III. Il velo di Maya
"Se non fosse per te, cosa avrebbe un senso.
Sotto a questo cielo immenso, niente più sarebbe vero."
Un fastidioso luccichio passa tra le lamelle delle persiane chiuse e si rifrange nel pomello d'ottone dell'anta dell'armadio. Quel bagliore, seppur minimo, disturba inverosimilmente John, il quale è sveglio da poco dopo le quattro del mattino e ora fatica a riprender sonno.
È steso supino nel letto, con le braccia fuori dalle lenzuola, incrociate sul petto. Non è neppure cominciata una nuova giornata che lui è già nervoso. In realtà lo è dal giorno precedente. Sente di aver lasciato un discorso in sospeso, l'ennesimo, col coinquilino. Ha decisamente voglia di chiarire, mettere come si dice le carte in tavola.
Sono questi pensieri che continuano ad accavallarsi, come tessere di un domino che prendono a rovesciarsi una sull'altra, a impedirgli di rilassarsi. Ma il capro espiatorio oramai è la luce proveniente dall'esterno. È più facile prendersela con la luna, i fari, i lampioni o quello che sarà dopotutto, anziché con sé stesso, incapace di farsi coraggio e andare a parlare con Sherlock Holmes.
Più facile ancora è prendersela proprio con l'unico consulente investigativo al mondo, bravo a dedurre gli altri ma orribilmente complicato da essere dedotto. Colui il quale riesce a schermare a comando le emozioni, senza apparentemente lasciarle trasparire, come invece accade a John che ora ha tutta l'aria di essere un vulcano pronto a esplodere.
Più stanco di quando si è infilato sotto le coperte, almeno mentalmente parlando, il medico decide di alzarsi. Perde del tempo a rassettare la camera e a scegliere i vestiti da indossare. Alla fine opta per un jeans grigio e una camicia azzurra sulla quale va a chiudere un cardigan dal colore coordinato a quello del pantalone.
Quando ha deciso di scendere al piano di sotto, è rimasto in attesa sul pianerottolo, fuori la porta d'ingresso al salottino. Ha ascoltato i rumori della casa, è riuscito a cogliere solo i crepitii del legno sotto al proprio peso, e il fruscio del vento insinuarsi tra gli infissi. Nulla comunque che facesse presagire che l'altro uomo fosse già sveglio come lui e che magari potesse trovarlo al di là di quella soglia.
John era diviso in due tra la voglia di prendere a schiaffi Sherlock, parlargli cercando di non urlare, e scappare via da quell'incontro. Alla fine si è ritrovato dentro la stanza quasi senza sapere come, mosso da una volontà propria delle sue gambe.
L'ambiente appare vuoto. Dalle finestre entrano i primi raggi di sole e contro luce si vedono i pulviscoli danzare sospesi nell'aria. Quel disordine calmo nel quale sembra tutto immerso fa pensare a uno di quei film apocalittici, nei quali per una calamità le persone abbandonano le case lasciando incompiute le proprie attività.
È un attimo e John si sente solo. Gli sembra di rivivere quella sensazione di abbandono, dovuta al distacco dal coinquilino, successiva alla sua finta morte. Era tantissimo tempo che non sentiva quell'angoscia avvilupparlo dall'interno.
«Cosa ti ha raccontato Grace Evans?» La voce di Sherlock arriva profonda alle orecchie di John.
«Come non detto» sussurra ironico. Non è solo. Il coinquilino spunta dal corridoio e con poche falcate raggiunge la finestra dietro le poltrone. Il dottore si concentra per ricordare la testimonianza raccolta la sera precedente. «Nulla che già non sapessimo. Quella mattina ha visto l'uomo affacciandosi da casa; questi era avvolto da sangue tutt'attorno e quindi la ragazza ha ben pensato di chiamare la polizia. Fine» racconta.
In risposta riceve un cenno d'assenso. Sente il sangue ribollirgli nelle vene, è il momento di porre le domande che ha accumulato durante la notte.
«Perché hai insistito a volerti occupare del caso?» domanda senza preoccuparsi di nascondere l'ira nella propria voce.
«Un presentimento» risponde banalmente l'altro.
