SPOOKY NUMBERS - Il patto degli Arcani
Ho tre anni e i miei genitori sono morti due giorni fa.
L'ha detto il poliziotto che è venuto a bussare di notte alla nostra porta, l'ha detto la vicina accarezzandomi la testa con le lacrime agli occhi, l'ha detto anche la signora vestita elegante in TV.
Un brutto incidente, dicono tutti, mentre sullo schermo scorrono le immagini dei soccorritori che recuperano la Volvo dal fiume in cui è precipitata: un rivo stretto ma impetuoso e pieno di rapide insidiose che taglia in due la foresta e circonda la nostra città.
Io non ho ancora afferrato la gravità del fatto.
Forse perché la nonna — la mia persona preferita al mondo — è così calma e tranquilla da rassicurare anche me.
Solo a tarda sera, dopo il funerale, mentre io mi dispero perché la mamma non viene a darmi la buonanotte, la sento mormorare:
«Gliel'avevo detto. Gliel'avevo detto, no? Ma non hanno voluto ascoltarmi...»
***
Ho tredici anni e mi piace correre, perché quando mi metto le cuffiette nelle orecchie e le scarpe da tennis ai piedi mi sento finalmente libera. Non sono più una ragazzina sgraziata e timida, non sono più "l'orfana".
E sto correndo costeggiando la foresta rigogliosa e viva in una giornata di metà primavera, quando un capriccio bizzarro fa voltare i miei passi. La nonna è sempre molto apprensiva e non vuole che mi addentri tra gli alberi.
"Ma cosa sarà mai, solo una sbirciatina..."
È un bosco vasto e fitto. Oltre a essere molto bello, è anche utile: metà della città fa affari col suo legname e l'altra metà coi turisti amanti della natura che richiama da ogni dove. A volte può sembrare soffocante vivere in un paese totalmente immerso in una gabbia verde, le cui uniche vie d'uscita sono dei ponti sospesi sul fiume che scorre in mezzo alla foresta; altre volte, sembra quasi che gli alberi ci coccolino e ci proteggano.
Le mie scarpe dalla suola di gomma battono con costanza sul morbido terreno umido del sottobosco e il suono penetra anche attraverso la musica che mi martella le orecchie.
Ciaf ciaf ciaf ciaf.
Un fruscio ritmico, placido, rassicurante.
Almeno finché non arrivò in un'ampia radura e realizzo all'istante due cose.
La prima è che mi sono persa e subito un terrore gelido mi paralizza sul posto.
Il secondo pensiero in realtà è più una sensazione che danza sul margine della mia coscienza: c'è qualcosa di strano negli alberi che sono sorti nel bel mezzo dello spiazzo.
Sono contorti e nodosi e la disposizione dei rami e delle protuberanze ricorda vagamente una figura umana colta in una posizione di atroce dolore.
"È la mia fantasia. Solo la mia fantasia."
Eppure non è questo a terrorizzarmi e a farmi scappare da lì come se avessi il diavolo alle calcagna.
Ciò che quasi mi fa perdere il senno, in questo pomeriggio che all'improvviso sembra freddo e umido, è il fatto che quegli alberi sono tutti colorati di rosso dalla punta delle foglie ai solchi che intaccano la corteccia. È un colore viscoso, brillante e liquido. Vorrei poter credere che sia solo vernice e che i piccoli animali — conigli, scoiattoli, corvi — impiccati ai rami siano solo il frutto di uno scherzo di cattivo gusto.
Ma so che non è così. So che quelle piante sono state dipinte col sangue.
Corro per un tempo indefinito, senza una meta. Corro, eppure mi sembra di trovarmi sempre troppo vicina a quella disturbante radura che puzza di morte. Finché, accecata dal terrore e della stanchezza, non inciampo in una radice e rovino a terra. Quando alzo gli occhi penso di sognare: davanti a me, lungo il sentiero, è apparsa mia nonna. Nei suoi occhi grigi, solitamente gentili, leggo un misto di rabbia e apprensione.
«Cosa ti avevo detto sulla foresta e il coprifuoco?» grida, incombendo su di me come un giudice infernale. «Perché nessuna di voi mi ascolta mai?»
Poi nota le lacrime e il tremore che mi scuote e i suoi modi si fanno più dolci e amorevoli mentre mi aiuta ad alzarmi e mi sfila dai capelli le foglie che vi sono rimaste intrappolate.
