Capitolo 7 (Pt. 1)

La vita riprese da dove l'avevo lasciata, le lezioni, la tesi.  

Andavo al mercato di Porta Palazzo il sabato mattina e prendevo il tè con alcuni amici la domenica pomeriggio. 

Simone era spesso in ospedale e non si vedeva quasi mai ma, ogni tanto, trascorrevamo i pomeriggi insieme, facevamo progetti, immaginavamo di costruire una serra, lassù, sul tetto della caseggiato di fronte, i fiori, i loro boccioli facevano capolino dalla terra, precoci, coraggiosi e la bella stagione apriva le finestre al sole, fra la nebbia di Torino, specchiandosi sui passanti, scavalcando i sampietrini. 

Sì la vita aveva ripreso a scorrere ed io crescevo, mi domandavo, che cosa avrei deciso di fare con il bambino. Quando trascorrevo le ore in compagnia dell'orologio e del primo mattino, mi sfioravo la pancia e ci parlavo. 

Sapevo che era presto per farlo, troppo presto perché lui mi capisse, fin troppo perché lui mi rispondesse ma mi ero detta che sarebbe andata bene, che questa volta toccava a me farla funzionare, volerlo, ora che finalmente mi sentivo serena.

Una notte mi svegliai di soprassalto, le mani erano strette alle mie ginocchia. 

Il letto era vuoto e la stanza girava. Sentivo la fronte scottare e lo stomaco aggrovigliarsi in un conato che non mi lasciava lo spazio per respirare. 

Avevo già dormito sul pavimento altre volte, molto prima di allora, ai tempi dell'Università, di quella in cui si è ancora troppo bambini per pensare come saremmo stati da adulti e pure di quella in cui si è fin troppo cresciuti per riuscire a immaginarci nuovamente bambini. 

Le piastrelle erano fredde, come all'ora. Guardavo la porta del bagno e immaginavo una luce accendersi nello spalancarla, vedevo dei passi, sentivo le risate, pensavo alle rose.

Il dolore mi cullava docilmente mentre gli occhi arrossati si velavano con le ore, nel dormiveglia. Il mio respiro e la polvere, mi ricordavano l'inverno quando tutto, nell'oscurità, si era trasformato nel solito sonno senza mattino.

***

Il giorno seguente decisi di recarmi in ospedale, per andare a trovare Simone. Ero passata dal solito bar, pagando il solito tè e i soliti due muffin, rigorosamente da asporto. Ero stanca ma serena, lo stomaco e la testami facevano ancora male ma la nausea era passata, almeno per il momento.

Non vedevo l'ora di trascorrere qualche minuto con il mio ragazzo ed ero certa che l'avrei trovato indaffarato come sempre. Non mi importava di aspettare, nella sala d'attesa, stringendo il sacchetto del bar fra le mani. 

Avevo portato con me un libro, avevo scelto "La vita va avanti", un romanzo che si vendeva come particolare, inaspettato, per certi versi genuino. Ma la sala d'attesa era rumorosa, affollata, non c'era posto per la cultura in quella stanza, troppo umano, pensai, oltremodo umano. 

I minuti passarono, fra qualche riga e qualche indicazione, due parole con la responsabile dell'accettazione e poi, su in corsia, lungo i corridoi percorsi da linee colorate,numeri, stanze e persone. Un inserviente mi disse di provare a bussare nella saletta dei medici ma lì Simone non c'era. 

Vagai ancora qualche minuto, senza sapere dove andare, stringendo libro e sacchetto, con la borsa a tracolla che mi segava una spalla, con la nausea che tornava a farsi sentire. 

Dovevo dirglielo, dirgli di mio figlio, del nostro. Ero stata ingiusta a nasconderlo, in fondo, non ci sarebbe stato un momento, il momento, quello giusto. E' come quando ti dicono che c'è un momento per tutto ma tu sai che nulla potrà essere assolutamente perfetto, per quanto immensamente grande sia stato il nostro sforzo.

***

- Scusami Bea, oggi è stata una giornata infernale. Ho dovuto fare un trasporto anche se in teoria non sarei autorizzato ma meglio così, più cose imparo meglio sopravviverò alla specializzazione. Mi hai aspettato tanto? -

- No, non molto. Una tua collega mi ha avvisato. Sai, me ne stavo a percorrere senza meta il reparto di medicina e si vede che gli avrò fatto pena. E' un labirinto quell'ospedale. -

- Già, in effetti. Ricordi il secondo giorno di specialistica che sarei dovuto andare al pronto soccorso e mi sono ritrovato in ginecologia? Quella volta ho rischiato d' esser linciato di brutto per aver tardato tanto ad arrivare. -

- Sì, avevamo riso tuttala sera. E' stato bello. Ah, comunque ho ancora il tuo muffin, integrale, frutti di bosco, è sulla credenza in cucina se lo vuoi. -

- Sei davvero un amore. A proposito è passata Vanessa qualche giorno fa, ha accompagnato la madre che si è storta una caviglia lavorando in giardino. Mi ha chiesto di te, se stessi bene. E' tanto che non vi sentite? -

- Effettivamente sì,dovrei chiamarla. -

Sbloccai lo schermo del telefono e cercai il numero di Vanessa, la sua foto di WhatsApp la ritraeva seduta su d'una panchina in Via Roma, smarrita, mentre accarezzava le corde del violino. 