John non può crederci. Gli sfugge una breve risata amara. L'ha veramente trattenuto solo per uno stupidissimo presentimento? È sicuro che non sia così. «Non te ne frega proprio niente degli altri, vero? Lo sapevi che avevo un appuntamento.»
«Sbagli John, mi importa di te.» Sherlock è girato di tre quarti, guarda ancora fuori dalla finestra.
«E allora mi vuoi dire che cazzo di problema hai? Sembri un fottuto bambino capriccioso che vuole farmi un dispetto!» gli sputa addosso.
Sherlock si volta di scatto. Si guardano con il fuoco negli occhi. Entrambi tacciono. Il moro si muove in direzione della poltrona portandosi in piedi dietro lo schienale di questa. All'ultimo non sostiene più lo sguardo dell'altro e china la testa, le braccia tese a reggersi sulla spalliera. «"Spero che la nostra piccina possa riprendersi quanto prima. B."» cita il messaggio che ha ricevuto John.
Il dottore mette su un'espressione accigliata, non coglie il nesso tra questo discorso e il testo dell'SMS.
«"Nostra", John? Sul serio? Al prossimo incontro ti chiederà già di cominciare una convivenza? E tra una settimana cosa, mi troverò tra le mani una partecipazione per il matrimonio? D'altronde cosa vi impedirebbe di sposarvi, siete vedovi» Sherlock continua, sempre senza guardarlo, come una diga dalle paratoie aperte: «Oh, e sicuramente sarà rosa pesca, con inserti crema. Scialba com'è non potrebbe scegliere colori più insulsi Elizabeth.» John può vedere distintamente un brivido scuoterlo nel pronunciare il nome della donna. «E il figlio? Vi porterà sicuramente lui le fedi all'altare. Sempre che non le getti prima nel Tamigi, il mostriciattolo.»
«Woah, frena frena!» Watson cerca di arginarlo. La collera ha lasciato il posto alla confusione. Prende aria un secondo dandosi il tempo di trovare le parole più adatte. Vorrebbe spiegargli che non correrà così tanto, non vuole bruciare le tappe. Probabilmente non si risposerà, o forse sì, ma non ci ha mai lontanamente pensato. E pure che fosse non sarebbe affare suo. Ma il secondo dura troppo e non fa a tempo a esprimere un solo concetto che l'altro riprende a parlare.
«Ho rinunciato a te parecchie volte, non rifarò lo stesso errore con Rosie» ammette con una voce calma e atona, quasi non gli appartenesse. A John sembra ancora più ricurvo nella sua posizione, come se il peso di quelle parole invece che alleggerirlo lo avessero reso simile ad Atlante. «Non me la porterai via» conclude asciutto.
«Ma è mia figlia!» risponde John scioccato, senza aver compreso appieno le parole di Sherlock.
L'uomo alza finalmente lo sguardo a incrociare quello del dottore. Quelle iridi cristalline non riescono a nascondere la sequela di emozioni che il volto cela perfettamente. Si possono leggere terrore, astio, risentimento, insicurezza, invidia e una marea di altre passioni che nella concitazione del momento John non riesce a distinguere.
«È tua figlia» concede pacato. «Ma le voglio bene come fosse anche la mia.»
John boccheggia. Sente come d'aver ricevuto una botta tra capo e collo, è intontito. Muto, ritto sul posto, non riesce a riempire i polmoni. D'improvviso gli pare che la stanza sia stata svuotata di tutto l'ossigeno. E ha caldo, tantissimo. Che il camino sia acceso e scoppiettante? Assolutamente no.
Le sinapsi intanto si sono scollegate dal proprio cervello. Cerca di aprire il primo bottone del colletto della camicia, ma le mani gli tremano. Ci impiega più tempo di quanto vorrebbe, perché ancora ha la sensazione di star soffocando. Va svelto alla finestra, sorpassando il coinquilino che ora lo guarda preoccupato. Riesce a spalancare il vetro e affacciarsi. Si sporge il più possibile tenendosi al davanzale, prende grandi boccate d'aria.
