Il nuovo sceriffo


Il nuovo sceriffo non era un granché. Mi aspettavo un pezzo d'uomo, alto, con una mascella squadrata e un paio di baffi folti come le setole di un pennello da barbiere. Invece quello al quale mi ritrovai a stringere la mano non sembrava neanche avere l'età per bere. Be', forse esagero. Ma non aveva un pelo sulla faccia e sbarbato com'era dimostrava meno anni di quanti ne dichiarava. Molti in città avevano avuto la stessa impressione e quando mi disse di averne venticinque, pensai che era fortunato se avesse avuto il tempo di appuntarsi al petto la stella prima di finire lungo disteso in una cassa da morto.

A quel tempo San Miguel era un porto di mare per fuorilegge. Svaligiavano banche, rapinavano diligenze e poi venivano a nascondersi in casa nostra. Un buco di città al confine col Messico offre vantaggi che altri posti neanche si sognano. Per dirne una, se i ranger vengono a romperti l'anima ti basta aprire la porta di casa che ti ritrovi con un piede in Messico, lontano dalla loro giurisdizione.

Già due sceriffi erano finiti sottoterra, e come rimpiazzo ci mandavano uno sbarbatello allampanato che sembrava dover volare via in uno sbuffo di vento. E uno così avrebbe dovuto tenere alla larga i fuorilegge? Sarebbe stato come il letame per le mosche. Li avrebbe attirati tutti in città.

Non che ne fossimo sprovvisti. Ce n'erano tre che alloggiavano in altrettante case. Uno stava da Pedro Ramirez. Era arrivato due settimane prima che il nuovo sceriffo si insediasse e non sembrava voler schiodare tanto presto. Un altro si era infilato dagli Hernandez. Gli Hernandez avevano una fattoria e quel bastardo di un messicano aveva messo Luiz Hernandez a dormire con i porci, mentre lui si coricava con Inès Hernandez tutte le notti. Quando la mattina usciva dalla stalla, Luiz aveva sempre due cerchi viola intorno agli occhi. Quel povero diavolo ci provava a difendere le virtù sotto la gonna della moglie, ma quel messicano era grosso come una botte da duecento litri.

Poi c'era Chavez. Stava a casa di Miguel Torres ed era loco come un coyote con la bava alla bocca. Ti bastava guardarlo negli occhi per capirlo. Un bastardo come quello è difficile da trovare quanto un diamante in una miniera.

Quando il ragazzo prese posto alla sedia che era stata dello sceriffo Ruiz, e di Lopez prima di lui, ero sicuro che non sarebbe durato neanche mezza giornata. Quei tre l'avrebbero fatto secco alla prima buona occasione.

«Com'è che funziona da queste parti?» mi chiese lo sbarbatello allungando i piedi sulla scrivania.

«Non capisco», risposi.

«Ho una fame che mangerei un vitello intero.»

«Al saloon di Lola servono da mangiare.»

Tirò via i piedi per metterli in terra. «Che stiamo aspettando?» disse alzandosi.

Lo accompagnai al saloon. Quando entrammo si voltarono tutti a guardare. Riconobbi il tizio che stava a casa di Pedro Ramirez. Avrei voluto avvertire il ragazzo ma non ne ebbi il tempo. Aveva il passo più svelto del mio e lo stomaco che gli brontolava, ed era già seduto prima che potessi aprire bocca. Il Guercio intanto l'aveva notato e gli teneva quegli occhi d'avvoltoio appiccicati addosso.

Notò la stella appuntata sul petto magro e si mosse nervosamente sulla sedia. La mano scese lenta lungo il fianco e si fermò sul calcio del revolver. Tirò via il laccio attorno al cane. Un tizio che gli sedeva di fronte si alzò e uscì in tutta fretta senza mai girarsi. Io ero lì, immobile come un totem. Me la stavo facendo sotto. Vidi quel bastardo alzarsi, attraversare il saloon e portarsi alle spalle del ragazzo.

Quello sbarbato era impegnato a richiamare l'attenzione di Lola e non si era accorto di niente. Il Guercio gli arrivò dietro. Mise mano al calcio del revolver ma poi si fermò di colpo. Lo vidi abbassare gli occhi. Seguii il suo sguardo e mi accorsi che il ragazzo aveva già estratto la sua pistola.

Il Guercio allontanò lentamente la mano. L'occhio buono guardava incredulo. Anche i miei due, se è per questo. Il ragazzo continuava a richiamare l'attenzione di Lola, una mano sollevata oltre il cappello mentre con l'altra teneva la pistola, il pollice sul cane.

