ma la voce era poco più di un sussurro perso nei propri ansiti. Qualcuno lo afferrò. Ancora quegli occhi: così calmi, così familiari, così inespressivi. Non poté fare a meno di perdersi in essi anche se sapeva dove lo avrebbero condotto. 

L'uomo giaceva a pochi metri da loro: le braccia spalancate come accogliendo il proprio destino, la schiena inequivocabilmente spezzata, gli occhi dilatati per la paura e l'orrore di quello che sentiva sarebbe accaduto, il volto pallido di chi vede sopraggiungere la morte... 

E il bambino alla morte teneva la mano. 

Si morse il labbro cercando di non pensare, di non guardare, di non udire quelle suppliche, quei lamenti e, infine, giunse il singulto ultimo di chi sente scorrere tra le dita ciò che rimane dell'esistenza terrena. Lei non lo teneva più ma ugualmente il piccolo non aveva la forza di reagire. Un verso di puro compiacimento, una mano sporca di sangue a chiamarlo col desiderio di farlo partecipare a quel lugubre pasto e ancora quella canzone...

Ancora avvolto dalle spire del sonno, caddi pesantemente dal letto, ma l'abilità che da sempre posseggo mi venne in soccorso. Atterrai sugli avambracci evitando di provocare rumore. La morbida moquette attutì ulteriormente l'impatto col mondo reale. Respirai profondamente mentre la collera mi pervadeva, e colpii con foga il materasso. Piccole gocce di sudore mi bagnavano i capelli, me li scostai indietro con la mano, con violenza, digrignando i denti per la rabbia. 

Era successo di nuovo. Avrei voluto, almeno per una volta,che il mio corpo potesse provare davvero il dolore che quei sogni mi davano. Almeno in quel modo avrei espiato le colpe che sporcavano la mia anima, mi dissi alzandomi. Quella nenia mi riempiva ancora la testa non lasciando spazio ad altro: una presenza ossessiva che avrei voluto dimenticare per sempre e che invece, ogni notte, tornava a tormentarmi. Quelle parole, quelle immagini, ogni volta, sapevano straziarmi come artigli arroventati piantati nel cuore, facendomi sanguinare laddove il mio essere diverso non poteva salvarmi. Uscii nonostante fossero le due del mattino. In fondo non aveva senso restare a casa e fingere di dormire per l'ennesima volta. Di tanto in tanto lo avevo fatto per compiacere mia nonna, ma quella notte era stato tutto troppo reale: avevo bisogno di distrarmi.

L'aria fredda non era diversa da quella degli altri momenti di solitudine passati a Greensbury, ma come ogni volta parve rinvigorirmi e purificarmi. Il fatto di dormire solo tre ore a notte era frustante, ma prendevo tutto come una giusta punizione per i miei peccati. Sorrisi, pensando a quella parola che poco si addiceva alle mie labbra contaminate dalle tenebre, ma avanzai scuotendo la testa. Il freddo doveva essere pungente, considerai, osservando il velo di umidità cristallizzata che copriva ogni superficie, ma per me era solo un lieve fastidio,quasi piacevole dopo che quei flash erano tornati. Mi fermai sollevando il capo, le mani in tasca e guardai il nero fitto della notte. Qualche fiocco di neve sciolto mi bagnò il viso e, al contatto con la mia pelle fredda, parve mantenere ancora un po' la sua lieve consistenza. 

Scossi la testa, infastidito. Persino il piacere di quelle temperature invernali mi era negato. Avrei voluto essere normale, riflettei per la milionesima volta da quando la mia vita era cambiata, ma sapevo che questo non sarebbe mai accaduto. Arrivai ai parchi pubblici in poco tempo, nonostante non distassero poco da casa e, solo allora, mi resi conto di avere corso troppo velocemente per un ragazzo di diciassette anni. Forse avevo corso troppo per un qualunque essere umano, considerai stendendo le braccia come per sgranchirmi. Se qualcuno avesse visto il modo in cui ero arrivato mi avrebbe definito un mostro e non avrebbe avuto tutti i torti. Saltai il cancello per entrare. Anche quello mi risultò estremamente semplice, ma ormai non ci facevo più caso.