«John?» Il tono di voce di Sherlock è ancora diverso: questa volta sembra allarmato. L'uomo affacciato sente la mano dell'altro posarsi delicata tra scapole e nuca. Quel tocco è capace di mandargli a fuoco la pelle, per cui se ne sottrae brusco. «Stai bene?» insiste ancora Holmes che probabilmente ha messo da parte per qualche istante l'orgoglio. Watson continua a respirare in maniera affannosa, ha appena cominciato ad assimilare quanto si sono detti. Lo sa che Sherlock è spaventato dalla sua reazione fisica, e vorrebbe trovare la forza di dirgli quantomeno di non preoccuparsi, ma non riesce. «Va bene allora. Io, io adesso devo andare.» Ed ecco di nuovo una voce seria ma al contempo esitante.
John percepisce qualche movimento dietro di sé, poi l'altro che si allontana.
Strizza forte gli occhi. L'aria fresca mattutina è assai pungente. Finalmente si sente di nuovo bene, quantomeno in grado di respirare; crede di poter rientrare. Mentre sta per richiudere la finestra vede Sherlock lasciare l'appartamento.
Quel nido di ricci affondato nel bavero rialzato del cappotto. Da quella posizione privilegiata può studiarlo senza essere visto. Gli torna alla mente una frase che una volta il consulente gli ha detto "Tu guardi, ma non osservi". Così è, John se ne rende conto, è stato ceco e sordo per tanto tempo.
In neanche cinque minuti gli si è aperto un mondo. Non l'ha mai capito davvero quell'uomo con il quale vive oramai da svariati anni, lo stesso che ora è sul marciapiede di fronte ad attendere qualcosa, o qualcuno. Difatti un mendicante gli si avvicina. Si scambiano qualche parola, giusto il temo di percorrere la distanza di un paio di metri fianco a fianco. Poi quello alto prosegue diritto, mentre l'altro, basso e con la barba lunga, si posiziona con un cappello rovesciato in terra, ai piedi di un albero.
John è in apprensione: perché Sherlock dovrebbe aver riallacciato i contatti con la sua rete di senzatetto? Subito dopo aver formulato il pensiero un altro gli preme dietro le meningi: perché se ne preoccupa? E la risposta gli arriva dritta a sconquassargli le budella: Sherlock è affare suo quanto lui lo è per l'amico.
Per troppo tempo non aveva considerato che dietro le apparenze anche Holmes provava dei forti sentimenti nei confronti suoi e della figlia. «Le vuole bene come fosse la sua...» assapora meglio il concetto. Al padre sembra così naturale amare Rosamund, e non si meraviglia del fatto che la piccola abbia fatto breccia anche nel cuore di Sherlock. «A ricordarselo che anche quello è dotato di cuore. Alcune volte sembra proprio non averne uno...» borbotta.
È perfettamente logico che dopo poco più di sei anni il coinquilino consideri Rosie una figlia al pari di John. D'altronde l'ha visto in prima persona cambiargli i pannolini, cullarla nel cuore della notte, non dimenticarsi mai di nutrirla. Fino alle cose più banali come farle un nodo alle stringhe come era accaduto la mattina precedente. Piccole o grandi attenzioni che, deve ammettere il medico, non ha mai visto Sherlock riservare a nessuno se non alla piccola Rosie.
Di cosa aveva bisogno allora John, di una dichiarazione firmata dalla Regina Madre in persona, per concepire che per Sherlock Holmes lui e la bambina rappresentano la sua famiglia?
La vocina che sente nella testa continua ad appellarlo in malo modo: "Stolto, idiota. Non potevi arrivarci prima? Ottuso!". E si sente davvero in colpa, perché sa quanto può essere costata al consulente quella confessione, ed è un vigliacco a non aver provato egli stesso a dire qualcosa di simile, già anni fa.
«Dr. Watson?» la voce tremante della signora Hudson che lo chiama dalle scale.
«Papa-à?» chiama anche Rosie.
«Sono...» cerca di rispondere il padre, che ha completamente la bocca impastata. Si schiarisce la voce e ritenta. «Sono qui, ragazze» scherza tentando di alleggerire la tensione che gli si è accumulata sulle spalle.
Le due entrano nella stanza, la signora Hudson si ferma e gli rivolge un sorriso di saluto, mentre la figlia gli corre in contro per dargli un bacio. John si accovaccia per abbracciarla meglio. Il profumo tenero, come di borotalco, e il calore tenue che gli dona quella stretta, hanno un potere rigenerante su di lui.
«Come pungi!» si lamenta la bimba portando una manina sulla guancia dell'uomo.