«Vieni, bambina mia, andiamo a casa.»
«Ma, nonna, ho visto... Bisogna dirlo a qualcuno, scoprire...»
La nonna ride, all'improvviso allegra:
«Oh, so cosa pensi d'aver visto! Quella malattia che colora gli alberi di rosso fa uno strano effetto!»
Mi zittisco, perplessa. E temendo di poter risultare ancora più stramba di quanto già non sono, non faccio mai parola con nessuno della mia disavventura nella foresta.
Ho ventitré anni e ho conosciuto un ragazzo che mi piace molto. È il nostro primo appuntamento e io sono così nervosa che non riesco a smettere di tormentarmi le pellicine delle unghie.
Ma la mia ansia è immotivata, perché ci troviamo davvero bene insieme: parliamo di tutto senza remore, abbiamo gli stessi gusti e gli stessi progetti per il futuro. È il primo che, quando gli racconto dei miei genitori, invece di ritrarsi si china in avanti e mi stringe le mani tra le sue, in silenzio, cercando di confortarmi per quel dolore così lontano nel tempo ormai, eppure sempre vicino al mio cuore.
È una serata magnifica, in cui il mio destino cambia per sempre. Non solo perché capisco di essere innamorata di lui, non solo perché durante la passeggiata a un certo punto ci fermiamo, ci guardiamo negli occhi e ci baciamo con l'impacciato imbarazzo di due adolescenti.
È una notte fatale perché neanche mezz'ora dopo mi chiamano dall'ospedale: mia nonna è caduta e ha sbattuto forte la testa.
Però non era a casa, dove l'ho lasciata, bensì nel bosco; l'hanno ritrovata svenuta sul ciglio della strada due ragazzi che stavano tornando da una festa.
Mentre corro all'ospedale col cuore in gola, non posso fare a meno di chiedermi cosa ci facesse fuori, da sola, nel cuore della notte.
E mentre aspetto che si svegli insieme al mio nuovo ragazzo, per un capriccio della mia mente sconvolta rivedo la radura e gli alberi rossi e le prede impiccate ai rami.
Le mani e il viso di mia nonna sono coperti della stessa sostanza e ora lo posso dire con certezza: è senza dubbio sangue.
Perché, nonna?
Perché?
***
Ho trentatré anni, un marito, un cane e una bellissima bambina di appena tre anni. Vivo ancora nella stessa casa in cui mia nonna mi ha cresciuta, l'ultima della via, quella che più delle altre confina con la foresta.
La nonna è ancora con noi, anche se non del tutto: quella brutta caduta, dieci anni fa, era in realtà il preludio di una lenta degenerazione senile. A poco a poco ha perso tutte le sue memorie e ora riesco a cogliere solo qualche frammento della donna energica e amorevole che era.
Va da sé che non ho mai potuto chiederle spiegazioni, né sul perché fosse all'aperto in quella notte tremenda, né sul sangue e la radura misteriosa. Ma col passare degli anni ho pensato sempre meno a questa faccenda, la mente angustiata da problemi più pressanti: gli alberi si ammalano e, con essi, anche gli animali e gli uomini; l'economia langue e la città sembra avvizzire ogni giorno di più.
«Mamma?»
La mia piccola Caroline si affaccia sulla soglia della stanza della sua bisnonna, riscuotendomi dai miei pensieri. Lancio un'occhiata alle iridi spente della nonna e sospiro: anche oggi non c'è stato verso di farle mangiare alcunché.
«Cosa c'è, amore mio?»
«Posso andare fuori a giocare?»
«No, Caroline, non ho ancora finito qui!»
«Per favoreeeeee! Ho finito tutti i compiti e resto in giardino, promesso!»
«Perché non aspetti che tuo padre torni a casa e giochi un po' con lui?»
«Ma mancano ancora tante ore! E poi papà non vuole mai giocare con me, adesso!»
Mi si stringe il cuore a quelle parole, perché so che sono la verità: mio marito lavora nella più grande falegnameria della città e ha paura che lo licenzino da un giorno all'altro, ora che la foresta sta morendo. Quando torna a casa porta con sé l'umore nero della città in rovina.
«Va bene, tesoro. Non ti allontanare, io scendo subito.»
Mi alzo per sparecchiare e portare il piatto ancora pieno in cucina, quando la nonna stringe i braccioli della poltrona con uno scatto improvviso.