Il Guercio fece un passo indietro. Poi, come per un ripensamento, serrò le dita intorno al calcio del revolver. Il ragazzo armò il cane della sua Colt e fu allora che mi convinsi che avesse gli occhi anche sulla nuca.

Il Guercio mollò subito la presa e, porca puttana, arretrò. Non riuscivo a credere a quello che vedevo. Il ragazzo non si era mai voltato, eppure aveva dato l'impressione di sapere esattamente cosa accadeva alle sue spalle. Vidi con questi occhi quel grosso figlio di puttana dall'occhio ballerino tornare a sedersi con la coda tra le gambe. Solo quando ebbe messo le chiappe sulla sedia, il ragazzo disarmò il cane della sua arma.

Lola arrivò e si capiva che non si era accorta di niente, perché accolse il nuovo sceriffo con un sorriso civettuolo e gli chiese cosa potesse servirgli.

Io ero ancora fermo poco oltre i battenti. Un tizio entrò e mi disse di levarmi dai piedi. Solo quando mi urtò, mi risvegliai. Feci qualche passo e il ragazzo si girò, facendomi segno di raggiungerlo. Io lanciai un'occhiata al Guercio. Era seduto e guardava in cagnesco l'ultimo arrivato in paese. Le mani erano lontane dal cinturone e questo particolare mi convinse che il peggio era passato.

Raggiunsi il ragazzo e sedetti con lui. Lola tornò dopo poco con una bottiglia di vino e un piatto di fagioli.

«Ora si ragiona», disse il ragazzo, sfregandosi i palmi. «Vuoi unirti a me?» mi chiese.

Feci segno di no con la testa. Ero ancora rintronato da quello che avevo visto per riuscire a parlare.

«Come ti pare», disse e iniziò a spazzolare il piatto.

Lola tornò con mezzo pezzo di pane. Il ragazzo lo fece fuori assieme al resto. Ricordo che pensai: ma dove diavolo trova lo spazio per farcelo stare?

Era magro come un chiodo, un fuscello che a soffiarci sopra sarebbe rotolato via assieme ai cespugli di sterpaglia portati a spasso dal vento.

Mise in bocca l'ultima cucchiaiata di fagioli e lasciò cadere la posata nel piatto.

«Sono pieno come una botte», disse tenendosi il ventre con entrambe le mani.

Si versò un bicchiere di vino e lo buttò giù tutto d'un fiato. Ruttò.

«Amico mio, non sai cosa hai perso», mi disse.

L'unica cosa che sapevo era che lo spettacolo di quella sera mi bastava e avanzava.

Il ragazzo chiese a Lola quanto le dovesse. Lei rise come una sgualdrina, facendo gli occhi dolci. «Offre la casa, come regalo di benvenuto», disse nascondendo il sorriso dietro la mano.

«Troppo gentile», disse il ragazzo.

Ricambiò il sorriso, si toccò la tesa del cappello e si congedò. Il Guercio gli tenne gli occhi sulle scapole tutto il tempo, un ringhio silenzioso appiccicato alle labbra spellate. Quando il ragazzo uscì, si mosse per andargli dietro. Uscì in strada. Udii due voci che si scambiavano complimenti, poi uno sparo. Lola sussultò lasciandosi cadere un bicchiere che toccò terra, andando in mille pezzi. Per quanto mi riguarda, mancò poco che me la facessi addosso.

L'eco dello sparo non si era ancora dissolto che i battenti del saloon si spalancarono ed entrò il ragazzo. Aveva una faccia scura, totalmente l'opposto di quella che gli avevo visto fino a quel momento. Puntò i suoi occhi freddi su di me e sentii il buco del culo farsi più stretto.

«Serve una cassa, dove lo trovo il becchino?» mi domandò.

«Io...» balbettai. Inghiottii e riprovai. «Tre baracche più giù.»

Fu tutto quello che riuscii a dire. Il ragazzo girò i tacchi e lasciò il saloon. Mi ci volle un'eternità per trovare il coraggio di alzarmi e andare a vedere. Quando uscii in strada, Juan Domingues stava arrivando col suo carretto, trainato dal mulo più brutto che si fosse mai visto, e una cassa di legno sul retro.

Il ragazzo sorvegliava il corpo del Guercio.

«Ho dovuto farlo», disse quando mi vide. «Voleva farmi la pelle.»

«Nessuno verserà una lacrima», lo rassicurai.

«Dovrò comunque scrivere una dichiarazione giurata in cui affermo di aver agito per legittima difesa.»

«Se le serve una croce alla fine, sarò felice di mettergliela.»

«Sarebbe d'aiuto.»

