Capitolo 5 (Pt. 2)

Non ci volle molto per accorgermi che, in realtà, non avrei saputo dove andare. 

Camminare era la sola cosa giusta che si potesse fare quel giorno, che io potessi fare, nonostante il giorno. Ne ero convinta eppure, verso cosa? Verso dove?

Ed era già periferia edera già il verde ed era già Mezzogiorno, nonostante il freddo, nonostante il resto, quando mi ritrovai a percorrere Via Garibaldi.

La calma, il silenzio, della mia testa, mi intimava di rimanere lucida, di sezionare i ricordi, le paure, le più recondite malattie del sé, nascoste sotto il solito velo d'ignoranza. Perché?

Una volta, tutta questa pressione mi avrebbe fatta esplodere, all'esterno, verso lo spazio circostante, senza alcun controllo. 

Ora, mentre camminavo e camminavo, veloce e poi piano, e poi ancora più veloce, non c'era niente nella mia testa. Vi era solo, quell'insostenibile leggerezza al cuore, un nero e appiccicoso blocco, proprio fra l'esofago e lo stomaco. Non provavo niente? Ero agitata? 

Sì, no, non lo sapevo. Ma sapevo di avere paura, paura che fosse tutto vero, che ci fosse qualcosa di vero fra le immagini, le azioni, i sospetti. Come avrei potuto? Come avrei voluto? Non lo sapevo assolutamente. E il pensiero di Simone con un'altra cosa c'entrava con tutto il resto?

Apparentemente non trovai una spiegazione né nella logica né nella fantasia. 

Ogni considerazione si appiattiva, evaporava, come quando, distratti, ci si ritrova a percorrere una strada sconosciuta, silenziosa e sinistra.

Se c'era una cosa che Francesco mi aveva insegnato era a non provare dolore, a scartare, a bypassare gli ostacoli come se nulla fosse, scavalcare i dossi del mondo e proseguire. 

Una nebbia, la stessa a cui Torino era così affezionata, era quella sola speranza di proteggermi, di non lasciarmi indietro. Ed ora, ora che avrei bisogno di capire, di capire cosa si sia fatto e cosa no, che cosa io possa provare a riguardo, un piccolo indizio che possa dirmi sì, è vero o no, non è vero, ora non c'è assolutamente niente. 

Camminavo, camminavo, scavavo, scavavo, ricollegando le fila di quelle trascorse giornate d'inverno ma tutto ciò di cui ero capace era sconnettermi, allontanarmi, separarmi ancora.

Avevo il timore, di questo ne sono certa, d'incrociare lo sguardo di qualcuno, un tratto familiare, una voce conosciuta, sì ne ero letteralmente spaventata.

Avevo l'impressione che se qualcuno mi avesse guardato intensamente negli occhi, avrebbe capito prima di me, tutto di me, più di quanto io non potessi mai cogliere. E lo stesso valeva per gli sconosciuti sebbene fossi convinta potesse essere diverso. Cosa fare dunque? Con chi arei voluto parlare? 

Estrassi il telefono dalla tasca e scorsi la rubrica. Esitai, quando vidi il numero di cellulare di Vanessa. Lo fissai a lungo, poi, bloccai nuovamente la schermo.

No, forse non avrei dovuto parlare con nessuno quel pomeriggio, tanto meno con lei. Assolutamente. 

Sarei rimasta a guardarmi attorno, con timidezza, cercando di perdermi nelle storie altrui, nelle mani legate assieme, nelle vetrine decorate, in quelle piccole distanze fra un passo e l'altro, fra il cornicione e il cemento. 

Avrei accettato, accettato che qualcosa non stava andando nella direzione giusta e sarei tornata a pensare al sole, quello della mia terra, alla musica che proveniva dalla stanza di mio nonno, dell'odore di sale e salsa misto alla salsedine del mare. 