«Amélie!» grida, con voce gracchiante e distorta.
Rabbrividisco e aggrottò la fronte, confusa: di solito mi confonde con Trudy, mia madre, ma non ho idea di chi sia quest'Amélie.
«No, nonna, sono Susan... Tua nipote.»
La nonna boccheggia, confusa, i pugni contratti nello sforzo di ricordare.
«Susan» sibila poi, annuendo tra sé e sé. «Dovevo dirti qualcosa, ma non ricordo... Certo, Susan, non Amélie. Amélie è morta, l'ho uccisa io.»
Il piatto mi scivola dalle mani e s'infrange sul pavimento, spargendo minestra dappertutto.
«Nonna, non sai quel che dici!» sbotto, ora spaventatissima. La nonna non ha mai avuto quel luccichio strano negli occhi.
«L'ho uccisa» ripete, assorta. «Le ho spaccato la testa e l'ho impiccata ai rami dell'albero più alto.»
«Stai delirando» dico, ma con orrore mi rendo conto che mia nonna è più lucida ora di quanto sia stata negli ultimi cinque anni. «Chi è Amélie? Perché l'avresti mai dovuta uccidere?»
«Amélie era mia sorella» spiega lei, quasi fosse una cosa ovvia. «E ho dovuto farlo. Doveva farlo mia madre, in realtà, ma non ha avuto il coraggio... Non ha mai avuto il coraggio di fare nulla... Non come me. Quando mio padre ci mise in mano due coltelli e ci chiese di scegliere chi dovesse sacrificarsi, io non ho avuto dubbi. Volevo... Volevo vivere...»
Come dieci anni fa, solo una parola mi affiora alle labbra:
«Perché?»
«Per la maledizione, sciocca bambina» mormora la nonna, annoiata. «Cosa credi che tenga in vita questo posto? La foresta era morta, completamente morta, quando i nostri antenati arrivarono qui. Strinsero un patto con gli Arcani, gli spiriti del bosco, un patto che avrebbe garantito prosperità a entrambe le parti, con qualche sacrificio. Legname e prede per noi e... Sangue per gli Arcani.»
«Gli animali...»
«Oh, quelli sono solo pasti temporanei, non li soddisfano a lungo. La nostra famiglia è stata benedetta dalla fertilità del suolo, ma tale sono ha un prezzo: una figlia ogni generazione va sacrificata.»
«Nonna, ora basta. Tutto questo non ha senso!»
«Ah no?»
Non posso più negarlo, il ghigno sul volto di mia nonna è malvagio, folle e sinistro.
«Perché credi che abbia ucciso la mia gemella, allora? Perché nascono solo femmine in questa famiglia? Perché credi che i tuoi genitori abbiano tentato di fuggire dal patto, finendo per essere uccisi dagli Arcani? Tua madre era incinta e pur di non scegliere cercò di scappare, lasciandoti indietro... E così facendo ha sacrificato la bambina che portava in grembo. Sono creature golose, gli Arcani. Amano il sangue fresco e giovane, perché da esso traggono più forza.»
Un dubbio improvviso mi coglie, orribile, devastante.
"Non possono saperlo..."
«Loro conoscono ogni cosa che accade entro i confini della foresta» mi contraddice la nonna, con tono sognante. Il suo momento di lucidità sta rapidamente svanendo e la malattia avanza, implacabile.
«Sanno chi va e chi resta, chi nasce e chi muore. Nessuno può sottrarsi al loro sguardo!»
Ma io già non la sto più ascoltando, sto scendendo le scale a rotta di collo gridando a gran voce il nome di Caroline.
«No, no...» balbettò, stringendomi una mano sul ventre, lì dove sta crescendo la mia secondogenita, mentre barcollò fuori dalla porta d'ingresso.
È troppo tardi: nel giardino deserto mi accoglie il frusciare beffardo dei rami che hanno ghermito mia figlia e so, con devastante certezza, che non la vedrò mai più viva.
Storia ultimata all'ultimo minuto per il contest Spooky Numbers di ClubInchiostro , per cui mi erano state assegnate tre parole: foresta, maledizione e amnesia. Ammetto di aver stiracchiato un pochino l'ultimo concetto, dato che l'amnesia della nonna è in realtà dovuta all'Alzheimer.
Enjoy ❤️
Crilu
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