Earl e il ragazzo sistemarono il corpo nella cassa e Juan lo portò via. Il ragazzo gli disse di portarlo al cimitero.

«Pagherò io per la sepoltura», disse e il broncio di Juan, che già pensava di lavorare per un pugno di mosche, si distese.

Mostrò al ragazzo il suo sorriso sdentato e spronò il mulo.

«Mica male come primo giorno», disse il ragazzo.

Sorrise appena. Avrei voluto chiedergli perché accidenti pagare per seppellire quel bastardo quando si poteva lasciarlo agli avvoltoi come mangime, che poi sarebbe stata la fine più appropriata per il Guercio, ma tenni la bocca chiusa.

Aveva le sue ragioni, qualunque fossero, e io non ero nessuno per metterle in discussione. E se proprio devo essere sincero, iniziavo ad avere paura di lui. La trasformazione da ingenuo ragazzo a freddo killer che avevo visto mi aveva congelato la lingua. E chiunque conosca un pelo questo vecchio, sa che non è cosa facile metterlo a tacere.

La notizia della fine prematura del Guercio fece presto il giro di ogni baracca. Un paio di giorni dopo, il messicano rifugiato dagli Hernandez venne a cercare lo sceriffo. Me lo vidi passare davanti mentre andavo al saloon. Mi fermò, mettendomi una mano enorme sulla spalla e costringendomi a guardarlo.

«So che sei amico di quel hijo de puta di sceriffo», mi abbaiò in faccia.

Aveva l'alito che sapeva di mescal. Nella barba folta e arricciata erano impigliate briciole di pane.

«Sto andando ad ucciderlo. Potrai andare a trovarlo al cimitero, sempre se non schiatti prima di sera.»

Mi lasciò andare e proseguì. Lo guardai camminare a passi pesanti. Si dirigeva verso l'ufficio dello sceriffo. E quei due cinturoni incrociati sul petto e i revolver nelle fondine mi dicevano che non aveva intenzione di offrire da bere al ragazzo.

Si fermò sotto l'insegna che recitava UFFICIO DELLO SCERIFFO.

«Cabron!» urlò verso la porta. «Vieni fuori!»

Non si mosse nulla per parecchio, poi la porta si aprì. Il ragazzo venne fuori. Aveva un Winchester in mano, ma non è che facesse poi tanta paura. Quell'affare sembrava troppo grande in mano a uno magro come lui. Di colpo mi sembrò di nuovo giovane e inesperto.

«Sono venuto a vendicare il Guercio», ringhiò il messicano.

Era una montagna d'uomo. Il ragazzo al confronto spariva. Avrebbe potuto sparire nello spazio fra due assi per tanto che era magro.

«Mi dispiace per il tuo amico, ma se l'è cercata», disse il ragazzo.

La voce era ferma. Il messicano vibrò di collera a quelle parole. Mi dissi che la fortuna di quello sbarbatello era già finita prima di cominciare. Si guardarono. Gli occhi del ragazzo erano di nuovo duri come pietre. Socchiuse le palpebre appena. Teneva il fucile con la sinistra ma non lo puntava contro il messicano. Pensai che non ce l'avrebbe mai fatta a sparare prima del suo avversario. Nel tempo che avrebbe impiegato a prendere la mira, l'altro avrebbe estratto e sparato.

Il messicano sfilò i revolver e sparò. Una pioggia di piombo sforacchiò la porta ancora aperta mentre il ragazzo si buttava di lato, rotolava e pancia a terra sparava. La voce del Winchester superò quella dei due revolver. Tuonò una volta sola. Il messicano si accasciò sulle ginocchia. I revolver gli sfuggirono dalle mani. Lo vidi crollare come il grosso sacco di merda che era e restare immobile, riverso nella polvere.

Il ragazzo si alzò e si avvicinò al messicano. Si toccò la nuca e sospirò. Alzò lo sguardo e mi vide.

Ci guardammo senza parlare. Non c'era bisogno di dire nulla. Quel maiale aveva finito i suoi giorni come meritava, al pari del suo compare. Gli Hernandez avrebbero ripreso a vivere. E tutto grazie a quel ragazzo svelto di mano.

Iniziai a volergli bene.

«Andresti a chiamare Juan?» mi chiese.

«Nessun problema», dissi. «E se le serve una croce in fondo a quelle chiacchiere giurate, basta un fischio.»

Mi fece segno di sì con la testa e vidi il fantasma di un sorriso apparire su quelle labbra sottili. Andai a chiamare Juan. Quell'uccellaccio del malaugurio arrivò di gran carriera. Quando vide il messicano si accigliò. Prese a masticarsi le gengive sprovviste di denti.