Mi stavo allontanando, ancora più semplicemente, rannicchiando in tutta quella sequela di passato,incastrata a metà fra la nostalgia d'una leggera brezza sul viso e sotto, sotto il vuoto di tre piani d'appartamento, il colore verde degli alberi, la quiete di quel luogo, ora, così evanescente. 

Mi scontrai allora con quanto leggevo, sopra la strada, oscurata dalla luce, d'una storia che, per quanto l'avessi scorsa, non mi era mai rimasta impresso.

"La città era piena di rumore, era sempre più difficile parlare e ascoltare e poi, c'era il bosco silenzioso. Ma nel silenzio del bosco, ci si perdeva."

Mi domandai come andasse a finire, cosa quel qualcuno avesse voluto raccontare. No, non lo sapevo. Come non sapevo tante altre cose, tutte quelle altre cose.

Sorrisi, fu istintivo. Era incredibilmente buffo come le persone cercano sempre di leggere le loro storie, loro stessi, in quelle semplici luci di Dicembre. Ed io,non ne ero esente. 

Quante volte avevo camminato lungo la via,attraversato i semafori vestiti del loro giallo lampeggiante, un po' fermandomi a guardare e un po' lanciandomi, senza timore, correndo quasi, perché quella storia, di cui non ricordavo l'inizio e la fine, doveva continuare. 

Più veloce, molto più veloce, perché non scomparisse per mano d'una distrazione, perché terminasse, come se il termine dovesse indicare una soluzione, come se portasse con sé anche una spiegazione.

"Chi non sopportava il rumore della città, andava nel bosco e il silenzio se lo portava via. Così si spare la voce che nel bosco c'era".

- Un orco? Dico bene? -

Abbassai lo sguardo, imbarazzata.

- Scusami, stavo leggendo e non mi sono accorta di...-

- Non ti preoccupare. Mi è capitato un volta di inciamparmi su d'un sampietrino per non aver prestato attenzione alla strada. Non qui, in Via Verdi, stavo cercando di capire dove finisse la punta della Mole e dove iniziasse il cielo. Ad ogni modo, è un orco. La storia recita che nel bosco ci fosse un orco. -

Fissai la mia attenzione sulle sue spalle, il completo, un sorriso gentile. 

Gli dovevo essere proprio sbattuta contro, io, io che non riconoscevo neppure un palazzo se non dal suo primo piano, io che, io che non avevo mai guardato qualcosa con così tanto interesse prima di quel giorno. 

Io che avevo le orecchie sempre piene del rumore prodotto dalle mie scarpe e delle ruote, di tutte le valige che avevo trasportato. 

Io,che, non prestavo mai la giusta attenzione se non alla cose terrene.

Io che cercavo risposte ma che non sapevo pormi le giuste domande.

- Tutto bene? Non che siano affari miei ma parevi parecchio presa dalle luci e meno male che sono praticamente di ferro, altrimenti ci saremmo fatti male entrambi. O meglio, beh, forse se fossi davvero di ferro ti saresti fatta male sul serio. Tutto a posto? -

- Sì, sì, scusami. Sto benone, ti ho fatto male? -

- No, no - 

L'uomo rise, di gran cuore 

- Figuriamoci, te l'ho detto, sono di ferro. Ma se anche tu stai bene, nulla è successo. Ti consiglio di guardare dove cammini la prossima volta, non che tu non debba leggere quella storia eh, ma magari potresti prestare un occhio al soffitto e uno al pavimento, se sai cosa intendo. -

- Hai ragione, dopotutto poteva andarmi peggio, sarei potuta cadere in un tombino. -

- Ahahah sì, come quel filosofo che se ne stava tutto il tempo a guardare le stelle, alla fine nessuno si era deciso a tirarlo fuori dalle fogne. Ma credo, spero, che a Torino i tombini siano ben chiusi. Il massimo che può succedere è che tu prenda una bella facciata sul pavimento o che,come poco fa, tu ti vada a spiattellare addosso ad uno sconosciuto. -

- Mi pare giusto. Spero di non averti rovinato il vestito comunque. -

L'uomo guardò in basso, come se non ricordasse gli indumenti che portava indosso. 