«Oh, sì piccola. Purtroppo non ho avuto il tempo di radermi questa mattina.»
«Scusate se vi interrompo, ma sarebbe ora di andare a scuola.» L'anziana si avvicina tenendo in mano lo zainetto e la giacchettina di Rosie.
Si danno la mano e passeggiano lenti diretti alla St Mary's School, nome appropriato per la scuola nella quale far studiare la figlia. È l'ultimo giorno di lezione prima delle vacanze di Pasqua. Rosamund ha messo su il più bel sorriso che ha da mostrare da quando il padre le ha comprato una brioche al bar lungo il percorso. John è rammaricato di non aver tenuto conto dell'orario e di non essere perciò riuscito a preparare la merenda per la figlia. Ovviamente la piccola non è affatto scontenta di quell'imprevisto.
Lungo il tragitto Rosie ha di nuovo fatto accenno alla questione della barba. John deve ammettere che davvero in rare occasioni non ha avuto l'opportunità di radersi, questa deve evidentemente rappresentare una novità per la piccola, che ne è rimasta affascinata.
«Non è arancione. Credo sia più bionda» cerca di convincerla John.
«No, i capelli forse. Nemmeno, ora sono quasi tutti bianchi.» Fa spallucce la piccola.
Il padre la fissa fintamente offeso. «Chi ti ha insegnato a dire sempre tutto quello che pensi?» chiede già conoscendo la risposta.
«Papà, le bugie non si dicono!» Lo guarda con fare d'ammonimento.
«Hai perfettamente ragione. Ma un po' di tatto certe volte non guasterebbe.» Consiglio che avrebbe da rivolgere anche all'amico.
«Sherlock dice sempre che una persona dotata di logica dovrebbe sempre dire le cose esattamente come sono. E lui mi ha spiegato che quindi io devo dire sempre la verità» conclude, e il padre la vede gonfiare il petto fiera di aver ricordato l'intera citazione come fa con le poesie che le insegnano a scuola.
«Tu vuoi molto bene a Sherlock?» domanda John.
«Tantissimo!» ammette allargando con enfasi le braccia, urtando anche la gamba del padre mentre camminano.
«Quant'è "tantissimo"?» sonda ancora l'uomo, cominciando un gioco che fanno qualche volta.
La bambina si guarda attorno, assottigliando gli occhi con fare circospetto. Quell'espressione buffa fa sorridere John, che nel frattempo ragiona ancora sulla discussione che ha avuto con Holmes.
«Così» risponde quella puntando il dito in mezzo alla strada.
«Tanto quanto quella macchina rossa?» chiede per conferma il padre.
«Ma cosa dici.» Si porta una mano alla bocca a nascondere una risata in maniera teatrale. «Come l'autobus!» evidenzia l'ovvio.
«Oh, quello eh? Grande, non c'è che dire.» John gioca divertito. «E a me, quanto mi vuoi bene?» domanda con una punta di gelosia e curiosità.
«Mmm... a te tanto quanto quella macchina lì» risponde annuendo con la testa orgogliosa della propria scelta.
Il dottore guarda la strada e individua un SUV. Certo è grande rispetto a un'auto normale, ma è sempre più piccolo di un autobus. «Mi vuoi bene meno di Sherlock quindi?» domanda appena ferito da quella constatazione.
«Ma non ci vedi? Ho detto quello lì.» Fa segno più avanti tra le corsie.
John identifica un camion. La piccola aveva detto macchina, per questo si era soffermato sul SUV. Ora è certamente rincuorato. La dimensione del veicolo resta comunque pressoché identica a quella scelta per il consulente investigativo.
«Sherlock gioca sempre con me a fare i pirati» cerca di giustificarsi la piccola.
«Ma io ti ho comprato una brioche per colazione.» Prova a guadagnare punti sull'altro. «Sto scherzando» dice infine cercando di fare alla bambina il solletico dietro l'orecchio con un dito.
«Papi!» si lamenta quella tra le risate.
«Mi fa piacere che vuoi tanto bene a Sherlock» dice infine più serio. «Anche io gli voglio tanto bene.»
«Lo so. Come la scuola.»
«Come la scuola? Scusa, non ho capito» chiede John perplesso.