«Mi sa che devi farne una extralarge per questo», dissi.

Juan mollò una scaracchiata e prese a grattarsi la testa.

«Vi do una mano a caricarlo», dissi.

In tre riuscimmo a metterlo sul carretto, di fianco alla cassa nella quale non sarebbe mai entrato.

Guardammo Earl tornarsene a casa.

«Ha fatto un favore a tutti spedendolo all'altro mondo», dissi al ragazzo. «Gli Hernandez gliene saranno riconoscenti per sempre. E anch'io.»

Il ragazzo mi guardò, sorpreso.

«Da quando quei tre sono arrivati, questa città è diventata un inferno. Ma ora che c'è lei, forse abbiamo una speranza.»

Il ragazzo non fiatò.

«Ce n'è ancora uno, ed è il più pericoloso. Appena saprà che ha tolto di mezzo gli unici due che gli guardavano le spalle, verrà a cercarla.»

«Mi troverà nel mio ufficio, in compagnia di un bicchiere di mescal

Mi girai a guardarlo, scuro in volto. «Stammi a sentire, Chavez non è come gli altri due che hai spedito al Creatore. Quell'uomo è bacato nel cervello. E da uno così non sai mai cosa aspettarti.»

«So badare a me stesso», disse, ma capii che sotto quei modi da smargiasso c'era un ragazzo spaventato.

«Sei svelto e sai sparare meglio di chiunque io abbia mai visto, devo ammetterlo, ma non prenderlo sottogamba. Faresti l'errore più grande della tua vita. È stato Chavez a fare fuori i due che c'erano prima di te.»

Il viso del ragazzo non tradì alcuna emozione. Lo sguardo era teso verso l'orizzonte. Il sole si immergeva oltre la linea tesa di deserto. L'arancio del tramonto incendiava la città. Sentii un brivido percorrermi la schiena. Ebbi paura. Paura per il ragazzo. Era giovane, aveva ancora tutta una vita davanti e anche se aveva mostrato grandi abilità da pistolero, restava pur sempre uno sbarbatello. Chavez pascolava su questa terra da molto più tempo. Aveva mandato tra le schiere degli angeli più anime di quante qualunque pastore avesse redento. E per di più era completamente svitato.

Il ragazzo era svelto, bisognava riconoscerglielo, ma anche Chavez non scherzava.

«So badare a me stesso», ripeté il ragazzo.

Girò i tacchi e si rintanò nel suo ufficio.

Al diavolo, mi dissi. La pelle è tua.

Ma il pensiero di Chavez che andava a cercarlo per vendicare quei due brutti ceffi non mi dava pace. Quella notte la passai a rigirarmi nel letto. Pensavo a un modo per aiutarlo, ma cosa potevo fare io, un vecchio artritico che non vedeva più in là del suo naso? Cosa potevo fare contro uno come Chavez, svelto di mano e ancor più svelto di cervello?

Se avessi avuto dieci anni di meno... senza la maledetta artrite e questi occhi malandati avrei potuto sparare, e in due avremmo forse avuto la meglio su quel serpente a sonagli.

Restai sveglio ad aspettare l'alba. Seduto davanti alla finestra di casa, mentre il primo raggio di sole disperdeva le ombre nella stanza, un pensiero si fece strada. Un'ora dopo bussavo alla porta dell'ufficio dello sceriffo. Quando il ragazzo mi aprì, aveva l'aria assonnata.

«Chi diavolo è?» domandò.

«Quello che ti salverà la pelle, ecco chi», risposi, infilandomi dentro.

«Se sei venuto per mettermi in guardia su Chavez...»

«Lo so, sai badare a te stesso, ma adesso chiudi la bocca e stammi a sentire, mi è venuta in mente una cosa che potrebbe esserti utile quando Chavez verrà a cercarti.»

«E sarebbe?»

«La pistola di quel cane rognoso. Non è un'arma come le altre. Chavez ha segato la canna, così è più veloce ad estrarre. E il grilletto è così sensibile che se una piuma lo sfiora per errore, quella sputafuoco ti scarica addosso mezzo tamburo.»

«Bella rogna.»

Fu così che disse, neanche parlassimo di un cavallo azzoppato che si doveva abbattere.

«Forse è meglio se lasci la città.»

Lo dissi tenendo gli occhi bassi. Avevo paura della sua reazione, ma quando sollevai lo sguardo me lo ritrovai che sorrideva a mezza bocca. Be', non è che sorridesse proprio. Era più una smorfia la sua. Mi sorpresi nel vedere che non sembrava avercela con me per quello che avevo detto. E capii dalla sua espressione che non l'avrebbe mai fatto. Non avrebbe mai fatto fagotto. E di certo non l'avrei convinto io a lasciar perdere. Aveva la testa dura come quella del mulo di Juan.