Pensai di doverle raccontare molte cose però, no, non riuscivo proprio a comporre quel numero. La guardavo, giocando con il display in attesa, nell'attesa che capisse il perché avevo rimandato tanto quel momento. I ricordi, quelli del passato, non si erano ancora lavati via con il perdono. 

Nonostante fosse trascorso tutto quel tempo. Nonostante fosse arrivato Simone a riempire quel vuoto, lo stesso vuoto che avevano lasciato Matteo e Vanessa insieme.

- E' preoccupata, dice che dopo la festa non le hai più risposto ai messaggi, dice che le avevi scritto di volerle parlare ma che poi, non ha ricevuto più nulla. -

Simone mi guardava corrucciato, la sua mano sulla mia spalla, i suoi occhi nei miei.

- Sì, non era importantesi vede. - 

Mi alzai, la teiera stava sbuffando ormai da qualche minuto sul fuoco. Così, spensi il fornello. E controllai il contenuto. 

- Domani, vado a trovarla. Dovrebbe essere a casa. Le scrivo più tardi per avere conferma. -

- Non sarà che stai di nuovo pensando a quella storia? -

- Quale storia? -

- Quella di Matteo. Lo so che, ogni tanto, quando le cose non vanno esattamente come vorresti che andassero ripensi a quella faccenda. Il santo Graal del dubbio,come l'hai chiamato tu una volta. -

- Effettivamente. -

- Non dovresti più pensarci, lo sai. E' passato parecchio tempo da allora e siete tornate amiche, dopo tutto. Avete scelto di dimenticare, di andare avanti. -

- Ci sto provando. -

***

No, non quadra. Hai presente quando il geometra prende le misure e la bolla schizza elettrizzata da sinistra a destra e da destra a sinistra? Sì, è così che non quadra. Non sente niente? Non ti ha vista che faccia hai, lo ignora, ci ignora. Va sempre così, con gli uomini, adulti che giocano ad essere adulti di fronte ad altri adulti e poi, e poi non hanno mai la tentazione di fumare, come i bambini. Oh beh, altro fanno se no, non me ne starei qui. Che noia. Che noiosissima noia, ora anche se ti convincessi a lasciarmi commettere qualche misero peccatuccio staremmo pure male! Se solo i vicini si dessero alle distrazioni, potrei annusare i loro risultati dal pianerottolo mentre innaffi quelle stupide cose che chiami piante. Ma no, la solita sfortuna, la solita storia. E intanto qualcosa non quadra. Ma facciamo pure finta che tu abbia ragione, che la bellezza t'accompagni finalmente, nell'esser sciupata e racchia. Magari qualcosa di buono capiterà anche per me, magari, un'altra faccenda da adulti, che potrebbe distogliermi dall'eliminarti da te stessa. Che fare? Che fare con te? Guardalo! Guarda come afferra quel muffin e con le mani lo spezzetta, separandolo dalla carta, come un animale. Ti ricordi Sinistro? Il gatto dei nonni, quello tutto grigio? Ah, mi piaceva chiamarlo "Grigio il Sinistro" come se si trattasse d'un uomo di rango elevato, un nobile, forse un conte. Il conte Grigio detto il Sinistro perché possedeva, in ciascuna stanza del suo immenso maniero, un vaso. Non di quelli colorati, in ceramica o che so io, quelli dei cimiteri, quelli dove ci stanno le persone una volta che vengono bruciate. E le cameriere erano convinte di sentire delle voci, ognuna con il proprio timbro, intonazione e accento. Credevamo che fosse un salvatore, uno di quelli che nasconde le anime dalla dannazione, mascherandole da soprammobili di valore. E la notte del cinque Febbraio, il cinque di ogni anno, credevamo che decine e decine di anime si svelassero, facendo capolino dalle reciproche stanze e che, chete, stanche, se ne stessero a sorseggiare assenzio, avvolte in lussuosi abiti ricamati, mentre una dolce musica invadeva il salone per poi disperdersi nella campagna circostante. Quante cose immaginavamo ma adesso? Ti ricordi ancora di tutto questo, di quel povero gatto, di quanto piangemmo quando morì, alla veneranda età di tredici anni? No, bugie, bugie, preferisci tutte queste bugie all'immaginazione, a quella che colorerebbe appena la verità. Preferisci pensare che lui non sia come tutti gli altri, nella fattispecie come Matteo. Ma guardalo, guardalo ancora e dimmi, sei sicura che fosse esattamente dove l'abbiamo cercato, ieri? Oh, noi, miserissime, se solamente potessimo fumare. Dunque vai, vai dalla tua mancata sposa, parla delle perniciose pieghe che la disperazione ha reso infette, parlale, indaga, se lei l'ha visto, qualcosa saprà. Sempre che, sia per quello che si sono, casualmente, incontrati. Ti ricordo che Vanessa te l'ha fatta già una volta, cosa le impedisce di fartela di nuovo? Si prende tutto ciò che è tuo, tutto ciò che è nostro. Almeno, chiedesse il permesso quella grandissima stronza.

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