Camminare in quei luoghi avvolti dal buio e dall'umidità sembrava ridestarmi. Mi rifugiavo qui sin da quando la contea di Guilford era diventata lamia nuova casa; in fin dei conti, tutti abbiamo bisogno di restare da soli, ma se quel bisogno si protrae per buona parte della giornata la cosa si rivela complicata. 

Conobbi mio padre quando avevo cinque anni, il resto della mia vita l'avevo passata con mia madre, anche se mi risultava difficile pensare a quegli anni come ad una vita e a lei come una mamma. Tutto sembrava sbagliato quando pensavo a lei, persino in quel momento in cui avevo ricominciato. Era come avvertire una nota stonata in un'opera pressoché perfetta e sapere con sicurezza assoluta che quell'imprecisione veniva da una parte di te, una parte che non si poteva dimenticare. Gli anni da allora erano trascorsi con una lentezza che mi sembrava infinita, ma mi avevano insegnato ad apprezzare quello che per tutti gli altri appariva scontato: l'importanza di avere una vera famiglia.

Arrivai a Greensbury una sera di autunno. 

Mia madre mi aveva allontanato perché non riuscivo ad essere come lei. Credeva che trovandomi da solo avrei lasciato che il mio istinto animale prevalesse, ma non fu così. Ero solo un bambino ma ero molto più umano di quanto lei non lo fosse mai stata. So quello che accadde prima della mia nascita, me ne aveva parlato molte volte, quasi con orgoglio, ma io non lo avevo mai accettato. Sapere che lei aveva rinunciato di sua iniziativa a quello per cui io avrei dato tutto mi rendeva difficile persino starle accanto. Ero piccolo ma avvertivo già il dolore per quello che mi aveva fatto, conducendomi attraverso la propria pazzia. 

Scappai. Incredulo del fatto di essere finalmente libero, mi allontanai da quello che oramai ritenevo solo un guscio vuoto, un mostro che mi aveva sacrificato per egoismo. Memore di ciò che lei mi aveva raccontato di mio padre, cominciai a cercarlo. Era stato costretto a lasciarci quando la follia di mia madre era divenuta evidente e lei lo aveva minacciato di uccidermi prima di sparire nel nulla. L'aveva cercata a lungo nel tentativo di riportarla alla ragione, ma lei era ferma nelle proprie scelte e convinta di poter avere l'eterna giovinezza. Non voleva un marito, non un figlio, non una vita da adulta. Scelse di avermi solo per ottenere ciò che realmente desiderava. 

Si allontanò per sempre da lui continuando a frequentare coloro che prima o poi le avrebbero donato con la morte l'eternità che tanto aveva agognato. Questa sua scelta aveva segnato per sempre anche la mia vita e, per questo, non la odierò mai abbastanza. Forse dovrei anche ringraziarla. Senza di lei non avrei un modo per difendermi e per vendicarmi per quello che mi ha fatto. La sua assenza, i vuoti incolmabili che ha lasciato, il suo non amarmi anche quando avrebbe potuto, la sua perenne indifferenza sembravano avvolgermi e costringermi a guardarmi sempre con occhi diversi: gli occhi di un mostro. 

Continuai ad avanzare con noncuranza. Il cielo, lasciando spazio ai primi raggi di sole, aveva ormai assunto le sfumature rosate che precedono l'alba, quindi mi diressi verso casa. Questa volta mantenni un'andatura normale; a quell'ora qualcuno avrebbe potuto notarmi davvero se fossi passato come un razzo senza indossare neanche i pattini. 

Arrivato fuori casa tutto sembrava tacere, la fortuna girava dalla mia, probabilmente dormivano ancora. Guardando con aria perplessa la mia finestra, decisi di avventurarmi in una scalata fuori programma. Non fu semplice salire come un normale essere umano, ma dovevo salvare le apparenze, quindi mi aiutai con i rami della quercia che cresceva fuori della mia finestra. 

Entrai di soppiatto sfilandomi la felpa e continuando con le scarpe, poi un colpetto di tosse mi fece sobbalzare «Adam Connely, dove sei stato... ancora?».Mi voltai con un'aria che doveva sembrare quella di un ladro preso con le mani nel sacco, mentre ancora tenevo tra le mani un piede nel tentativo di sfilarmi quella maledetta scarpa. 