«Grazie per la dritta», disse.

«Vorrei poter fare di più», confessai.

«So...»

«Badare a me stesso», gli feci il verso. «Lo so.»

Quella canzone l'avevo imparata fin troppo bene.

«Perché non vai a stenderti, hai l'aria di uno che non dorme da una vita», disse il ragazzo.

Gli rivolsi un'ultima occhiata implorante e infine lo lasciai ai suoi pensieri. Gliene avevo messi parecchi in testa e il sole era appena spuntato.

Tornai a casa e feci come mi aveva consigliato. Riuscii a dormire almeno un po'. Fui svegliato dall'eco di uno sparo. Saltai su come una furia, tanto che la schiena mi maledì per quel gesto sconsiderato, e corsi di fuori. Barcollai fino all'ufficio dello sceriffo ignorando il dolore e li trovai entrambi lì.

Chavez giaceva riverso nella polvere e il ragazzo era seduto a terra, la schiena poggiata su un legno della stanga che stava di fronte al suo ufficio. Si teneva il fianco. Le dita erano macchiate di sangue.

Mi precipitai da lui.

«Fa' vedere», dissi, inginocchiandomi e spostandogli adagio la mano dal fianco.

La camicia, alcuni centimetri a sinistra dell'ombelico, era fradicia.

«Premi forte», dissi, rimettendo la mano al suo posto.

Borbottò qualcosa che non capii.

«Non parlare. Non devi sforzarti.»

Aveva gli occhi umidi e spaventati. In quello sguardo c'erano tutti i suoi ventisette anni. Mi prese la mano e me la strinse. Compresi che voleva dirmi qualcosa e mi avvicinai. Accostai l'orecchio alle sue labbra.

«Mia... mia madre...» disse.

Tutto qui. Abbassò le palpebre, il petto smise di fare su e giù e la testa ricadde mollemente su una spalla. Raccolsi il cappello che gli era caduto poco più in là e glielo calcai sulla testa. D'improvviso la vista iniziò a tremolarmi. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Piansi la morte di quel ragazzo e maledii me stesso per non essere riuscito a salvargli la vita.

Quando Juan arrivò con il suo carretto sgangherato gli urlai di togliersi dai piedi. Non volevo che lo toccasse. Alla fine però fui costretto a lasciargli campo libero. Non avevo abbastanza forza per fare da solo. Lo adagiammo nella cassa che Juan si era portato dietro e andai con lui a seppellirlo nel cimitero poco fuori città. Mentre Juan scavava la fossa, mi ritrovai a pensare alle ultime parole del ragazzo. Sua madre avrebbe voluto sapere cosa gli era accaduto e dove era seppellito. In testa mi giravano tante domande come avvoltoi che svolazzino in circolo sopra la preda macilenta. Perché era venuto a San Miguel? Cosa lo aveva spinto ad assumersi un incarico così pericoloso? Avrei dovuto parlare di più con lui.

Aiutai Juan a scaricare la cassa nella fossa e recitai qualche preghiera mentre lui la ricopriva di terra. Legammo due legni assieme per fare una croce e li piazzammo sulla tomba del ragazzo. Una volta finito tornammo in città. Juan accennò al fatto che voleva portare via il corpo di Chavez.

«Non ti azzardare a seppellirlo», ringhiai. «Se vuoi farci qualcosa, dallo in pasto agli avvoltoi. È quella la fine che merita.»

Non fece nessuna obiezione.

Smontai dal carretto di quell'uccellaccio sdentato e andai dritto all'ufficio dello sceriffo. Entrai, non so neanche io perché. Mi guardai in giro e notai sulla scrivania qualcosa. Era un orologio, uno di quelli da tasca, catenina e tutto il resto. La carcassa lucida scintillava nel sole che entrava di sbieco dalla finestra. Lo presi e lo aprii. C'era una foto nella metà superiore. Era il volto di una donna sulla cinquantina, con due graziose parentesi agli angoli della bocca. Doveva essere la madre del ragazzo.

Capii cosa stava cercando di dirmi prima di esalare il suo ultimo respiro. Mi cacciai quel gingillo in tasca e tornai a casa. Quella notte feci una promessa e il mattino seguente partii.

Ora sono in viaggio per rispettare quella promessa. Voglio trovare quella donna.

Deve sapere che il suo ragazzo ha liberato San Miguel.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top