Le scarpe erano lucide, di un bel blu notte e il cappotto, aderente al corpo, lo fasciava leggermente sebbene lasciasse intravedere una camicia di blusa bianca e un paio di pantaloni gessati, da completo. Si grattò la fronte, sistemandosi i capelli con una mano. Nell'altra teneva stretta una valigetta di pelle molto logora, in netto contrasto con il resto del vestiario. Pareva confuso e leggermente a disagio.

- In verità, credo di aver fatto più male io al tuo cappotto e che tu al mio dal momento che la tua sciarpa e il colletto sembrano appena usciti da un frullatore. -

- Ah già, emh , ero di fretta. Tutto qui. -

Ammisi, tentando di sistemarmi un poco anche se, beh, era evidente che sarei riuscita a combinare ben poco. Mi strinsi nelle spalle senza riuscire a distogliere lo sguardo dall'unico dettaglio che, mi parve, potesse essere di lui, in qualche modo rilevante. -

- Mi piace la tuavaligetta. -

- Sì, piace anche a me, per questo non riesco proprio a separarmene. -

L'uomo sorrideva, stringendo la valigetta al petto e accarezzandola come si farebbe con un animale domestico. Un gatto, ecco, se fosse stata viva, se fosse stata la valigia di quella storia sarebbe stata un gatto, bel gatto dal pelo color corallo e ciano e un bel paio d'occhi nocciola scuro. 

Chissà poi perché ci pensai.

- E' il regalo di mia figlia, di quando ho compiuto quarant'anni. Era molto piccola allora e aveva già buon gusto. Senti! - 

Mi chiese, alzando lo sguardo e posandolo sul mio.

Il mio cuore ebbe un lieve sussulto, lo ricordo molto bene, fu come se tutte le mie paure, di colpo, improvvisamente, fossero stata rivelate, scoperchiate e recepite. 

Cazzo, lo guardo di uno sconosciuto. 

- Ti va di prendere un caffè, appena dopo la scritta "Per non perdersi nel silenzio e nel rumore" c'è un posto molto tranquillo dove solitamente non passano molte persone, se vuoi, possiamo sederci un attimo e, intanto,potresti andare al bagno e sistemarti. So quanto ci tengono le donne ad essere sempre tutte ordinate. -

- Mmm no, non tutte, almeno non io. Ad ogni modo, sì, mi farebbe piacere. Un caffè è proprio quello che ci vuole. -

***

- Macchiato? -

- Sì, grazie. -

Da seduto, l'uomo non pareva particolarmente alto, forse, un tantino fuori luogo per quel locale che, all'opposto, aveva tutta l'impressione di essere stato messo a posta lì, nel deserto d'un angolo, proprio per quel preciso momento. Non saprei spiegarlo, era un comunissimo locale, con comunissime sedie e un baldo sottofondo di musica classica. 

Stonava totalmente, rispetto al contesto. 

Un quadro, semplicemente, alle sue spalle, mi lasciava interdetta. Gli alberi e la spiaggia o quella farfalla dalle ali azzurro e nero, posta in un angolo del dipinto, a indicare la porta fra il faro e la realtà? Scossi la testa, cercando di riportare l'attenzione su quello sconosciuto, sul suo fare gentile, con il quale stavo ancora parlando.

- Allora, che ci fai qui a Torino? -

- In che senso? - Domandai perplessa

- Studi? O semplicemente ti piace correre per la strada e sbattere contro la gente? -

- No, no, è, non mi capita mai. Mi spiace davvero, stavo pensando ad altro e non mi sono resa conto. Studio, sì, sto svolgendo un dottorato di ricerca in Storia all'Università degli Studi. -