«Non riuscivo a dormire» risposi d'impulso rinunciando all'impresa e mettendomi seduto. 

Alzandosi dalla sedia sulla quale si era accomodata per aspettarmi, mia nonna mi venne incontro «Non mi piace svegliarmi e non trovarti nel tuo letto. Quando accade, penso che potresti non tornare. Non potrei sopportare un'eventualità del genere Adam, non voglio». Il rimprovero fu seguito da uno sguardo colmo di rammarico che mi fece stringere il cuore. 

Abbassai gli occhi «Non hai paura che possa diventare come loro?» domandai, senza pensare, pentendomene subito. Mani forti e rugose mi presero il viso costringendomi a guardare in quegli occhi verdi che tanto somigliavano ai miei. 

«Non dirlo mai» disse stringendo leggermente la presa come per farmi sentire che era seria «Adam, tu hai fatto la tua scelta quando non avevi ancora sei anni. Sei stato forte sin da allora, hai lottato. Non potrei mai credere ad un tuo cambiamento neanche se lo vedessi con i miei stessi occhi. Ho fiducia in te» mi disse allontanandosi. Mi conosceva talmente bene da sapere che in quel momento non ero in vena di abbracci. Mi lasciò, solo affinché mi preparassi per la scuola «Sbrigati se non vuoi che le frittelle si raffreddino!» gridò dal fondo delle scale mentre l'uscio ancora si chiudeva dietro di lei. Avevo bisogno di una doccia. 

Mi liberai degli indumenti che ancora indossavo e andai in bagno. Lanciai prontamente un asciugamano sullo specchio per non vedere quello che mi avrebbe mostrato. Il fisico asciutto ma muscoloso, come pronto a scattare, gli occhi di un verde intenso in netto contrasto con i capelli scuri e la pelle leggermente diafana che rappresentava la nostra razza non erano quello che al momento mi avrebbe reso la giornata migliore.


«Spero ci sia il caramello» dissi scendendo svelto le scale mentre lei ancora si destreggiava tra i fornelli.  «Io eviterei di fare richieste!» mi rispose con aria di rimprovero ma senza voltarsi, mentre agitava in aria la spatola con fare autoritario. Mi sfuggì una risatina e lei si voltò a guardarmi sollevando un sopracciglio. 

Nonna Keith era una donna non molto alta e con fisico snello. Aveva un aspetto curato e capelli castani leggermente mossi. Sembrava trovare energie per qualunque cosa le venisse proposta e senza di lei, probabilmente, la nostra casa sarebbe caduta a pezzi da tempo. Non capivo ancora dove trovasse il tempo di tingersi le unghie delle mani con tanta meticolosità, ma fatto stava che esse cambiavano colore più in fretta del cielo mattutino al sorgere del sole. 

Passi frettolosi echeggiarono lungo il corridoio mentre mio padre si dirigeva a sua volta verso le scale. La nonna mi fissò sollevando un sopracciglio «Se non vuoi che t'investa ti conviene spostarti Adam. Lo sai quanto è imbranato Steven quando va di fretta e non vorrei trovarmi con un nipote pesto e un figlio zoppo ancora prima di cominciare la giornata» concluse mentre mio padre faceva la sua comparsa in cima alla rampa sistemandosi i capelli biondo scuro nel riflesso delle foto appese al muro. Indossava una delle sue solite camicie di flanella, chiusa male per la fretta, un paio di jeans consumati e gli scarponi da lavoro. «Lo trovate molto divertente voi due?» chiese facendo i gradini due alla volta e baciando la nonna sulla guancia prima di uscire col sacco del pranzo. Lei mi rivolse un sorriso accompagnato da uno strano verso, come di uno schiocco di lingua. Lo faceva sempre quando voleva togliersi dall'imbarazzo e, quando riceveva baci da noi, era uno di quei momenti.

Il mio sguardo si fissò sulla porta. Spesso mi chiedo come mio padre mi veda. 