«Gli vuoi bene tanto quanto la scuola.» Mima un cerchio con le mani, forse a rappresentare l'istituto. Il quale effettivamente è molto grande, soprattutto se lo si immagina visto con gli occhi di quello scricciolo di creatura.
«Ora è chiaro.» Il padre si ferma, sono arrivati avanti al cancello d'ingresso. Si abbassa e le passa la cartella. «Anche a te voglio un mondo di bene, lo sai vero?» domanda mentre la saluta.
Rosie fa di sì più volte col capo. Poi corre dentro mischiandosi a quella massa di bambini che affollano il cortile.
John non la perde di vista fino a quando non la vede arrivare all'interno dell'atrio, e anche dopo, riesce a seguirla oltre al vetro, dirigersi alla propria classe.
L'uomo non fa a tempo a girarsi per andare via che scorge la figura di Elizabeth, la quale ha accompagnato a sua volta il figlio Tommy. Vorrebbe sottrarsi a quell'incontro ma la donna lo intravede.
«John, come stai?» domanda premurosa mentre gli si fa vicina.
«Beth, ma che sorpresa» risponde imbarazzato quello passandosi una mano tra i capelli. «Tutto bene, tu?» chiede per pura cortesia.
«Sto benone, grazie. Dimmi piuttosto come si sente Rosamund, già l'hai accompagnata a scuola?» la donna fissa dal basso Watson, il quale non ha la minima idea di cosa lei stia dicendo.
Poi fa mente locale e gli si accende come una lampadina. «Oh sì certo, il mal di pancia. È passato del tutto.»
Guarda Beth e si sente ridicolo ad aver pensato di poter stare con lei. Non perché sia una persona malvagia, tutt'altro. Però è così ordinaria, dall'intelligenza media, fin troppo loquace e probabilmente l'interesse che mostra nei riguardi della bambina non è del tutto sincero. In fin dei conti risulta essere estremamente dissimile da Sherlock Holmes.
Ora John ha ben chiaro che è con lui che vuole continuare a vivere. In passato è stato capace di smuoverlo dalla sua malinconia, è riuscito a farlo tornare a respirare. Gli ha dato uno scopo, e una casa. Sherlock è stato per lui una famiglia e oggi ha riscoperto che è ancora così. E la cosa a quanto pare è reciproca.
«Devi perdonarmi Beth, ma ho un impegno urgente. Devo andare» si congeda rapido.
Si volta dall'altro lato e quasi correndo via afferra il cellulare dalla tasca. Compone un messaggio.
– Dove sei? J.
– St Barts Hospital tra 5 minuti. S.
"Perchè senza te io non vivo.
E mi manca il respiro se tu te ne vai."
Sergio Cammariere _ Tutto quello che un uomo.
https://youtu.be/wuGPYvQjKac
- Il titolo è un chiaro riferimento all'espressione di Schopenhauer, alla quale immagino si rifaccia anche Cammariere nel verso "dai pensieri miei cade un velo, e ritrovo con te l'unica verità" della canzone scelta per questo capitolo.
Disclaimer
I personaggi di cui sopra non mi appartengono; a scrivere questa storia non ci guadagno nulla, se non i vostri commenti, consigli e critiche costruttive.
Note
Avete presente il film interattivo di Netflix, "Bandersnatch"? Beh questo esperimento di scrittura me l'ha fatto venire in mente, perché è più o meno guidato dalle persone che hanno scelto le canzoni. Un tempo esistevano i librogame, ma non se ne vedono più da una vita.
Insomma, non voglio dare tutta la colpa (o i meriti, fate voi) a quel pazzo manipolo di ragazze del gruppo Facebook "Johnlock Is The Way...And Freebatch of course!", ma effettivamente ci fosse stato anche un solo brano diverso, il risultato sarebbe stato completamente differente. -(pazze in senso buono eh! anzi grazie, grazie, grazie per avermi accolta in "famiglia")-
Inoltre, vi confesso che la prima bozza di scaletta prevedeva un altro ordine per i capitoli: questo di Cammariere doveva essere il quarto.
Non voglio dilungarmi oltre, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate di come sta procedendo la storia. Se anche voi come me aspettavate bramosi questo cambio di prospettiva di John.
Grazie mille a tutti voi,
K.
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