- Quindi, sei una abile conoscitrice delle leggende che animano questa cittadina! Sai, quando sono arrivato qui, anch'io per motivi di studio, ma parecchi anni fa, come puoi constatare, mi piaceva passeggiare di notte e infilarmi nelle librerie a leggere qualche strambo romanzetto che mi spiegasse perché fosse così facile amare e, al contempo, odiare Torino. Sì tutte e due le cose, dicono che quando sei qui non vedi l'ora di andartene ma che poi, quando gli sei lontano, non puoi far altro che tornare. -

- Non lo sapevo, di questa cosa. Ma credo che accada per ogni cosa bella, bella davvero. Un po'come la storia del bosco in fondo, è abbastanza coerente. Ad ogni modo... - 

Volli precisare mentre, con estrema lentezza, me ne stavo a mescolare lo zucchero nel caffè decisamente troppo caldo

- Non mi occupo della città in particolare, sto lavorando ad un progetto che vede coinvolto tutto il territorio delle Valli di Lanzo. Però ho letto qualcosa a riguardo, tempo fa, credo che si debba ben distinguere ciò che è realmente accaduto da ciò che le persone pensano di aver vissuto. -

- Credi che la verità stia solo nell'oggettività d'un vaso ben conservato o di un documento sepolto all'Anagrafe, sotto strati e strati di polvere? No, io credo che la storia non sia solo questo, non è così neutrale come ce la insegnavano a scuola. -

- Ma allora come distinguere il vero dal falso? -

- Non si può, è questo il punto. Diffido delle persone che schierano il bianco contro il nero e viceversa, c'è sempre qualcosa lì, che ne se sta in mezzo, quatto quatto, ad aspettare che, qualcuno si accorga della sua presenza. -

- Non ha senso. -

Dichiarai senza girarci troppo attorno. Strinsi la tazza fra le mani, annusandone l'odore.

No, non sarebbe stato granché buono quel caffè, lo sentivo. L'aroma del chicco, sapeva di stantio.

- Adesso che tutti guardano nel mezzo, è estremamente interessante studiare gli opposti. Ma sempre avendo ben presente quale sia la base e dove, si stendano le rappresentazioni, le verità delle persone. Se assumiamo che sia vera una percezione rispetto ad un'altra, escludiamo tutto il resto e ci perdiamo. Così ciò che è accaduto sembra non essere mai successo e ciò che non è successo diventa il nuovo mezzo per comunicare il falso. -

- Ora sei tu a dire cose senza senso, però. Cosa rende bella questa città allora? Perché tanti ammettono di sentirsi come me, dico, riguardo a questo strano attaccamento a Torino, se non ci fosse una base di verità, se non fosse vero? Condizionamento? -

- Sì, è quello che ho detto. Stiamo dicendo la stessa cosa. -

- Io non credo. E allora,perché hai accettato il mio invito? Perché hai accettato di venire qui? Potevi scegliere e non hai scelto di dirmi di no. -

- Questo mi ricorda qualcosa. Ma che c'entra ora? -

-Tutto, vedi, mi hai chiesto di questa valigetta. Vuoi sapere perché ci sono così affezionato? -

Ripensai al gatto, all'attaccamento, al contrasto, mi parve, allora, che fosse passato un tempo indefinito fra l'incontro e il discorso. Il mio buio, era ancora fermo, sicuro, o si stava sciogliendo, salendo in superficie,sulle labbra? Perché avevo accettato? No, non potevo capirne il senso, non potrei capirlo neppure adesso.

- Me la regalò mia figlia, come ti ho accennato. Una sera, aveva nove anni quando si avvicinò dicendomi di avere un regalo per il mio compleanno. Ci aveva messo un po' a mettere da parte i soldi per comprarmelo, mi disse, ma ora che se l'era fatto pure incartare, dalla mia compagna, per intenderci, non vedeva l'ora che lo scartassi. Era il 5 Marzo, quel giorno,qualche giorno prima del mio compleanno ma, glie lo si leggeva negli occhi, non sarebbe riuscita a mantenere oltre il segreto. Era una bambina molto diversa dalle altre, mia figlia, disdegnava il rosa e la disgustava il giallo, per lei, era il colore delle cose ferme,delle cose che sembrano belle finché non ti fanno male. Ricordo,quando veniva in macchina con me, quando d'estate la portavo al Parco del Valentino, metteva la testa all'ingiù per guardare le fronde degli alberi, le piaceva fissarli, facendosi venire il sangue alla testa. Lo faceva anche quando andavamo al cimitero a trovare la mamma. I cipressi, secondo il suo parere, erano gli alberi più strani che potessero esistere. Non ci facevo molto caso a tutte queste cose, ma sai, quando ci ripensi, a distanza di tempo, ti sembrano tutte così importanti. -