Per fortuna gli somiglio molto ma i capelli neri come la notte che mi ritrovo sono uguali a quelli di mia madre. Non credo si sarebbe mai aspettato di vedermi ricomparire alla sua porta dopo cinque anni di nulla assoluto, ma nei restanti dodici anni che sono seguiti alla mia comparsa, credo che la sua diffidenza nei miei confronti si sia placata. Non è semplice lasciare andare qualcuno e poi doverlo accettare nella tua vita quando sai che in parte non è più quello che avrebbe dovuto essere. Un mezzo demone non è pericoloso quanto uno completo, certo, ma la sua ira può essere altrettanto distruttiva. Se non fosse stato per mia nonna, probabilmente mi avrebbe rispedito da mia madre o mi avrebbe fatto rinchiudere in un luogo sicuro eppure, ora, eccomi mangiare al suo tavolo. 

Mi voltai avvertendo lo sguardo indagatore del mio grillo parlante e sollevai l'angolo destro della bocca in un lieve sorriso. «Cosa ne penseresti, se un giorno ti chiedessi per colazione un bel cuore pulsante?» domandai addentando con gusto una delle sue squisite frittelle ricoperte di mou. Lei mi lanciò un'occhiata in tralice «Ti direi che hai dei gusti pessimi» rispose mettendosi a sedere. Scossi la testa alzandomi e prendendo la felpa «Sai, se non fossi sicura di quanto mangi ti farei controllare da un medico» disse corrucciando le sopracciglia «Dove lo metti tutto quel cibo?» mi chiese osservando il modo in cui i jeans nuovi mi cadevano sugli stivali senza trovare neanche un po' di ciccia su cui fermarsi. Effettivamente non ingrassavo per niente e non dovevo fare palestra per migliorare il mio fisico che appariva già allenato. Dovevo avere un metabolismo diverso ma questo per una volta giocava a mio favore. Le strizzai l'occhio, quindi uscii.


«Ehi Gregory, vai a scuola?». Sentirmi chiamare in quel modo mi fece ribollire il sangue e, per un attimo, avvertii il battito del mio cuore rallentare fino al limite estremo. Fui costretto a respirare profondamente per impedire che la parte di me che odiavo venisse allo scoperto in pieno giorno e, quando mi voltai, glaciale, me lo trovai accanto. 

«Se proprio devi seguirmi chiamami Adam» gli dissi riprendendo a camminare come se non esistesse. Mat incassò la testa tra le spalle come se la cosa per lui fosse irrilevante. Si era trasferito in città alla fine dello scorso anno scolastico e, abitando nella casa accanto alla mia, da allora non faceva altro che ronzarmi attorno. Aveva sedici anni, altezza media, capelli castani leggermente scompigliati come se per lui la spazzola fosse un oggetto senza significato, fisico asciutto e occhi castani. Amava vestirsi con abiti di almeno due taglie più grandi e qualche volta dava l'idea di perdersi nei suoi stessi ragionamenti, ma per il resto era il classico ragazzo della porta accanto. Non poteva dirsi propriamente bello, ma molte ragazze lo ritenevano interessante. Se non fosse stato per la sua eccentricità, probabilmente, non avrebbe avuto difficoltà ad integrarsi con i suoi coetanei, eppure insisteva nel volermi frequentare... e ad indossare delle magliette idiote. Non capivo cosa ci trovasse di emozionante nell'andare in giro con uno come me, forse non lo capiva neanche l'intera città e, a parte ignorarlo e sperare che si arrendesse da solo, non potevo fare altro. 

«Non capisco perché tu preferisca farti chiamare Adam...» mi disse mentre mi irrigidivo. Ogni volta che partiva alla carica era come dover resistere all'attacco di una mandria di bufali inferociti; persino il mio solito modo di estraniarmi dal mondo non riusciva a tenerlo fuori dalla mia testa. Mat non provava mai a tenere le cose per sé e, anche se non glielo si chiedeva, esternava sempre e ovunque i propri pensieri. «...trovo che Greg...» le parole gli si strozzarono in gola mentre lo afferravo per il bavero della felpa con la mano libera e quasi lo strozzavo sollevandolo da terra. «La mia non era una richiesta Mathew Burns» gli sussurrai in quello che mi parve quasi un ruggito mentre lo lasciavo di scatto. 

Ero sicuro quasi al cento per cento che nel dar sfogo alla mia rabbia, qualcosa del mio essere diverso fosse trapelato, ma al momento la cosa non m'interessava. Non avrei consentito a nessuno di chiamarmi con lo stesso nome di colui che aveva ucciso mia madre e trasformato me in ciò che ero, mai.

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