- Cos'è successo? -

- Dici dopo? L'ho scartato,il regalo. Era la più bella valigetta che avessi mai visto, dentro, si era fatta mettere un disegno, il disegno di un albero enorme.Credo fosse proprio un cipresso. Io avevo una corona sulla testa, la corona di un Re. Lo conservo assieme a tutti gli altri disegni, ne ho cartelle piene zeppe a casa. Ogni tanto, quando ci ripenso, mi siedo sul divano e mi metto a sfogliarle, una per una, disegno per disegno,e questo mi aiuta a non dimenticare, a non dimenticarla. -

- Se n'è andata? -

- Sì, è stato qualche mese dopo, a Giugno, un incidente. Si stava arrampicando su d'una statua, voleva vedere l'espressione dell'angelo scolpito in cima, il suo sorriso. Un'avventatezza che le è costata la vita, in sostanza.La mia compagna non aveva colpa, si era distratta un momento. Eppure,eppure da quel giorno, non mi è stato facile parlarle, senza incolparla senza, pensare che, se ci fosse stata sua madre, nulla di tutto questo sarebbe successo. Come se non dessi già abbastanza la colpa a entrambe, per essersene andate tanto presto. Me le immagino abbracciate sotto quegli stessi cipressi, sai? Mi piace pensare che se ne stiano a guardarli ancora, a testa in giù, insieme, come insieme erano sempre state prima di separarsi. A volte, ho l'impressione o forse nutro il desiderio che fosse capitato l'opposto. Mi spiego, se davvero sono ancora assieme, se c'è qualche possibilità che sia così, sarebbe preferibile che me ne fossi andato io, non loro. Dopotutto, lei si è arrampicata su d'una statua, io fino a non molto tempo fa, me ne andavo ad arrampicare in montagna, la domenica. Tale padre, tale figlia. Si dice così? Ci sarebbe voluto poco, due in cambio di uno e non uno in cambio di due. -

"Mi dispiace"

Sussurrai con un filo di voce, non ero mai stata brava con certe cose. Le condoglianze mi lasciavano indifferente, erano superflue anche se doverose.

Provai all'istante una profonda tenerezza per quell'uomo e, senza accorgermene, mi sfiorai la pancia. 

Non sapevo cos'altro dire, anche se immaginavo, anche se sentivo che si sarebbe conclusa così quella storia. Erano troppo velati i suoi occhi, perché non nascondessero l'amaro della mancanza, quella sincera, quella che separa il riparabile dall'eterno, e pure, sì pure la verità dall'immaginazione.

D'altronde cosa avrei potuto fare? Mi ritrovavo impotente, esattamente come chiunque altro, esattamente come lo era stato lui quando tutto il suo mondo era imploso senza lasciare traccia alcuna del suo passaggio.

- Hai capito? Hai capito perché c'è sempre e ci deve essere sempre una zona velata di grigio fra quel bianco e nero di cui parlavamo prima? La storia è una, sì è innegabile ma a raccontarla saranno sempre le nostre rappresentazioni e questa valigetta, questa, è la sola cosa che non mi fa dubitare del fatto che, dell'odio, del senso di colpa, delle tenerezze e delle litigate, nelle buonanotti e nei buongiorni, esiste ancora qualcosa per cui conservarla. -

- Ho capito, però, quando ricordi qualcosa, di voi due, sotto lo stesso tempo, come fai a dire che sia accaduto veramente e quando è solo piacevole pensare che sia andata diversamente? -

- Non lo so e non mi importa sinceramente, è tutto quello che mi serve. Ad un certo punto, è necessario arrendersi, è necessario lasciarsi andare. E anche tu dovresti tenere ben a mente che non è tanto quanto pesa il senso di colpa da un lato e quanto pesa la speranza dall'altro,quanto, a cosa devi la tua importanza. A cosa devi aggrapparti,perché tu non abbia più incertezze. Se ti è dato scegliere, sceglie bene, oserei dire. Non si hanno mai garanzie però, al di là dell'irreparabile, quanto resta è quanto deve necessariamente bastarci. -

- Ora sì, credo di aver capito. E' difficile. -

- No, è semplicissimo, invero. -

Il caffè era terminato com'era terminato il giorno o quello che ne restava. Il locale, senza che me ne fossi minimamente accorta, s'era immerso nel tardo pomeriggio.

Qualche luce, fuori dalla finestra, indicava l'ora ormai tarda come anche la musica, aveva spento le sue note, sopra d'un bancone che veniva, lentamente, ripulito della giornata appena trascorsa. 

Mi alzai, sistemandomi finalmente la sciarpa al collo e ripulendo il vestito dai resti dello zucchero e di quella conversazione, particolarissima, così come particolare s'era mostrato il gusto di quelle successive considerazioni. 

Lo guardai negli occhi ancora un momento, cercando qualcosa da dire, da aggiungere, per non lasciare nell'imbarazzo un saluto che, ugualmente, si sarebbe rivelato piuttosto scomodo.

- Ora devo andare. Credo si sia fatto tardi per entrambi. Mi ha fatto piacere conoscerti, spero di incontrarti ancora, se mai dovessi sbattere addosso a qualcun altro. Saprò che sarai tu, da quella valigetta. -

- Ed io saprò che non avrai ascoltato le mie raccomandazioni ma, fino ad allora, spero che tu possa prestare più attenzione a dove cammini, storie a parte. -

- Magari mi racconterai cosa contiene, quella tua valigetta? -

- Magari, il prossimo caffè. -

- Sì. -

Gli strinsi la mano, era incredibilmente fredda. Doveva esserne passato di tempo. 

Sul serio, chissà da quanto avevano già iniziato a spegnare il riscaldamento.

Sollevai il cappuccio e mi allontanai. Ma quando raggiunsi la cassa ed estrassi il portafoglio dalla borsa mi resi conto d'aver dimenticato un dettaglio, forse il più importante. Dovevo essere proprio fusa quel giorno.

- Non ci siamo presentati! -

Esclamai

L'uomo mi guardò e scoppiò a ridere di rimando poi mi venne incontro, poggiando una banconota sul bancone e facendo segno alla cassiera di tenere il resto.

- Hai ragione, come abbiamo potuto dimenticarcene? Piacere, Alessandro. -

- Io sono Beatrice, il piacere è mio. -

- Ora è meglio che vai, se fossi mia figlia, non vorrei che andassi in giro di sera completamente sola. -

- Sì, hai ragione e grazie, grazie di tutto. -

- Arrivederci Beatrice. -

- Arrivederci Alessandro. -

Una volta uscita dal locale percepii che l'aria, in quelle poche ore, s'era fatta più leggera, più soffusa. 

La Via era gremita di molte più persone, di molte più luci, di molti più suoni rispetto al solito. Alzai lo sguardo verso le decorazioni lungo la strada, seguendo il filo di quei pensieri che s'erano interrotti a metà, per poi rincorrersi, come avevano fatto in precedenza, come se nulla fosse successo e mi ritrovai a sillabare, passo dopo passo, in direzione della Piazza.

"Poi, un giorno arrivò Lui, il matto. Qualcuno gli raccontò la storia di quelli che sparivano e a lui venne una gran voglia di fare una passeggiata nel bosco."

E così fu.



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